Mi è capitato di leggere la rubrica “In una parola” a cura di Alberto Leiss sul Manifesto, il 21 gennaio. Al di là della discussione linguistica sull’uso dilagante dell’inglese, con termini come jobs act o lifelong learning, mi ha colpito un altro tema. Il tutto ruota attorno al libro a cura di Laura Balbo, dal titolo “Imparare, sbagliare, vivere. Storie di lifelong learning“. Si tratta di un libro che riunisce storie di donne, studiose di scienze sociali, che negli anni 70-80 avevano dato vita al Griff (gruppo di ricerca sulla famiglia e la condizione femminile). In questo testo si sono raccontate a distanza di anni dall’esperienza del Griff e vi hanno condensato le loro vite, eviscerando il loro desiderio-necessità di continuare a imparare e disimparare, a cambiare, grazie a quella tipica ‘capacità di cura’, che confina con quella introspettiva. Si tratta di doti in cui la donna si è esercitata da sempre, forse grazie al suo ruolo di madre. Questa capacità non consiste nel dimenticare o nel rimuovere i conflitti, bensì nel riconoscerli e nell’affrontarli. Questo dono va coltivato e si affina con gli anni, serve a guardarsi dentro, a rapportarsi con gli altri e il mondo esterno, con gli accadimenti e con il trascorrere del tempo. Si tratta di un lento lavoro volto a smussare gli angoli e le crepe che ci rendono più fragili oppure diventano per noi un fardello troppo pesante. Qui subentra il coraggio di mettere in discussione l’idea di noi stessi che ci siamo cuciti addosso, o in cui ci hanno rinchiuso. È un percorso che dura per tutta la nostra vita, ma va fatto periodicamente (come le pulizie di primavera per intenderci) e un passo per volta, per non far ingolfare il motore della nostra anima con scorie inutili e dannose.
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