No, non è Max Gazzè. Siamo sul pianeta Bielorussia, che dopo 20 anni di dittatura sembra effettivamente un arcipelago avulso dal resto d’Europa. Uno stato pervasivo, onnipresente e onnisciente non dovrebbe in teoria andare d’accordo con le nuove tecnologie. Invece, a sorpresa, nonostante la libertà di espressione sia una chimera, nel Paese è in corso una vera e propria rivoluzione digitale. Viber, una App che consente di mandare messaggi e parlare gratis con il cellulare, è nata proprio qui. I programmatori bielorussi sono molto richiesti. Insomma, il nuovo corso vive spalla a spalla con i relitti del socialismo. Un Paese che esporta high-tech e che nel 2012 è risultato essere tra i primi 30 al mondo per forniture di servizi di sviluppo di software per clienti stranieri. Una dittatura è difficile da mantenere quando le informazioni girano velocemente e le comunicazioni tra le persone sono semplificate dalle nuove tecnologie. La primavera araba, con tutti i suoi limiti e mitizzazioni occidentaliste, ne è stato un esempio. La rete mette in contatto ed in teoria potrebbe essere una miccia per innescare un cambiamento democratico, oppure, essere una semplice valvola di sfogo degli attivisti, degli oppositori, dei resistenti, che potrebbe risultare fine a se stessa e non portare a grossi effetti nella realtà. Da un like al fare potrebbe esserci un abisso insormontabile. Vi segnalo l’efficace e saggia analisi di Iryna Vidanava “Living in the matrix”.
Il tessile cambia rotta
Ci ricordiamo tutti la tragedia del Rana Plaza in Bangladesh di qualche mese fa. Parliamo di persone che hanno perso la vita per confezionare dei vestiti, schiavi per noi che vogliamo quel tutto, senza chiederci a che costo. Quando si parla di tessile, pensiamo a Paesi come Bangladesh, Cina, Cambogia. A quanto pare, in questi Paesi, per fortuna, le cose stanno cambiando: aumentano le tutele dei lavoratori e ci sono gli occhi dell’opinione pubblica che sono più vigili sulle condizioni di lavoro. Pertanto marchi come H&M stanno cercando alternative, più economiche e più vantaggiose, naturalmente non per chi lavora. L’ultima frontiera è l’Etiopia, con un’economia in forte ascesa. L’industria tessile ha radici nel periodo coloniale italiano, le prime fabbriche risalgono al 1939. Rispetto a Marocco e Tunisia, che producono articoli a buon mercato, l’Etiopia ha costi del lavoro più bassi della Cina, una popolazione di circa 80 milioni di abitanti.. tutta manodopera da sfruttare e allora “piatto ricco mi ci tuffo”, poi il mare è vicino e i prodotti riescono a raggiungere più in fretta la destinazione finale. Altra magnifica idea: coltivare in loco il cotone con cui fabbricare le stoffe e i capi. In Etiopia producono già altri due colossi Tesco e Primark. Sarà la nuova Bangladesh? Vedremo, come si evolverà la macchina del tessile, per ora l’Etiopia è solo complementare alle produzioni asiatiche. Anche se le infrastrutture etiopi (strade, impianti di produzione e allacciamenti alla rete elettrica) sono ancora poco sviluppate, il futuro per le multinazionali dello sfruttamento appare roseo. Inoltre, i mercati dell’Africa sono appetibili anche come consumatori di merci… non dimentichiamo l’altro lato della medaglia. Alla faccia dei diritti e del rispetto della dignità, della salute umana e dell’ambiente.
La deriva della questione maschile
La bagarre in aula, in seguito alla ghigliottina della Boldrini sul decreto Imu-Bankitalia, hanno entrambi degli aspetti inquietanti e spiacevoli. Le parole e i gesti esplosi in questo frangente dimostrano come ormai urge un capovolgimento culturale, un’inversione a U sul tema rapporto uomo-donna. Il questore di SC Stefano Dambruoso ricorre alla forza fisica contro la 5stelle Loredana Lupo (schiaffo o spintone non contano, come non contano i motivi addotti dall’autore). Vi allego la scena, indegna. La Sarti, compagna di partito della Lupo, aggiunge benzina sul fuoco, rivelando di aver sentito la seguente frase: “Nella mia vita ho picchiato tante donne, non sei la prima”. Nel contempo, un altro 5stelle Massimo Felice De Rosa irrompeva nella Commissione Giustizia, aggredendo le deputate del PD, accusandole di essere lì solo per aver elargito prestazioni particolari. La tensione maschile, le frustrazioni di questi ominicchi vengono scaricate sulle donne, specie se nemiche politiche. Molto più semplice e, per alcuni uomini delle caverna, anche scusabile. Non esiste nulla di difendibile e su questo dovremmo essere tutti concordi. Le donne, in Parlamento e non, dovrebbero essere compatte nel condannare questo tipo di prassi. Il machismo non deve avere spazio, l’idolatria del maschio forte, dominante e violento deve essere archiviata. E questo è compito innanzitutto dei genitori, insieme e all’unisono. Ogni tanto dovremmo ricordarci che occorre costruire un tessuto comune (ancora una volta insieme) in grado di prendere decisioni responsabili e utili per la nostra Italia disastrata. Le donne non se la passano bene nella bozza dell’Italicum, che prevede un 50/50 nelle liste ma senza alternanza tra sessi. In Parlamento si dovrebbe dare l’esempio e non assistere alla riproposizione di schemi già visti, vecchi di secoli di barbarie culturale. Non dobbiamo farci accuse reciproche, invettive sessiste perché non portano da nessuna parte e sviliscono qualsiasi tentativo di cambiamento o soluzione. Il rischio è che si inneschino pericolosi precedenti e che comportamenti illeciti e meschini divengano consuetudine. Vi suggerisco in merito l’ottimo pezzo di Giulia Siviero sul Manifesto.
Freno a mano dell’Italia sul rientro dei capitali svizzeri
Vi ricordate quando si parlava di recuperare dei soldini attraverso un accordo con la Svizzera, per il rientro dei capitali (di evasori italiani) depositati nelle banche elvetiche? A quanto pare per il governo Letta non è più una priorità. In ballo ci sono molti contenziosi su questioni fiscali e sul trattamento dei lavoratori italiani nel Canton Ticino.
Oggi Letta era atteso a Berna per il Forum di dialogo fra la Svizzera e l’Italia, durante il quale era prevista anche la firma su un accordo fra i due Paesi su trattamento fiscale, segreto bancario e i lavoratori transfrontalieri. Letta non ci sarà e sarà sostituito da Fabrizio Saccomanni, ma l’accordo probabilmente verrà rinviato.
Con il varo del decreto italiano che disciplina le dichiarazioni spontanee dei contribuenti e con la legge svizzera che vieta alle banche di gestire fondi frutto di frode fiscale, sembra che si voglia porre fine al segreto svizzero in merito di capitali italiani. Con il decreto italiano, molti evasori sono di fatto incoraggiati a far emergere e a riportare in Italia i soldini, pagando al fisco solo tra il 13-14% (meno di quando avverrebbe in caso di un accordo tra i due Paesi: 25-30%).
Le pressioni arrivano anche da oltreoceano: gli Stati Uniti sembrano sul piede di guerra nei confronti delle banche svizzere che proteggono i reati fiscali. La Svizzera forse si sente accerchiata e ha capito che non è più così tanto conveniente proteggere i patrimoni di dubbia origine. Ricordiamoci anche che la Svizzera continua ad essere sulla black list internazionale, che non è proprio un bollino di qualità. La Svizzera si avvia verso la rimozione del segreto sui conti, ma la preoccupazione dell’Italia (potrebbe essere una delle ragioni al freno delle trattative) è che la Svizzera, una volta perso il vantaggio bancario, si possa dedicare alla costruzione di un paradiso fiscale, con gli annessi e connessi. Il timore è che altre aziende scelgano di spostare la propria sede in Svizzera.
Găgăuzia unde?
Stiamo assistendo a una sorta di scontro sui confini ideali tra Unione Europea e ciò che fu l’URSS. Non è proprio una rivisitazione della cortina di ferro, ma è certo che la Russia sta deliberatamente cercando di rafforzare le proprie posizioni di egemonia economica, politica e culturale su quei territori dell’Europa orientale. Abbiamo in precedenza affrontato il tema, parlando dell’Ungheria e dell’Ucraina. Oggi, passiamo alla Repubblica Moldava o Moldova, che dir si voglia (questioni di geopolitica). All’interno di questa piccola realtà di circa 3 milioni di abitanti, esistono due regioni autonome: la più leggendaria Transnistria e la Găgăuzia. Quest’ultima, a statuto autonomo dal 1995, sta mostrando di recente una certa allergia al progetto della Repubblica che prevede un tentativo di avvicinamento all’UE, spalleggiato fortemente dalla Romania. La questione è molto delicata e agli occhi di noi europei, difficilmente comprensibile. Ci sono di mezzo varie componenti: una di natura culturale, in quanto i gagauzi sono una popolazione di origine turca, “russificata”, mentre la maggioranza si potrebbe assimilare ai romeni. Poi, naturalmente ci sono dei fattori economici in gioco. La frangia gagauza che si oppone all’integrazione europea ha indetto autonomamente per il prossimo 2 febbraio un referendum, per affermare il principio di autodeterminazione gagauzo nella scelta tra UE e Unione Euroasiatica (una nascente unione di alcune ex repubbliche sovietiche, che dovrebbe nascere nel 2015, sotto il manto protettivo di Putin). Fra resistenze e intoppi vari, la situazione interna non è per niente rassicurante. Certamente l’integrazione interna di questi Paesi non è mai stata affrontata seriamente, per questo permangono forti frizioni e spinte autonomiste, che a noi appaiono francamente anacronistiche, ma che sul territorio accendono gli animi. Putin da statista di stampo ottocentesco è abile nello sfruttare a seconda del proprio interesse il concetto di autodeterminazione delle minoranze, salvo poi razzolare male (vedi Georgia e Cecenia).
Per approfondimenti:
– http://ziarulnational.md/ce-vor-gagauzii/
– http://www.friendsofpresseurop.eu/2014/01/la-gagaouzie-pour-les-nuls.html
– http://www.presseurop.eu/it/content/article/4356481-come-l-europa-ha-perso-l-ucraina
Una vergogna tutta italiana
Il prossimo 19 febbraio ricorrono i 10 anni dalla nascita della Legge 40, che è nata male, ma che oggi subisce un ulteriore affondo, andando a colpire uno degli elementi più assurdi della legge: è legittimo che alle coppie fertili siano negati i trattamenti della FIVET? Il tutto è partito da una coppia di portatori di distrofia muscolare, che si era vista negare la possibilità di ricorrere alla FIVET e alla diagnosi pre-impianto, solo perché erano considerati una “coppia fertile”. Il giudice Filomena Albano del Tribunale di Roma ha posto la questione alla Consulta. Ancora una volta una legge ha creato delle discriminazioni, anche perché ha agevolato chi aveva le disponibilità economiche e poteva permettersi di andare nelle cliniche all’estero. In passato era già caduto il limite di embrioni da poter produrre (in principio erano 3), poi l’obbligo di impiantarli tutti contemporaneamente. Ad aprile la Consulta si dovrà esprimere sul divieto dell’eterologa. In tutto, si sono susseguite 28 sentenze dall’approvazione.
Alcuni punti della Legge:
– La legge consente la fecondazione assistita quando è impossibile risolvere i problemi di infertilità con altri metodi.
– Il metodo è consentito solo a coppie etero, maggiorenni, sposati o conviventi, in età fertile.
– La diagnosi pre-impianto non è vietata, ma è proibita in base all’art. 13 qualsiasi selezione a scopo eugenetico sugli embrioni.
– La legge proibisce la fecondazione eterologa, con seme e/o ovulo esterni alla coppia, e qualsiasi sperimentazione sull’embrione.
Aggiornamento del 24.02.14. Un articolo da L’Unità. Ringrazio il sito www.zeroviolenzadonne.it.
La globalizzazione amica della pace?
Riprendo ed estendo un mio post del 18 gennaio. La domanda che vorrei porvi è la seguente: “La globalizzazione può garantire la pace?”. La stessa domanda se l’era posta il giornalista inglese Norman Angell nel suo saggio La grande illusione, del 1909. Il libro prospettava un futuro di pace e di prosperità. I motivi? In un mondo così globalizzato la guerra diventava economicamente svantaggiosa, a rischio di ingenti perdite, difficilmente finanziabile: un evento da cui nessuno ne sarebbe uscito vincitore. Sappiamo com’è andata a finire la storia. Oggi la storica canadese Margaret MacMillan, nel suo The War that ended peace, ripercorre i passi di Angell e cerca di comprendere i punti deboli della sua analisi, che portarono al fallimento delle sue rosee previsioni. Sul piano economico aveva ragione, ma non comprese gli svantaggi delle interdipendenze create dalla globalizzazione. La MacMillan analizza le trasformazioni che investirono la società e l’economia degli inizi del XX secolo, compreso il darwinismo sociale, e ne evidenzia gli aspetti che portarono all’esplosione del nazionalismo, dell’antisemitismo e del militarismo. Crisi politiche, personalità statali deboli o con manie di potenza, un Regno Unito sul viale del tramonto, nuovi equilibri geopolitici non più eurocentrici ma che si avviavano ad essere mondiali, una società percorsa da forti contraddizioni e da spinte al cambiamento, contraddistinsero i primi anni del ‘900. Neppure i legami economici che legavano molti Paesi furono in grado di scongiurare i conflitti. Oggi torna con prepotenza la tematica toccata dalla MacMillan, perché ci sono ancora una volta personalità (Thomas Friedman del NYT) che vedono il fenomeno delle multinazionali come un baluardo anti-conflitto. In realtà, come sostiene la storica, proprio questi profondi cambiamenti socio-economici in atto a livello mondiale possono provocare delle reazioni nazionaliste, movimenti reazionari, di chiusura e di strenue difesa del proprio “bene locale”. Non è difficile scorgerne i segnali.
Vi segnalo un articolo che parla del saggio della MacMillan.
Quando Topolino andava in Abissinia
Oggi, in occasione del Giorno della Memoria, rispolveriamo un vecchio e inquietante motivetto di epoca fascista, intitolato Topolino va in Abissinia. Un modo per non dimenticarci di cosa fu veramente il Colonialismo italiano. Ringrazio Igiaba Scego per questo suo articolo.
Con il tempo si rimuovono i ricordi, si edulcora il passato e alcuni assolvono i colpevoli dai crimini che vennero commessi. Persino Topolino poteva servire per normalizzare la violenza di quell’epoca.
Le responsabilità del maschio
Mi rendo conto che le tesi illustrate da Torreblanca nel suo articolo potrebbero suscitare delle forti e opposte reazioni, ma vorrei sottoporlo alla vostra attenzione. Il pezzo è ricco di fonti e dati, può diventare, a mio avviso, un buon punto di partenza per aprire un dibattito sui vari punti rilevati dall’autore. La tesi di partenza è che i genocidi più grandi della storia non sono stati compiuti con missili o con armi nucleari, ma con armi rudimentali come i machete, fabbricati in Cina e adoperati per il genocidio dei Tutsi in Rwanda. Questo per ridimensionare il processo, se pur meritevole, di negoziazione con l’Iran in merito al suo programma nucleare. Torreblanca abilmente utilizza questo incipit per traghettarci su una tematica ben più ampia: gli esseri umani, dalla notte dei tempi, hanno avuto una incredibile capacità di uccidere, anche massivamente. Il passo successivo dell’autore è spingerci ad analizzare il “genere” maggiormente responsabile di tali crimini. Secondo i dati riportati, si evince che si tratta del genere maschile: los varones come gli autori della stragrande maggioranza di queste morti. Certamente ci sono state storicamente delle compartecipazioni femminili nei conflitti bellici, ma si tratta di una gota en un océano. Allo stesso modo si possono osservare le quote maschili predominanti per quanto concerne omicidi e crimini di vario tipo. Torreblanca effettua un ulteriore salto per analizzare il capitolo della violenza sessuale contro le donne, frutto di una cultura patriarcale e dominata dagli uomini. Come se ci fosse “Una guerra invisibile di uomini contro donne”. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU (risoluzione 1.350 del 31/10/2000), aveva dichiaratamente evidenziato la necessità di una protezione speciale per le donne e le bambine in zone di guerra e del loro ruolo nella risoluzione dei conflitti e nella costruzione della pace. Il dibattito su questi temi e sui femminicidi (parola che io non amo particolarmente) spesso è a corrente alternata. Torreblanca ci lascia con una domanda: ¿Son los varones armas de destrucción masiva?
È come se un’educazione secolare alla violenza, all’aggressività, al dominio unita a un inconscio premio per una serie di stereotipi maschili “sbagliati”, dovessero in qualche modo sfociare: in una guerra, contro il vicino di casa, contro lo straniero, verso i figli e le donne.
Ricordare, come impegno per plasmare un presente migliore
“…e si deve cominciare da noi stessi, ogni giorno da capo.” – ETTY HILLESUM
Il Giorno della Memoria è nato per ricordare, ma sarebbe un evento sterile e inutile se non lo si rivestisse di un significato più ampio. Ricordare affinché non si ripeta, ma con un tassello in più. Occorre ripercorrere con la memoria ciò che è stato l’Olocausto, ma arricchendolo di punti di contatto con la nostra storia più recente e con la più stretta attualità. Questo per evitare il rischio che con il passare degli anni questa memoria appassisca o diventi opaca. Legare il passato all’oggi, alla politica e alla vita quotidiana aiuta a dare linfa all’albero della memoria. Non può diventare un rito ripetitivo che si svuota di senso. Il percorso che dobbiamo intraprendere passa per la nostra capacità di volgere giornate come questa in un impegno per trasformare un po’ il nostro presente e costruire un futuro per le prossime generazioni. In questo modo riusciremo a coinvolgere tutte le generazioni e sarà un lavoro costruttivo e non passivo. Dobbiamo ascoltare ciò che è stato e cogliere l’occasione per parlare dei tanti genocidi dimenticati e velocemente rimossi. Tanto per capirci, quanti studenti oggi sono a conoscenza di ciò che è avvenuto in Rwanda nel 1994? Questa è la base necessaria per porre le basi di un discorso serio, coraggioso e sgombero da pregiudizi, su come costruire una prevenzione dei genocidi e una maggior consapevolezza di ciò che avviene in questo pazzo mondo, ancora così dilaniato da crimini contro l’Umanità. In Italia c’è un’attenzione speciale, e dovremmo una volta tanto essere fieri di come questa giornata del 27 gennaio viene celebrata e sentita da noi. Se ne parla, ci si interroga e a mio parere la riflessione non può che essere un buon segnale, nonostante, spesso anche da noi, alcuni neghino o tentino di ridimensionare le responsabilità degli italiani in quei fatti. Se guardiamo altrove, la situazione non è rosea. In Francia, è di questi ultimi giorni il caso dello stop agli spettacoli del comico Dieudonné (qui). Per non parlare di Paesi del Centro Europa, dove l’antisemitismo era stato temporaneamente congelato dai regimi totalitari. Qui l’antisemitismo non è mai scomparso, perché non è mai stato affrontato seriamente e non si sono mai individuati i responsabili ei collaboratori dei nazisti. Pensiamo per esempio all’Ungheria. Sarebbe interessante approfondire la figura e le tesi del politico ungherese István Bibó, antifascista e tra i membri del governo Nagy nel 1956, il quale sosteneva che fenomeni come l’antisemitismo fossero una sorta di isteria collettiva (ad esempio lo scaricare sugli altri le responsabilità dei propri errori), che possono sfociare in una isteria politica. Questi conflitti irrisolti si è preferito nasconderli sotto il tappeto. Questo silenzio non rende possibile una rigenerazione morale di un Paese. Per non banalizzare la Shoah, occorre unirsi e riflettere su tutti gli altri genocidi che si sono compiuti ed evitare che vengano rimossi dalla nostra memoria. Nulla può essere mai considerato lontano da sé quando si tratta di umanità.
Per non calare il sipario
Il 6 febbraio è la Giornata Mondiale contro le Mutilazioni Genitali Femminili (MGF). Un tema delicato e complesso, sicuramente da approfondire. Anche nel nostro Paese.
Alcuni link utili:
- http://www.unicef.it/doc/371/mutilazioni-genitali-femminili.htm
- http://www.amnesty.it/mutilazioni-genitali-femminili
- http://www.npwj.org/it/FGM/Cosa-sono-le-mutilazioni-genitali-femminili-MGF.html
- http://www.un.org/News/briefings/docs//2012/121220_FGM.doc.htm/
- http://www.endfgm.eu/en/
Il Rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sulle MGF: http://www.who.int/mediacentre/factsheets/fs241/en/
Un Documentario sull’argomento: http://vimeo.com/11058962
Per indagare e diffondere la conoscenza sull’argomento, il SISM – Segretariato Italiano Studenti di Medicina (membro IFMSA) ha preparato un questionario. Qui
Il questionario è pensato per gli studenti, ma è utile diffonderlo.
Qui il reportage fotografico intitolato Taken, di Meeri Koutaniemi.
La cura
Mi è capitato di leggere la rubrica “In una parola” a cura di Alberto Leiss sul Manifesto, il 21 gennaio. Al di là della discussione linguistica sull’uso dilagante dell’inglese, con termini come jobs act o lifelong learning, mi ha colpito un altro tema. Il tutto ruota attorno al libro a cura di Laura Balbo, dal titolo “Imparare, sbagliare, vivere. Storie di lifelong learning“. Si tratta di un libro che riunisce storie di donne, studiose di scienze sociali, che negli anni 70-80 avevano dato vita al Griff (gruppo di ricerca sulla famiglia e la condizione femminile). In questo testo si sono raccontate a distanza di anni dall’esperienza del Griff e vi hanno condensato le loro vite, eviscerando il loro desiderio-necessità di continuare a imparare e disimparare, a cambiare, grazie a quella tipica ‘capacità di cura’, che confina con quella introspettiva. Si tratta di doti in cui la donna si è esercitata da sempre, forse grazie al suo ruolo di madre. Questa capacità non consiste nel dimenticare o nel rimuovere i conflitti, bensì nel riconoscerli e nell’affrontarli. Questo dono va coltivato e si affina con gli anni, serve a guardarsi dentro, a rapportarsi con gli altri e il mondo esterno, con gli accadimenti e con il trascorrere del tempo. Si tratta di un lento lavoro volto a smussare gli angoli e le crepe che ci rendono più fragili oppure diventano per noi un fardello troppo pesante. Qui subentra il coraggio di mettere in discussione l’idea di noi stessi che ci siamo cuciti addosso, o in cui ci hanno rinchiuso. È un percorso che dura per tutta la nostra vita, ma va fatto periodicamente (come le pulizie di primavera per intenderci) e un passo per volta, per non far ingolfare il motore della nostra anima con scorie inutili e dannose.
La chiamano sussidiarietà, ma il suo nome è Pilato
Non si tratta certamente di una semplice coincidenza se ultimamente il tema del diritto alla salute della donna viene messo costantemente in discussione un po’ ovunque. Perché quando si parla di garantire la possibilità di un aborto sicuro stiamo parlando di salute. Non è impedendolo o rendendolo un percorso ad ostacoli che si tutela la donna. L’aborto non è stato, non è e non sarà mai un evento ‘banale’ nella vita di una donna, perché è un qualcosa con cui dovrà convivere ogni giorno e solo chi non ha a cuore la salute della donna può varare leggi come in Spagna o scatenare ciò che sta accadendo in Francia. C’è chi cavalca questa ondata reazionaria sulla pelle delle donne. Abbiamo vigilato poco e male se oggi ci troviamo sotto questo pesante attacco e vengono rimessi in discussione diritti faticosamente raggiunti. E poi c’è il fallimento a livello di Unione europea, che non è stata in grado di fornire una cornice legislativa unitaria per queste tematiche. Questo vuoto a livello comunitario apre le porte a una legislazione nazionale in balia di venti disparati e pericolosi. Una legislazione eterogenea e ballerina: 28 leggi diverse in materia di Ivg, Malta e Cipro dove è illegale, Irlanda e Polonia in cui è fortemente limitata. Dopo la bocciatura della mozione Estrela, l’Europa si è tirata fuori lasciando la questione agli stati membri. E la chiamano sussidiarietà.
Il 1° febbraio le donne spagnole hanno organizzato il Treno della Libertà e verrà consegnato (al Capo del Governo, al Presidente del Parlamento, alla Ministra Ana Mato, al Ministro Alberto Ruiz Gallardón (autore della proposta di legge) e ai vari gruppi parlamentari) questo documento per protestare contro il progetto di legge del governo Rajoy.
Sempre il 1 febbraio a Milano è previsto un presidio di donne sotto il consolato spagnolo, per solidarietà alle donne spagnole.
Tra il dire e il fare c’è di mezzo il CCNL
Fatta la legge, trovato l’intoppo. Quando ci si lamenta del fatto che non si approntino leggi per agevolare i neo genitori, si dovrebbero anche considerare tutte le tappe successive che rendono o meno attuabili determinati provvedimenti. L’ultimo caso, riguarda il congedo parentale: la Legge di stabilità del 2013 (228/2012) ha previsto di poterne usufruire anche su base oraria e non più solo giornaliera. A ormai 12 mesi di distanza questa nuova modalità non è mai stata applicata per mancanza di recepimento sui CCNL, nonostante il Ministero del Lavoro abbia fornito un’interpretazione molto ampia, che non richiederebbe l’esclusiva gestione a livello nazionale, ma che permetterebbe di regolare la questione anche a una contrattazione di secondo livello. A questo punto, si apre un altro capitolo: quanta forza contrattuale possono avere i lavoratori in sede aziendale, soprattutto se il sindacato latita o è assente. E poi non mi venite a parlare di rappresentanze sindacali a livello di Consigli di amministrazione. Sono tutte chimere, che resterebbero solo sulla carta. Mi permetto di aggiungere che lo scoglio da superare non è la legislazione, ma il contratto e quel che resta dello Statuto dei lavoratori. Perché non tutti hanno la fortuna di essere sotto il tetto di un CCNL o di avere le tutele dei contratti a tempo indeterminato.
Fonte: Sole24ore del 20/01/14 di Alessandro Rota Porta a pag. 19
Aggiornamento: crescono i congedi parentali dei papà (qui), ma guardate bene le fasce d’età e soprattutto la spesa italiana rispetto agli altri Paesi.
Quale ripresa senza occupazione?
Siamo tutti in attesa di una notizia che stenta ad arrivare. Tutti ci dicono che l’uscita dal tunnel è vicina, lasciandoci intravedere la luce, ma ad oggi le cose stanno diversamente. Soprattutto se la ripresa non verrà accompagnata da una diminuzione del tasso di disoccupazione, in particolare per quella fascia di “giovani adulti” tra i 25 e i 34 anni, che sembrano aver subito più di tutti gli effetti della crisi. Per non parlare poi dell’incremento dei Neet, dei giovani che non studiano e non cercano lavoro. Se e quando riprenderà a girare la nostra economia, dovremo occuparci di come traghettare oltre il baratro anche la generazione perduta e farla giungere in una zona più tranquilla.
Fonte: La Repubblica http://www.repubblica.it/economia/2014/01/20/news/lo_spettro_di_una_ripresa_senza_occupazione_in_italia_contrazione_del_lavoro_per_altri_2_anni-76447522/?ref=HREC1-7 e il rapporto Global Employment Trends 2014 dell’Ilo
Ungheria, un modello per chi?
A quanto pare la Russia ha messo lo zampino in un altro Paese, l’Ungheria, che diciamo la verità, storicamente, non è mai stata filo-russa. È stato annunciato un prestito russo trentennale di 10 miliardi di euro per la costruzione di due nuovi reattori nucleari in Ungheria (qui). Ma per comprendere meglio il quadro generale, occorre tornare un attimo indietro, quando la stessa Ungheria, che non se la passa benissimo sia sotto il profilo economico che delle sue istituzioni democratiche, tra il novembre del 2011 e il gennaio del 2012, nella persona del premier Orbán, aveva chiesto un secondo prestito al FMI (dopo il primo prestito di 20 miliardi di euro del 2010 da parte del FMI, già restituito, che aveva di fatto salvato l’Ungheria dalla bancarotta), mai concesso. A non saper né leggere, né scrivere, non mi sembra tanto casuale il fatto che oggi i soldini arrivino da Mosca. Si tratta solo dell’ultimo capitolo di un lento avvicinamento alla Russia (qui). In questi anni Orbán si è presentato ai propri sostenitori e anche ad alcuni gruppetti di destra sparsi per l’Europa come il “ribelle”, il salvatore della patria e colui che è stato in grado di uscire dalla crisi avvalendosi delle sole forze nazionali (qui). Sono infatti noti i suoi contrasti con l’UE. Ma a quanto pare la faccenda non è proprio così e occorre stare attenti a imboccare la strada dell’autarchia e dell’autosufficienza, perché nella realtà i giochi non sono poi tanto semplici. I tempi non permettono colpi di testa o una “uscita” à la carte.