Nuvolette di pensieri

Mormora l'acqua del ruscello

Sex work non è un termine neutro

Las senoritas de Avignon - Picasso

Las senoritas de Avignon – Picasso

 

Oggi desidero condividere con voi questa mia traduzione (perdonatemi se non è perfetta!) di un articolo molto interessante (dal titolo Why we shouldn’t rebrand prostitution as “sex work”, qui l’originale) di Sarah Ditum, pubblicato lo scorso 1 dicembre su New Statesman.

La prostituzione va raccontata per come è nella realtà. Le parole sono cariche di senso e vanno adoperate con oculatezza.

 

Daisy aveva 15 anni quando fu segnalata per la prima volta alle autorità di polizia per prostituzione. Lei ha raccontato a pochissime persone questa parte della sua vita, perché non desidera che questa possa avere ripercussioni in quella attuale (in questo articolo ogni dettaglio che possa identificarla è stato rimosso). Questo fa di lei una delle tante voci di donne che non ascolterete mai nei dibattiti attorno all’industria del sesso.

I responsabili politici e le femministe continuano a ripetere di “ascoltare le sex workers”, ma vale la pena sottolineare come si possano ascoltare solo le voci di coloro che volontariamente desiderano condividere la loro esperienza, maggiori saranno state le pene sofferte e minore sarà la probabilità che desideri renderle pubbliche. Figure come Brooke Magnanti “Belle de Jour” e Melissa Gira Grant (autrice di Playing the Whore), possono diventare rappresentative del mondo della prostituzione probabilmente proprio perché le loro esperienze positive sono inusuali. Sul fronte opposto troviamo donne che si definiscono “sopravvissute”, come Rachel Moran e Rebecca Mott. Per queste donne, il commercio sessuale non è altro che un trauma, e ripercorrere quel trauma è parte integrante della loro campagna pubblica di sensibilizzazione sul tema. Questo è il duro scotto da pagare ed è ciò che Daisy, incontrata in un centro di sostegno alle donne vittime di violenza, rifiuta di fare: “Mi rifiuto di costruire una mia “carriera” fondata sul fatto di essere una “ex” di qualcosa, non è un’etichetta che desidero accettare”. La questione delle etichette è fondamentale quando affrontiamo il tema della prostituzione. Al momento è in atto una campagna a cura della Associated Press per rimuovere la parola “prostituta” dal suo Stylebook del 2015. Certamente il suo uso distruttivo e dispregiativo come sinonimo di “donna” è da bandire. Nel 1979, i poliziotti che indagavano sul killer dello Yorkshire discriminarono tra donne “vittime innocenti” e le prostitute (quasi a voler sottolineare la linea di demarcazione, come se in qualche modo si volesse defraudare le donne morte di un uguale diritto alla vita, ndr). In un appello straordinario diretto all’assassino, la polizia del West Yorkshire promise di continuare a contrastare la prostituzione, arrestando le prostitute, quasi a voler sottintendere che fossero in qualche modo concordi nell’azione di “pulizia” attuata dal killer, seppur con metodologie meno violente (naturalmente questo appello non sortì alcun effetto, perché Sutcliffe, the Ripper, uccise altre due donne, prima di essere catturato). Nel 2006, la polizia di Ipswich indagò su un altro serial killer che prendeva di mira le donne che vendevano sesso, ma questa volta il linguaggio usato fu differente: in questo caso le vittime non furono definite “prostitute”, ma semplicemente donne. Si tratta di un piccolo ma significativo slittamento di senso. Le circostanze in cui le donne vengono uccise sono rilevanti per le indagini, ma non devono essere presentate come una giustificazione delle loro morti.

Coloro che si definiscono sostenitori delle sex workers vorrebbero introdurre il termine sex worker all’interno dello Stylebook; io sono una dei firmatari di una lettera rivolta all’AP affinché rigetti tale richiesta. Cosa c’è che non va nel termine sex worker? Per prima cosa, si tratta di un termine molto generico. Esso può includere sia le prostitute di strada, sia le escort, sia le spogliarelliste, che le operatrici delle hot-line, le tenutarie dei bordelli, i venditori di sex toys, così come i loro “manager”. Chiaramente non stiamo parlando di categorie assimilabili, per cui qualsiasi teoria o legge che tenti di trattarli con un approccio unitario rischia di soccombere sul fatto che non tutte le fattispecie sono riconducibili al sex work. “Sex work” è utilizzato anche da coloro che affrontano le tematiche di genere in maniera zelante: il termine prostituta sarebbe così imbevuto di una connotazione “femminile”, da essere necessario specificare quando si tratta di prostituzione maschile, mentre “sex worker” potrebbe essere valido per entrambi i generi. L’intenzione potrebbe essere anche buona, ma può essere fuorviante: perché la maggioranza di chi si prostituisce è donna, e coloro che usufruiscono dei servizi sessuali sono prevalentemente uomini. Quando si tratta di prostituzione, il genere neutro è una mistificazione. Se da un certo punto di vista il termine “sex worker” è troppo ampio, da un altro è troppo riduttivo: arriva a comprendere molte più cose della vendita di sesso, ma esclude coloro che hanno venduto o vendono sesso ma non si riconoscono come “sex worker”. Daisy è una di loro. Quando le ho chiesto se definirebbe mai se stessa come sex worker, la sua risposta è stata accesa: “Non vorrei adoperare quell’espressione. Nessuna donna è una “sex worker”. Non è un lavoro, si tratta di violenza”. La storia di Daisy dimostra che è impossibile concordare con il liberalismo più ottimista, che sostiene che le donne siano in grado di compiere una scelta razionale quando entrano in questo mondo o scelgono di scambiare sesso con il denaro. Quando una giovane adolescente scappa dalle violenze familiari, ha una vita fatta di espedienti, piccoli crimini, senza una fissa dimora. Un giorno la persona con cui sta le propone di fare sesso con un suo amico. “Era un magnaccia (ponce)”, mi dice. Io le chiedo quale sia la differenza tra magnaccia (ponce) e mezzano/procacciatore (pimp). La risposta sta tutta nei metodi con cui questi uomini controllano le donne: un pimp si serve di minacce, mentre un ponce sfrutta la vulnerabilità emotiva. “Un mezzano ti dice subito – sei lì solo per fare soldi,” dice Daisy. “Un ponce (magnaccia) ti dice che ti ama e che ci tiene a te, ma alla fine il risultato non cambia.”

Naturalmente non vi è certezza che il racconto che una donna fa della sua esperienza di vita sia effettivamente rispettato da coloro che sostengono di ascoltarla. Quando Maya Angelou è morta a maggio di questo anno, le rappresentanti delle sex workers l’hanno annoverata tra le loro fila, nonostante Maya non si fosse mai definita una “sex worker”. Un articolo apparso sul sito Vice l’ha arruolata per la causa dell’International Whores’ Day, mentre in un articolo su Mic, Angelou diviene uno strumento utile per una reprimenda contro il femminismo in generale: “Quando il femminismo si fissa su quello che le donne dovrebbero e non dovrebbero fare – sia che si tratti di sex work, che di matrimonio, di percorsi di carriera che di scelte di stili di vita – perde la sua missione principale per l’uguaglianza, la diversità, l’accettazione. Falliscono le sue donne e le sue leader, come Maya Angelou.” Certo è vero che Angelou non indulge mai in una condanna di se stessa quando racconta la sua esperienza di prostituzione nel suo Gather Together in my Name. Ma allo stesso tempo, nessuno può leggere la sua autobiografia, traendo la conclusione che lei auspichi che altre donne seguano la sua esperienza. Più avanti ha raccontato la sua esperienza come “pimp” e di essere successivamente diventata la mezzana di se stessa.

Tuttavia esistono donne che sono considerate totalmente riabilitate. La reputazione di Andrea Dworkin come SWERF (acronimo di “sex worker exclusionary feminist“) ha avuto la meglio sulla sua esperienza personale nel mondo della prostituzione, fondamentale per il suo lavoro. “I presupposti delle prostitute sono anche i miei presupposti”, disse in un suo discorso nel 1992. “Sono i miei punti di partenza… La prostituzione non è un’idea astratta. È la bocca, la vagina, il retto, penetrato solitamente da un pene, talvolta mani, talvolta oggetti, da un uomo e poi da un altro, e poi un altro e un altro ancora.” Questi aspetti sono difficili da affrontare, senza scivolare nella scabrosità, e Daisy devia sempre il discorso quando ci avviciniamo a parlare di sesso reale. Mi chiedo se questi tentativi di cambiare argomento siano intenzionali o meno.
“Non mi va di parlare dell’atto in sé”, mi dice. “Non voglio che sia squallido. Mi interessa far capire i danni emotivi che quell’atto provoca.” Per Daisy questo danno interiore è stato molto profondo: mentre nella prostituzione, mi dice, che era incapace di creare relazioni intime. “Come ti comporti con una persona che fa sesso con altri?” mi chiede. “Come puoi condividere qualcuno che ami con altri? Sono degli elementi che ha compreso a distanza di tempo. “Quando ero coinvolta in prima persona, ero la più grande sostenitrice di quello che facevo. Dovevo giustificare in qualche modo quello che facevo. Come avrei potuto sopravvivere altrimenti?” Quell’imperativo di sopravvivenza non ha portato Daisy a drogarsi o a bere, ma ha sviluppato un’altra mania compulsiva: “Compravo. Era la mia cura.” Verso la fine della sua esperienza, Daisy guadagnava £200 a serata e 500 da venerdì a sabato. Se li spendeva tutti, perché non sopportava l’idea di tenerli. Esistono anche danni fisici. Domandandole se avesse mai subito aggressioni da parte di clienti, Daisy mi ha indicato una cicatrice sul suo volto: la violenza è qualcosa di inevitabile quando ci si prostituisce.

Perciò se definiamo il sesso un lavoro, che diamine di lavoro è? L’elemento del danno fisico potrebbe avvicinarlo a un tipo di lavoro ad alto rischio, tipico degli uomini, come coloro che lavorano sulle piattaforme petrolifere; ma questo tipo di impieghi solitamente comportano una serie di vantaggi compensativi del pericolo che si corre. Nella prostituzione, l’unica cosa prodotta è l’orgasmo maschile, e più una donna è in uno stato di pericolo, meno può dettare le proprie condizioni. Forse allora il sex work appartiene ai generi di lavoro femminili più umili, come le pulizie e la cura dei figli (una connessione tra English Collective of Prostitutes e la campagna per il riconoscimento di un salario per le casalinghe); ma noi riconosciamo che il lavoro domestico è un lavoro anche se non retribuito, mentre il sesso dovrebbe essere un piacere e non un noioso obbligo. Per questo l’analogia non regge. Potrebbe essere qualcosa di simile a fare l’attrice o la ballerina – arti che presuppongono un pieno uso del corpo? (In questo caso ci sono dei precedenti storici, che vedono attrici e ballerine spesso associate all’immagine di prostitute o quanto meno ne avevano la fama). Ma gli attori e i ballerini sono personaggi pubblici celebri: la prostituzione avviene nel privato, e come la maggior parte delle cose che avvengono nel privato, essa non conferisce prestigio a coloro che la praticano, per quanto bravo/a possa essere.

Attori e ballerini non forniscono l’accesso ai loro organi intimi, e si applicano in una formazione personale onerosa, che non è richiesta a chi si prostituisce. Infatti, l’unico requisito per prostituirti è che tu abbia un corpo da penetrare e che un uomo sia disposto a pagare per farlo. I sostenitori del sex work, amano ricordarci che nessuna donna vende letteralmente il suo corpo, dal momento che mantiene la piena proprietà sulla propria persona. Ma chiaramente, ciò che viene pagato dai clienti è effettivamente il corpo – il bene che viene acquistato è il diritto di accedere al corpo della donna per un certo periodo di tempo e/o il compimento di atti specifici. Ciò che gli uomini comprano dalle donne non è il loro lavoro, ma una licenza monouso per penetrare il loro corpo. I critici della prostituzione sono spesso accusati di voler controllare la sessualità femminile, ma vale la pena ricordare che se la prostituzione dipendesse dai desideri delle donne, non dovrebbero essere pagate per partecipare: nessuno ha più potere sulla sessualità di una donna di un uomo che la paga per facilitare il suo orgasmo.

“Sex work” non è un termine neutro: esso veicola i suoi presupposti politici tacitamente nascosti, così come qualsiasi altra scelta. Quando parliamo di “sex work” noi avalliamo l’idea che il sesso possa essere una professione per le donne e un piacere per gli uomini – uomini che hanno il potere economico e sociale di agire come una classe di “padroni” in materia di prestazioni sessuali. Noi accettiamo che i corpi delle donne esistano in quanto risorsa “utilizzabile” dalle altre persone – persone di sesso maschile con i mezzi per pagare per scopare. La prostituzione è un’istituzione economica costituita non solo da donne che vendono sesso, ma significativamente, da uomini che creano la domanda, commettono la violenza ed estorcono un tributo emotivo alle donne con cui fanno sesso. Alcuni di questi uomini riconoscono che ciò che fanno può essere potenzialmente dannoso: un uomo intervistato (qui) ha ammesso che egli avverte quanto sia “emotivamente dannoso per le donne”, prima di auto-assolversi sostenendo di essere “solo uno in più dei tanti”. Daisy ha lasciato la prostituzione a 30 anni, e ora lei sostiene di essere di nuovo “un tutt’uno, mente e corpo”. Possiamo ascoltare solo lei e le donne come lei, se si desidera adoperare argomentazioni oneste in merito a ciò che comporta la vendita di sesso.

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BUONE FESTE

@Anarkikka

@Anarkikka

 

AUGURI A TUTT@ VOI!!!

Grazie per essere approdati da queste parti durante questo 2014 🙂

Un abbraccio forte e ci ritroviamo nel nuovo anno ormai prossimo! ❤

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Potenziali

levatrice

 

Siamo ai bilanci di fine anno e arrivano anche i dati sulla natalità (qui un articolo pubblicato su InGenere). All’appello e sotto la lente c’è la generazione di “quelle” nate negli anni ’80. Il resto è fuori focus (ci siamo persi gli anni ’70, di già???) e comunque siamo sempre alle analisi del potenziale femminile. Galline in batteria all’appello! Questioni trite quelle del matrimonio che costa troppo e che è sempre meno diffuso. Roba a cui non bada più nessuno dotato di un minimo di materia grigia. Si può organizzare un matrimonio con un budget bassissimo e poi la questione della natalità non la si può legare al matrimonio. Dovremmo aver già superato questo scoglio. O mi sbaglio? Così come quelli che mi dicono “sai ci piacerebbe avere un figlio, ma ci vorrebbe una stanza in più” e non vivono certo in 50 mq. Allora, inizi a capire che ci sono ragioni più profonde se si fanno sempre meno figli. Ognuno ha ragioni diverse e tutte da rispettare. Di questi tempi un minimo di razionalità e di pianificazione non guastano, vista la precarietà a 360°. Anche quando sulla carta tutto sembra fattibile e sembrerebbe poter filare liscio, nulla avviene mai tranquillamente. Come ho detto altre volte, ci sono tanti fattori che vanno a incastrarsi e non è scontato che lo facciano. Inoltre, anche quando ci si sente pronti ad affrontare i marosi della genitorialità, spesso non contempli lo scontro con la realtà dei fatti. Come concilierai i tuoi orari di lavoro (che sia part-time o midi/full-time; qui un articolo recente sulla conciliazione)? Qui iniziano le montagne russe. Attorno a me ho solo esperienze di famiglie che hanno scaricato quasi al 100% la gestione dei figli ai nonni. Gli intoppi quotidiani spesso e volentieri vengono completamente delegati. Ci siamo evidentemente abituati a fare così, impossibilitati da un sistema che non consente un equilibrio sano tra tempo del lavoro e tempo “libero”. Naturalmente, le mie conoscenze sono un campione non rappresentativo dell’intera popolazione, ma indicano bene lo stato in cui versano le politiche di sostegno alla genitorialità nel nostro paese. Nonne che devono svolgere i compiti di vice-mamma, alle prese con i nipoti, con orari che sfiorano le h24. Poi c’è chi ha le disponibilità economiche per pagare tate full-time. Il resto picche: senza nonni disponibili, sei in balia delle onde. Perché si sa, inizia il balletto dei “favori”, delle intercessioni, che devi chiedere in giro, senza dare mai per scontata la collaborazione dei nonni o di altri soggetti.. Il vuoto di certezze e di punti di riferimento, che non ti permettono di organizzarti, mai. Per cui come fai? Come fai a lavorare? Cosa racconti al capo: “sa, dipende tutto dalla nonna, se mi fa il favore e se oggi è disponibile a darmi una mano”. Ognuno conosce le sue situazioni, potete immaginare il resto senza che ve lo debba raccontare. Quindi, al di là di strutture familiari nuove o old-style, matrimoni o meno, stranieri o meno, qui c’è bisogno di un welfare serio, un modello che non vada verso il workfare anglosassone, ma sia capace di trovare nuove potenzialità per migliorare le condizioni di vita della popolazione italiana. Tutta, non solo di coloro che godono della protezione del modello familistico, che per decenni ha sostenuto e tuttora sostiene e copre i buchi di uno stato sempre più in ritirata. Per questo mi piace il senso del commonfare. Mi piacerebbe anche che soluzioni come il Jobs Act venissero lette anche in termini di ricadute sul nostro futuro, sulle nostre aspettative di vita, sul nostro effettivo balzo dall’esser figli a essere adulti prima e genitori, magari in futuro, ma anche no. Perché se le generazioni dei nonni diventano welfare sostitutivo, questo significa solo una cosa: negare futuro e capacità di visioni prospettiche. Non vogliamo scaricare sullo stato il nostro essere genitori, ma quanto meno ci auguriamo che qualcuno si svegli e proponga soluzioni affinché non si continui a perpetuare pericolose discriminazioni a cui molti di noi sono purtroppo soggetti.
Quindi, non puntiamo il dito sulle donne, sui loro uteri e sugli ovuli che non si trasformano in prole per la patria. Puntiamo a comprendere tutti i fattori che oggi influiscono sulle scelte, tutte, non solo quella di fare o meno un figlio.
Non mi preoccupa che si facciano meno figli, ma che le prospettive per tutti siano sempre più preoccupanti e che non vi siano proposte politiche che vadano a migliorarle. La questione non è “fare più figli”, ma che futuro dargli, nel caso decidessimo di diventare genitori.

E si torna al tema della “cura”.

Chiudo, riprendendo Silvia Federici:

“Se riteniamo che il lavoro domiciliare non sia vero lavoro, che la premessa del passaggio da assistenza sociale generale ad assistenza da fornire solo a chi lavora sia corretta, allora nessuno è titolato ad avere un supporto istituzionale per crearsi una famiglia. E quindi lo stato ha ragione quando afferma che crescere i figli è una responsabilità personale e che se vogliamo centri di cura diurni, per esempio, dobbiamo pagarceli. Riassumendo, l’approccio è di insistere che qualsiasi richiesta e strategia che non interessi tutte le donne e, prima di tutto, quelle che sono state più sfruttate e discriminate, qualsiasi approccio che non mini le gerarchie che sono state costruite tra noi, è fallimentare, e mette a rischio qualsiasi vantaggio abbiamo potuto momentaneamente ottenere”.

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Tra spinte individualistiche e dimensione collettiva

Andrea Latina - La scelta, 2007

Andrea Latina – La scelta, 2007

 

Queste riflessioni preziose di Maria Rossi, che ci espone il contenuto della tesi di dottorato di Geneviève Szczepanik, “La mobilisation de la notion de choixdans les discours et débats féministes contemporains: une analyse de blogues féministes” (L’impiego della nozione di scelta nei discorsi e nei dibattiti femministi contemporanei: un’analisi di alcuni blog femministi), sono fondamentali per il lavoro che sto cercando di condurre sul tema del cosiddetto “porno femminista”.
Sono le premesse fondamentali che ci serviranno per ragionare successivamente. Vi consiglio questa lettura perché è importante per porre le basi per un dibattito serio e per comprendere il perimetro che sto cercando di decodificare. Si tratta di un terreno impervio e su cui è in atto un dibattito “infuocato”.
In pratica, si evidenziano due macro-filoni di femminismo: femminismo come libertà individuale di scelta e femminismo come movimento di liberazione collettiva delle donne dall’oppressione patriarcale.

Le scelte individuali sono diventate nel nostro contemporaneo autolegittimanti, indiscutibili, svincolate dal contesto, emancipatrici per eccellenza in virtù di una autodeterminazione scevra da qualsiasi “vincolo economico, politico, sociale, culturale, un’idea che si fonda sul presupposto dell’ormai acquisita uguaglianza fra gli esseri umani. Tutte le decisioni, purché frutto di accurata ponderazione, sono ritenute non solo equivalenti ed indiscutibili, ma schiettamente femministe, anche nel caso in cui comportino l’accettazione dell’ordine patriarcale, dei ruoli tradizionalmente assegnati alle donne, della subordinazione ad un uomo”.
Ci chiediamo che senso abbia a questo punto il femminismo nelle sue connotazioni di movimento di liberazione collettiva, la pratica dell’autocoscienza di gruppo, la sorellanza, la solidarietà tra donne. Come se non ci fossero barriere sociali, economiche, culturali reali da smantellare, come se ognuna dovesse lottare per sé, dotata unicamente delle sue scelte. Ognuna per sé, chi può può, chi non ci riesce è perché ha fallito nelle sue scelte (e nessuno mette in dubbio se fossero o meno libere). Chi ha la possibilità economica, sociale, culturale può godere indubbiamente di una libertà di grado più elevato. Le altre si devono arrangiare. Tutto sembra fondarsi su un individualismo totalizzante e sovrano. Si crea un solco incolmabile tra le donne perché in queste tendenze volte all’isolamento e alla decontestualizzazione delle problematiche delle donne, si perde la percezione delle reali motivazioni e delle forze in gioco, nei rapporti tra i generi, nelle relazioni sociali, nelle dinamiche e nelle disparità economiche. La donna si trova isolata, alle prese con un se stessa come unico parametro e centro di pensiero, di scelte e di universo. In una parola, viene meno la politica delle donne, sostituita da un io superior, di chiara matrice neo-liberista. Si fa strada una emancipazione e una liberazione illusoria, prêt-à-porter, consumabile e inventabile a seconda delle esigenze, si smarrisce il discorso morale, le basi filosofiche necessarie per fare un’analisi corretta, perché è sufficiente la scelta della singola donna per assicurare un marchio di qualità femminista. Così ogni operazione può rientrare nell’alveo del femminismo, dalle sex-workers, al porno. Basta essere dotati di quel marchio di libertà di scelta individuale per avere una specie di “sigillo di qualità femminista”. Comprendete che c’è una sorta di strumentalizzazione del discorso femminista, è in corso un inghiottimento/annientamento della dialettica tra le donne e tra le donne e il mondo, l’unica in grado di assicurare un ragionamento e un’analisi profonda originata dal confronto/scontro tra le diverse posizioni, che producano idee e soluzioni meditate, ponderate, innovative, rivoluzionarie. È avvenuto uno slittamento di idee e pratiche che avevano dato la spinta propulsiva al movimento delle donne. Lo slittamento verso l’io, verso un ego avulso dal contesto, depositario di una delle tante verità. Il partire da noi stesse deve avere uno sbocco in una dimensione collettiva, altrimenti non ha senso e non matura nulla per il mondo in cui tutte noi viviamo. Se ognuna guarda unicamente alla propria libertà, cessando di ascoltare le altre, compirà un cammino a metà. Il pericolo di nuove servitù mascherate da libertà è dietro l’angolo. Alcune di noi si sono dimenticate che la dimensione collettiva è l’unica in grado di liberare le nostre riflessioni, le nostre letture del mondo attraverso lenti nuove. Non dobbiamo illuderci di bastare a noi stesse, la dimensione collettiva è necessaria. Il confronto tra noi lascia emergere le incongruenze, gli errori, i punti su cui concentrarci, ci rende vigili, aperte verso l’esterno e non chiuse in noi stesse. Non tutte le scelte sono libere in assoluto, non basta affermare qualcosa perché essa sia esattamente così come l’abbiamo affermata. Spesso ci sono sfumature che il concetto di scelta rischia di coprire, di celare a uno sguardo superficiale. Infine, non dobbiamo dimenticarci di porre al centro delle nostre analisi anche le questioni socio-economiche, perché se perdiamo l’abitudine di raffrontare le nostre riflessioni al contesto in cui ci muoviamo e in cui viviamo, rischiamo di perderci alcuni pezzi del puzzle, correndo il rischio di essere facilmente strumentalizzate, ricondotte a soluzioni preconfezionate da altri. Non si può prescindere da una critica severa al sistema economico-produttivo capitalista e liberista, funzionale alla sopravvivenza del patriarcato. Tutto viene facilmente “ripulito”, “rimarchiato”, “riletto” per renderci addomesticate e addomesticabili, innocue e felici di essere “ancelle” sempre di quel potere che non è mutato, ha solo reso più impalpabili i suoi strumenti. Per questo in molte sono pronte a sostenere che la parità è raggiunta e che non c’è più bisogno di femminismo. Questa deriva è il risultato di un certo tipo di femminismo che ha annacquato tutto nella libertà di scelta individuale e fine a se stessa. Non si tratta di scegliere un femminismo ortodosso o “adeguato”, meno “libero”,ma di conciliare un punto di vista personale, con un contesto in cui non si può fare a meno di tener presenti i fattori della collettività, le variabili socio-economiche. La mia libera scelta non può diventare vessillo per un modo di agire svincolato dalle regole, altrimenti sotto la bandiera del femminismo potrebbero passare nuove forme di sfruttamento e di servitù, mascherate da libertà personale. Occorre ri-codificare il mondo in cui viviamo, rendendolo anche a misura di donna. Vogliamo renderci strumenti di operazioni commerciali, di miti costruiti dal patriarcato per imbrigliarci e indottrinarci? La dimensione collettiva del movimento ci aiuta a non isolarci nel nostro egoistico e parziale punto di vista, ci porta a considerare il cambiamento necessario come un percorso di tutte. Non dobbiamo farci usare e dividere perché di questo passo finiremo schiave di un modello economico che già da tempo investe le relazioni tra le persone. È semplice affermare che prostituirsi è bello, se è frutto di libera scelta, ma qualcuno si è interrogato a sufficienza su questa presunta libertà, da cosa viene indotta, da quali miti e da quali necessità è mossa? Oppure ce ne freghiamo e lo consideriamo emancipazione, perché partiamo dal presupposto che a questo mondo non ci siamo differenze socio-economiche e culturali che possano influire sulla libertà di scelta? Personalmente, penso che l’analisi femminista sia chiamata a un ragionamento più complesso e meno semplificante della realtà, dobbiamo dotarci di strumenti nuovi di decodifica dei fenomeni, perché quelli fornitici dal liberismo e da una società patriarcale non vanno proprio bene. Il corpo è mio, io sono mia, ma se ho bisogno di sopravvivere, ogni libertà nasce tronca. Ecco la necessità di una dimensione collettiva, che non lasci sola nessuna di noi. Se bastasse volere e scegliere di essere libere, non ci sarebbero tanti problemi e violenze a carico delle donne.

Giorgia Serughetti, prima di avventurarsi in queste affermazioni, si dovrebbe leggere i post sulla prostituzione di Resistenza Femminista, anziché fantasticare su una prostituzione mitologica, lontana dalla realtà.

Dobbiamo svegliarci dal torpore ed essere di nuovo per un movimento collettivo affinché il cambiamento sia per tutte!

“Clare Chambers nota che il concetto di scelta ha il potere di tramutare una situazione iniqua in una condizione apparentemente giusta: affermare che essa rappresenta il prodotto di una libera scelta serve a conferirle, infatti, una parvenza di giustizia. La retorica liberista della scelta può, anzi, consentire di mettere fra parentesi i concetti di disuguaglianza e di ingiustizia” (Sex, Culture, and Justice: The Limits of Choice, Pennsylvania State University Press, 2007).

“Se al concetto di scelta viene dunque conferito un carattere politico, tanto nel discorso sociale che in quello femminista, l’atto di decidere viene invece depoliticizzato, in quanto pensato come individuale, isolato dal contesto sociale e affrancato da qualsiasi forma di condizionamento. L’enfatizzazione della nozione della libertà di scelta rende ardua la comprensione dell’oppressione delle donne e delle pressioni che subiscono, sia perché non ne riesce ad individuare le basi materiali e fisiche, sia perché implica il rifiuto di un’analisi condotta in termini di rapporti sociali tra i generi.
I discorsi femministi incentrati sul concetto di scelta lasciano intendere che tutte le donne siano totalmente libere e uguali, ma implicitamente fanno riferimento soltanto a quelle delle classi sociali abbienti, economicamente, politicamente e socialmente in grado di effettuare scelte che si dispiegano entro un ampio ventaglio di possibili opzioni. In tal modo non sono soltanto le analisi relative ai rapporti tra i generi ad essere oscurate, ma anche le indagini che potrebbero chiarire la dinamica di altri rapporti sociali, nonché la loro intersezione.
Il femminismo così concepito rinuncia, in conclusione, ad ogni potenziale trasformativo e perde la propria originaria carica sovversiva.
Dal momento che, in sostanza, si astiene dalla critica al sistema patriarcale, lo si può effettivamente definire, a mio parere, ancella del patriarcato”.

 

Chiudo con Wendy Brown, citata da Cristina Morini qui:

“Per Wendy Brown, il concetto di libertà deve infatti fare i conti con una sovranità che “è turbata soprattutto da forme di potere sociale sempre più intricate, seppur diffuse” (Brown, 2012: 9). E, d’altra parte, la libertà come pratica relazionale costantemente contestualizzata e non come concetto assoluto, continua a rappresentare la più efficace misura per distinguere chi è in grado, seppure relativamente, di esercitare il controllo sulla propria vita o chi invece no, la linea che segna la linea di divisione tra coercizione e azione.

Mi piace ciò che suggerisce Cristina Morini, perché allarga l’analisi, amplia gli orizzonti, compie un processo di contestualizzazione importantissimo. Si tratta di combinare saggiamente due idee di libertà:

“La crisi distrugge ciò che eravamo ma crea anche nuovi legami tra le persone. Come vivere una vita buona, pur dentro le nostre complesse “varietà di esilio”? Essendo consapevoli dalle trappole suadenti del potere, recuperando strumenti autonomi di diagnosi, come l’autocoscienza, in cui il soggetto prenda parola senza intermediari, posizionandosi in modo conflittuale rispetto al potere e alle sue istituzioni, aiutandosi, attraverso il confronto collettivo, a sottrarre il “sintomo” (vivere) alla oggettivazione degli esperti e degli intellettuali di professione. Facendo con-vivere l’idea di libertà individuale con quella di comune. Ritrovando più che mai dentro una linea di sottrazione, di rifiuto di ruoli e funzioni assegnate nella vita e nella società, il cuore stesso della politica delle donne. Più rivoluzionario di qualsiasi promessa di rivoluzione, questa disposizione conflittuale va allargata, potentemente, dal privato al pubblico. La libertà delle donne (e degli uomini) passa da un processo di smobilitazione di questa vita, che deve, tutta, cambiare”.

Non tutta la libertà che si sbandiera, anche se luccica e acquista crediti da parte delle stesse donne, è da prendere come oro colato. Non fermiamoci alla superficie, manteniamo la mente critica e vigile. Perché non ci vendano aria fritta al posto della libertà.

 

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Misunderstanding

Lesueur - Club Patriotique de_Femmes

Lesueur – Club Patriotique de Femmes

 

Qualche giorno fa mi è capitato di sentire certe considerazioni che mi hanno lasciata perplessa e mi hanno fatto capire come sia in atto un tentativo di ritorno al passato, alcune donne oggi ritengono sia opportuno adottare il passo del gambero. Un bel colpo di spugna a tutte le riflessioni, le considerazioni, le rivelazioni, le scoperte emerse in decenni di lavoro del movimento delle donne. Ci sono numerose donne che tuttora si domandano se ci sia una differente sensibilità fra uomo e donna nell’approccio alla vita. Come dire che le discriminazioni e tutto ciò che abbiamo subito per secoli come donne, in realtà sono state frutto del caso e di un fraintendimento (rimediabile) tra uomo e donna. Come dire che la violenza sulle donne trae origine dai grilli per la testa delle donne moderne o dalla loro incapacità di difendersi e di ribellarsi. Queste donne vogliono farmi credere che non c’è mai stato un vero bisogno di femminismo, che anzi, dobbiamo interrogarci sul fatto che forse ci siamo sbagliate. Mi è stato domandato se non fosse il caso di interrogarci sul fatto che forse abbiamo peccato nel ritenerci capaci di una rielaborazione autonoma dei rapporti tra le persone e degli assetti di potere nella società. Alcune critiche hanno investito anche le mie riflessioni su Donne e Pianeta. Viene sempre più messa in crisi l’idea di una responsabilità collettiva e di un farsi carico “originale” da parte delle donne. Per molte persone il femminismo è una semplice “sostituzione/staffetta di potere” tra uomini e donne, ma non è possibile che gente dotata di un minimo di cervello possa fare questa confusione. Non si tratta di sostituire una verità con un’altra, ma di modificare le regole, gli assetti, le letture, gli equilibri attuali che tuttora ci tengono ghettizzate, discriminate, sottomesse. Nessuna femminista si ritiene depositaria di una nuova verità assoluta, di un verbo per tutt*. Così come quando si pensa che le femministe siano quelle che odiano gli uomini. Pensare queste cose significa guardare alle femministe in modo pregiudiziale, senza una conoscenza reale dei femminismi di oggi o di ieri. Consiglio un ripasso (o meglio una lettura ex novo per coloro che parlano per sentito dire) dei classici, ripercorrendo i passaggi storici che hanno portato all’affermazione del modello patriarcale, passando per gli studi matriarcali di Abendroth, fino ai femminismi degli ultimi decenni. Leggere servirebbe quanto meno a non fraintendere e a non negare l’evidenza di una oppressione tuttora tangibile. Non la vivi? Strano davvero, forse semplicemente non te ne sei mai accorta. Leggere serve a dare un minimo di fondamenta teoriche a quanto si dice o al proprio pensiero. Riflettere è necessario per non svilire i discorsi e perdersi in un liberismo che utilizza il marchio femminista per annacquare e dissolvere ogni problematica, tanto da ridurre anche la violenza a una “sensazione infondata” di chi si “autovittimizza”. Alla fine è normale che qualcuna mi dica che in fin dei conti i problemi si possono risolvere cambiando il nostro approccio con il “primo sesso” e assomigliandogli maggiormente. In alternativa vale il consiglio di tornare a essere bestioline mansuete.
Faccio una digressione solo apparente.
Oggi più che mai è necessario un rovesciamento, un rinnovamento degli assetti di potere, di come si giunge a rivestire un ruolo istituzionale o di classe dirigente nella nostra società, di come si fa carriera e di come si raggiungono certe posizioni. Non è ammissibile che ci sia un silenzio connivente con certi meccanismi marci preferenziali, che fuori da ogni logica di merito, premiano solo i fedeli, i più servili, i più utili a mantenere lo status quo amicale, parentale, familista ecc. Nel nostro paese per troppo tempo si è preferito glissare su certi aspetti indecorosi, perché molti e molte cittadini/e hanno pensato che tutto sommato si poteva soprassedere e magari approfittare di qualche briciola di favore. Coloro che si sono ostinati a tenersi alla larga da questi metodi, solitamente nel nostro paese, sono stati sconfitti, allontanati, puniti, considerati dei falliti, dei soggetti da escludere perché rovinavano il sistema e non si conformavano. La sottrazione e il dirottamento di soldi pubblici per fini poco puliti e per ingrossare i flussi di tangenti, il clientelismo, le mafie di vario ordine e grado, i concorsi truccati per selezionare solo la classe dirigente amica, la cosa pubblica gestita come un affare tra pochi eletti, i condoni tombali su evasori e abusivismo, carriere di ogni tipo segnate unicamente dalle conoscenze e dagli scambi di favori, l’abitudine consolidata a considerare queste pratiche come “ordinaria amministrazione”: tutto ciò ha creato un paese fragile, in cui i migliori sono stati e saranno costretti ad abbandonare la nave, in cui la macchina pubblica o vicina ad essa è piena zeppa di incompetenti e zelanti faccendieri disponibili a dare una mano ai soliti amici. Una rete che assorbe ogni rapporto, ogni settore, ogni relazione, ogni più piccolo aspetto della nostra vita. In questo assetto, ogni posto, ruolo, mansione dalla più piccola alla più elevata sono soggetti ai medesimi giochi di assegnazione e spartizione. Interi settori professionali e accademici vengono interessati da scambi di favori e di facilitazioni per superare le prove di abilitazione, di ingresso e per crearsi una base clientelare di sostegno. Una politica che fa ribrezzo (o dovrebbe farlo) e che tutti ci siamo trovati a incrociare, a sfiorare. Il così fan tutti e tutte, che in un paese sano dovrebbe essere sanzionato anziché assurgere a legge universalmente riconosciuta e tollerata. Il problema più grande è che se non hai affiliazioni resti uno zero, uno che non conterà mai niente, perché le carriere, quelle vere, le faranno sempre gli altri che hanno qualcosa da portare in dono, in cambio. Questo vale al cubo quando si tratta di donne, perché a queste complicazioni si aggiungono tutte le mille discriminazioni tipiche del genere. E in tutto questo le donne dove si collocano? Come si rendono soggetto diverso e capace di indignarsi per scardinare questo assetto marcescente? Ci siamo mai interrogate veramente e onestamente? Ecco, forse con una maggiore dose di femminismo sincero e non fatto di parole vuote e finte, potremmo essere in grado di segnare un piccolo cambiamento. Probabilmente è la replica di modelli maschili e il nostro assecondarli che ha segnato un fallimento. Nonostante tutto, nonostante sempre più spesso ci venga chiesto di omologarci e di adeguarci, dobbiamo riconoscere l’importanza e l’urgenza di una costruzione diversa della storia e di come guardare e pensare al futuro. Non possiamo stare alla finestra a guardare.
Condivido quanto riportato qui da Maria Rossi, sempre chiara e perfetta nelle sue argomentazioni, sulla lotta politica delle donne, che deve scaturire da un’esperienza di oppressione vissuta in prima persona, per non essere debole, soggetta a fraintendimenti pericolosi. Ciascuna di noi deve farsi portavoce di una necessità di cambiare gli assetti che vanno dal privato al collettivo e che sono connotati da un dominio sulle donne, ma non solo. Esistono dei meccanismi, mutuati dal mondo maschile, che se decidiamo di incarnare e condividere ci potrebbero portare a sostenere un accanimento sempre più prepotente sull’individuo, caricato di ogni responsabilità, come suggerisce Maria Rossi. Che si tratti di donna o di uomo, l’etica individualista produce una visione mono-centrica, con l’ego del singolo o della singola al centro del mondo: se ci sai fare e sai sfruttare le tue doti, le amicizie, le relazioni, i rapporti privilegiati, lo status, le connivenze, i favori, con l’aggiunta di un po’ di cinismo, riesci a oltrepassare discriminazioni, oppressioni e violenze di ogni genere. Se non ci riesci, non ti sei applicato abbastanza e comunque è colpa tua. Ecchisenefrega degli altri e soprattutto delle altre? Esisto solo io, tutt’al più me stessa (la mia coscienza). Io stabilisco cosa sia buono e cosa no, io al centro di un fenomeno di auto-normazione. Con buona pace della dimensione collettiva e della sua utilità al fine di una presa di coscienza individuale della propria condizione. Il teorema dell’ognuna per sé. Mi sembra di capire che Wolf ci suggerisca che spetta a noi non farci opprimere, discriminare ecc. Basta dotarsi di forza e di una smisurata autostima, aggirandosi per il mondo come tante solitarie schiacciasassi. Basta fare come fanno gli uomini. Ma chi ha mai voluto essere come un uomo? Noi donne al pari dell’uomo, carnefici o schiave di un sistema, a seconda che ci riesca o meno la nostra lotta titanica per il potere fine a se stesso e autoreferenziale, in uno scontro che appare estendere alla donna i tratti dell’assunto homo homini lupus est. Ma questo inno alla forza individuale per ergersi al di sopra degli altri, per dominare e schiacciare gli altri, altro non è che un sostenere che ogni arma è concessa, ogni nefandezza o crimine è ammesso, ogni forma di schiavitù (personale o altrui) può essere utile, per raggiungere il podio del potere e lo scettro del comando. Senza un ragionamento morale si lascia la porta aperta a qualsiasi cosa. Ogni azione umana, ad opera di un uomo o di una donna, viene sradicata dal suo contesto, da un’analisi delle sue radici e da un discorso morale. Ogni cosa si smarca e può essere annoverata sotto l’etichetta femminista, quasi come se fosse in atto una specie di assorbimento del femminismo all’interno del meccanismo produttivo-commerciale-consumistico. Ma questo non è femminismo, nessuna, come dicevo, si sognerebbe di voler semplicemente invertire gli attuali assetti di potere maschio-centrici. C’è un lavoro ben più complesso e profondo da compiere, per cui occorre smarrire tutte le regole, i metodi, i passaggi, i meccanismi che fino ad oggi hanno formato la struttura portante del sistema socio-economico in cui siamo immersi. Dobbiamo sbarazzarci delle scorciatoie e sovvertire ruoli e consuetudini secolari. Altrimenti ci troveremo a salutare sempre un uomo con frasi del tipo “bacio grande capo”, serve e complici di un sistema popolato da escrementi umani. Ma ci rendiamo conto in che mondo viviamo? Credo che sia in atto un tentativo di depistaggio interno (ma con burattinai esterni) dei valori e dell’etica alla base del movimento delle donne.

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Poco orgoglio

jane austen

 

A volte, ascoltando alcune storie, mi sembra di vivere in uno di quei romanzi ottocenteschi, in cui le donne non potevano essere altro che mogli o istitutrici. Chissà cosa penserebbe Jane Austen se potesse vedere come siamo ancora conciate male nel 2014. Tuttora ci sono donne che confidano in questa “ricerca” che apre il romanzo Orgoglio e pregiudizio. Mi è stata raccontata l’ennesima parabola della donna che ha investito ogni briciolo di energia nella ricerca di un marito facoltoso, il tutto per potersi dotare di casa lussuosa, colf e tata h24 per la prole. La narrazione mi è sembrata un tantino pretestuosa, un po’ per suggerirmi che forse i soldi non fanno la felicità ma aiutano, e che tutto sommato col senno di poi questa mia coetanea è stata più furba, di me e di tante. Più furba anche della sorella che suo malgrado non ha percorso gli stessi passi e non ha anelato al denaro, come si corre dietro a un osso prelibato. Narrazioni di questo tipo mi suggeriscono che possiamo confermare lo stato di emergenza contingente. Molto velatamente queste storie suggeriscono ciò che il Silvio consigliò anni or sono. Il problema è che c’è chi ci crede e anziché profondere le proprie energie in un investimento su se stesse, sulle proprie capacità intellettive o pratiche, su una crescita personale e su un affidamento nelle proprie capacità, si dedica alacremente e monodirezionalmente alla ricerca di un uomo ripieno di soldi, almeno quanto un tacchino per il giorno del Ringraziamento. Or bene, anni e anni di riflessioni, di tentativi di emancipazione, di allargamento dell’istruzione nulla hanno potuto per scardinare questo tipo di mentalità. Nulla. Posso affermare che mia nonna fosse più emancipata di molte mie contemporanee, quanto meno aveva compreso numerosi meccanismi e distorsioni di cui era vittima la donna e aveva cercato di affrancarsene, per quanto i tempi le permettessero di fare. Le narrazioni delle ricerche dei tacchini si fanno sempre più particolareggiate e servono a fornire delle indicazioni a coloro che per loro stoltezza non hanno tenuto conto dei trucchi principali di cui una donna, a loro parere, non può fare a meno. Mi si suggerisce che sono cavoli miei se non riesco a conciliare lavoro e vita privata, perché basterebbe avere una conduzione più oculata delle proprie scelte. Vedi come vive semplicemente Tizia? Tu ti affanni e non vivi comodamente perché hai perso tempo sui libri e in rapporti personali non proficui economicamente. Siamo ancora al matrimonio buono a cui ipotecare una vita intera. Abitiamo ancora una vita che ci viene data in concessione da un uomo. A questa ennesima storiella ho risposto semplicemente che mi auguro che mia figlia non venga su così idiota e vuota, perché vivrebbe come una schiava, illusa di essere libera e felice. L’unica cosa che mi auguro per lei è che mantenga sempre la fierezza, la sua autonomia di pensiero, non si venda mai per niente al mondo e che coltivi se stessa come una pianticella preziosa e unica, che si concentri sulle cose durature e non caduche e fonte di servitù. Per me non ci sono molte differenze tra le olgettine e chi non ha altro obiettivo che trovare un asino dalle orecchie magiche, che produca oro a volontà. Il lavoro che abbiamo davanti è enorme. C’è bisogno di un pensiero femminista per smantellare la segatura che riempie troppe vite e sostituirla con idee, sostanza, curiosità, voglia di fare, di imparare e di investire su se stesse, riprendendo in mano il proprio destino. Possiamo fare la differenza, anche se a volte è davvero impossibile farsi ascoltare e mostrare delle alternative e vedute differenti.

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Miti femminili

Madre e figlia - arte vietnamita

Madre e figlia – arte vietnamita

 

Ogni qualvolta una donna viene coinvolta in un fatto di cronaca nera i toni assumono le forme della morbosità, i media si scatenano in analisi pseudo-scientifiche, alla caccia di ogni più piccolo particolare che possa validare la tesi del lato oscuro delle donne ‘esseri imperfetti’, in preda a isterie e a ormoni che le rendono imprevedibili mostri. Non mi piace questa ricostruzione, questa modalità da crocifissione collettiva, liberatoria e catartica. I mostri che sono sempre lontani anni luce da noi, puri e dall’equilibrio perfetto. Tutti coloro che in questi giorni, come in passato, si stanno dedicando alacremente allo sport della scarnificazione della donna e della madre ‘sbagliata’, dovrebbero tacere. Tacere perché è troppo facile giudicare, mentre è più complesso cambiare lo sguardo con cui si guarda al mondo e alle persone. Non si riesce a toccare la dimensione interiore adoperando i giusti metodi di analisi. Oggi, più di un tempo, si carica la donna e la maternità di oneri e di implicazioni enormi, le aspettative che chiedono alle madri di reggere a qualsiasi tipo di pressione sono sempre più elevate, gli equilibrismi richiesti si sono moltiplicati. I ruoli sono mutati, ma nella sostanza si chiedono alle donne sempre gli stessi sacrifici, anzi sempre di più, sempre di nuovi. Solo a noi, con una intensità e un convincimento inattaccabili. Perché ciò che è naturale che avvenga e che ci si aspetta che venga fatto dalla donna e dalla madre è definito nei secoli dagli uomini (come spiega bene qui Lea Melandri). Per cui se non rientriamo in questi canoni, diveniamo le “cattive”. Ma noi donne siamo le stesse di sempre e solo a noi vengono richiesti certi ritmi e certe accelerazioni. Sempre e ancora su di noi occhi e richieste di perfezione, perché per molti la Natura ci ha rese più predisposte e flessibili, portate a sostenere intemperie fisiche o psicologiche. Quando mia madre sostiene che io non abbia pazienza a sufficienza nel mio ruolo di madre, mi sta dicendo che in quanto madre dovrei essere infinitamente paziente, tollerante, votata naturalmente a un sacrificio illimitato. A volte mi sento dire (da donne, molto spesso) che dovrei mollare ogni impegno, annullare i miei desideri e dirottare tutte le mie energie nei confronti di mia figlia. Nessun’altra priorità è ammessa. In pratica, mi si dice che nessuno mi ha obbligata ad essere madre e che ora devo chinare la testa e pedalare. Per carità, ho scelto di essere madre, ma non ho firmato per una mummificazione correlata. Ognuna deve essere libera di approcciarsi alla propria esistenza come meglio crede, nelle declinazioni che più le si confanno. Il problema è che tutta la gente attorno tende ad appropriarsi della tua vita, dispensando consigli e giudizi anche se non richiesti. Buona parte dei sensi di colpa e delle difficoltà del compito materno o genitoriale derivano dalle intrusioni esterne, da tutti coloro che da fuori condiscono la tua vita di aspettative, tappe, scadenze, obiettivi, risultati ecc. Devi rientrarci, altrimenti sarai sottoposta a una pressione più o meno pesante. La leggerezza dell’improvvisazione che dovrebbe essere la regola guida di ciascun genitore, viene sostituita da tutta una serie di check-up del genitore perfetto. Naturalmente, molti aspetti sono amplificati nel caso si tratti di una madre. Il peggio sono i crocicchi delle mamme al parco, al nido/asilo o alla ludoteca. Le lenti di ingrandimento di cui si possono far portatrici le mamme sono qualcosa di estremamente pericoloso. Se non vuoi partecipare al gioco al massacro delle misurazioni, dei raffronti, dei consigli devi armarti di tappi per le orecchie. Queste cose esistevano anche quando ero piccola e mi sono sempre chiesta perché la gente non si facesse un bel po’ di fatti loro. Mi sono data una risposta. Molte donne si fanno portatrici di tutta una serie di atteggiamenti maschili sulla maternità, per cui provano un sollievo enorme nel poter ‘ammorbare’ di consigli le altre madri, per potersi ergere dall’alto di un’idea perfetta di madre, come non esiste nemmeno nell’Iperuranio. Anche quando si sceglie di essere madre, non è detto che lo si diventi o che si assuma il ruolo in toto, come cultura dominante prescrive. Anzi. Ogni figlio è una storia a sè, un’avventura diversa, unica, che ti mette a dura prova, ogni secondo. Non ci sono regole, preparazione, predisposizione, inclinazioni caratteriali. Nulla va come preventivato o pianificato. Anche i sentimenti possono assumere sfumature e intensità diversissime e imprevedibili. È un fare giorno per giorno, e chi sostiene che ci si riesce per forza, sta semplificando. Il più delle volte non riuscirai a combinare un bel niente e sarai frustrato, deluso, amareggiato e affaticato. Essere genitori ti mette di fronte alle tue incapacità, alle tue fragilità, alla tua inadeguatezza. Basterebbe ammettere questi aspetti e non ostentare capacità da wonder mummy che non sono reali. Se tutti ci considerassimo fallibili, un po’ di carico se ne andrebbe. Invece dobbiamo sostenere non solo il ruolo di genitori infallibili ed efficienti con i nostri figli, ma anche con chi dall’esterno è sempre pronto a giudicare.
Nell’essere madre non potrà tornarti utile il tuo vissuto di figlia, perché tuo figlio è una persona diversa da te e come tale deve essere trattata. Non è vero che riuscirai a non commettere tutti gli errori compiuti su di te. Inoltre cambiano le prospettive e ti troverai a mettere in atto pratiche e soluzioni che mai razionalmente avresti immaginato di adoperare. Ti renderai conto di quanto facile sarà cadere nella trappola dello sfinimento, per cui spesso cadranno tutti i paletti e le regole volte a non viziarlo troppo. Ti accorgerai che tuo figlio è più furbo di te, capace di sfruttare al meglio le situazioni e le persone attorno (vedi i nonni), che è ben lungi da quell’idea di affetto incondizionato e che a volte ti stupirà per il suo elevato grado di egoismo. Sarà una lotta fondata sulla resistenza e dovrai imparare ad adeguarti all’idea che nulla andrà come vorrai. Vorrei maggiore sincerità sulla maternità e che ciascuna di noi si possa felicemente sentire in primis donna, senza essere tacciata di essere una cattiva madre se si desidera mantenere un angolino per sé. Vorrei che si smettesse di chiedere alle donne: quando fai un figlio, quando fai il secondo? Vorrei che questo paese consentisse di svolgere in modo più flessibile e libero il ruolo genitoriale (come accade in Norvegia o in Canada), che entrambe le figure genitoriali fossero al centro di un progetto di vita più sereno, meno fondato sulle disponibilità economiche o sociali delle coppie (tipo se ho i nonni disponibili H24 o i soldi per un nido full time o una tata). Sarebbe più leggero il compito delle mamme se non ci fosse un muro nel mondo del lavoro, se non ci fosse un muro ai congedi paterni, se si guardasse al benessere e alla qualità della vita. Se nessuna di noi si sentisse mai, in ogni caso, esclusa come donna o come madre. Il nostro valore non si misura per il lavoro che facciamo o per il nostro ruolo di ‘buone madri’, il nostro è un valore intrinseco. Non basta parlare di qualità del tempo passato insieme ai figli, occorre ridisegnare il tempo della vita e quello del lavoro, per le donne e per gli uomini. Le pressioni a cui siamo sottoposte sono immense, nessuno ci ascolta, al massimo le mamme sono ascritte come depresse, schizzate, insoddisfatte, egoiste ecc. Nessuno che ci chieda mai perché, come ci sentiamo. Soprattutto smettete di giudicarci. Nessuna di noi è perfetta e non ci dovete chiedere qualcosa che agli uomini non viene richiesto. Non esiste l’equilibrio, dobbiamo accettare un’esistenza traballante, in cui viene contemplata la nostra fragilità e la nostra fallibilità. Non possiamo ottenere tutto, perché spesso gli obiettivi che ci poniamo sono in contrasto tra loro. Pensiamo al nostro ruolo educativo che spesso ci pone di fronte a scelte, a bivi. Noi vorremmo dare buoni esempi, educarli al meglio, renderli responsabili, degli individui che sappiano comportarsi, che non facciano capricci, ma spesso ci poniamo degli obiettivi troppo grandi, i cui risultati non sono immediati. La frustrazione deriva anche da questo. Dovremmo imparare ad accontentarci di piccoli passi quotidiani e di non crocifiggerci perché non siamo riusciti a mantenere dei buoni metodi educativi, ma abbiamo “infranto le regole”. Faccio un esempio pratico per farvi capire cosa intendo: se uno ha un figlio che fa capricci per mangiare, tutti consigliano di evitare di farlo giocare durante i pasti, ma se l’obiettivo è farlo mangiare (lo dico da bambina dai gusti “difficili”, che ha imparato a mangiare di tutto solo verso gli 8 anni) a volte trasgredire le regole educative è l’unico modo per arrivare al micro obiettivo quotidiano per farlo crescere. Mi rendo conto che si corre il rischio di creare un rapporto sbagliato con il cibo, ma anche sbattere la testa cercando di applicare regole teoriche in ogni frangente non è detto che serva sempre. Non bisogna ragionare con regole assolute, ma adattarsi quotidianamente, destreggiandosi per giungere a piccoli risultati, qualcosa di raggiungibile, alla nostra portata. Questo è il compito più arduo, ma forse è un buon metodo per sopravvivere alla “tempesta figli”. Gli errori ci saranno sempre e comunque, chi sostiene di commetterne raramente sta mentendo.

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Femminismi e dintorni

by Elin Høyland

by Elin Høyland

Il 6 dicembre in Canada è stata la giornata della memoria e dell’azione contro la violenza sulle donne, in ricordo delle 14 donne uccise nel 1989 all’École Polytechnique, da un uomo armato che sparò urlando: “siete un branco di femministe e io odio le femministe!” (qui qualche informazione)
Ringrazio Ilaria Baldini per aver condiviso questo articolo di Meghan Murphy, che provo a tradurre qui per voi.
L’autrice coglie questa occasione per spiegare in cosa consiste il femminismo oggi e quali sono gli obiettivi che si prefigge.

 

“Io definisco il femminismo come un movimento per porre fine al patriarcato e alla violenza maschile sulle donne. Questa definizione ha un suo senso e mi sembra ovvia perché senza patriarcato non ci sarebbe bisogno del femminismo e perché la violenza maschile sulle donne è il frutto – e il principale effetto – del patriarcato. Le donne saranno oggetto della violenza maschile, finché saranno una classe oppressa e soggetta a un sistema di controllo che adopera la violenza come strumento di minaccia (e sottomissione, ndr). Uno stato di impotenza (dipendenza, ndr) economica e sociale rende gli individui vulnerabili alla violenza.
Alcuni sostengono che il femminismo consista nel fatto che le donne aspirano a diventare “uguali” all’uomo, ma io non sono d’accordo con questa definizione. Gli obiettivi del femminismo non sono e non dovrebbero consistere nel diventare “come gli uomini”. Il potere maschile è un problema. L’idea della mascolinità (il prototipo virile) è un problema. La gerarchia è un problema. Questa definizione che non mi piace, sembra alludere agli uomini e alla virilità come qualcosa di “migliore” rispetto alle donne e al concetto di femminile, quando, in realtà, sappiamo che mascolinità e femminilità sono dei prodotti, delle prescrizioni derivanti dai ruoli di genere che stiamo cercando di demolire. Mascolinità e femminilità sono dei concetti non reali. Non sono qualità innate, ma il risultato di una serie di caratteristiche che ci sono state appiccicate (inculcate) sin dalla nostra infanzia. Io non voglio più aspirare ad essere “come un uomo”, voglio essere rispettata come una donna. Non desidero il potere che ha l’uomo, io non aspiro ad essere il sesso o la classe o la razza dominanti. Dire che auspichiamo che le donne divengano “uguali” agli uomini non coglie le radici della disuguaglianza e non affronta il fatto che le donne sono di fatto biologicamente differenti dagli uomini e che per questo i nostri diritti possono non collimare esattamente con quelli degli uomini (per esempio, i diritti riproduttivi). (C’è la necessità di una declinazione diversa, ndr). Alcuni pensano che una femminista sia semplicemente una persona che chiede di avere pari diritti uomo-donna e che si tratti di “parità tra i sessi”. Sono d’accordo sul fatto che uomini e donne debbano avere pari opportunità, dignità e diritti, ma allo stesso tempo penso che se non nominiamo il patriarcato come l’origine del problema e non sottolineiamo che la violenza maschile sulle donne è il risultato chiave del patriarcato, stiamo perdendo di vista il nostro reale bersaglio, contro il quale stiamo combattendo.
Ci sono innumerevoli punti su cui le femministe non concordano tra loro: la soluzione migliore in materia di legislazione sulla prostituzione, se la pornografia può o meno essere femminista, il numero di peli pubici che è consentito avere, il grado di divertimento quando mangiamo l’insalata da sole, se le donne possono o meno amare il whisky. Ci sono conflitti su tanti aspetti, tranne sul fatto se il sessismo sia o meno ok, se la violenza sulle donne sia o meno ok, se il patriarcato esista o meno e se sia o meno un male per le donne.
Ora che abbiamo fatto queste puntualizzazioni, desidero segnalarvi un recente articolo di Joyce Arthur, una delle fondatrici di FIRST (una organizzazione nazionale femminista di sex worker con sede a Vancouver, che si batte per la depenalizzazione della prostituzione in Canada), ed è un’attivista pro-choice.
In questo articolo si sostiene che il 6 dicembre non fosse il giorno più appropriato per il varo della nuova legge sulla prostituzione che penalizza protettori e clienti. A questa affermazione io avevo già risposto sostenendo che:
“Il fatto che la nuova legge entri in vigore nella giornata della memoria e dell’azione contro la violenza sulle donne è perfetto, perché va a punire i clienti che sono là fuori in cerca di una giovane donna vulnerabile, aborigena, per soddisfare i loro bisogni. Il 6 dicembre è il giorno in cui ricordiamo e agiamo contro la violenza sulle donne. Questo è il significato della giornata. Quale migliore occasione per gridare contro i perpetratori della violenza: MAI PIU’! Non è un vostro diritto, queste donne non sono per voi. Queste donne meritano di meglio e non sono una serie di fori da penetrare. Le donne povere o vittime di discriminazioni razziali meritano qualcosa di meglio della prostituzione.
Ho anche risposto alle asserzioni (riferite anche da Arthur) secondo cui questa legge alimenterebbe la violenza nei confronti delle sex workers. Non solo non esiste alcuna prova che questo sia vero, ma non vi è prova reale nemmeno che la legalizzazione e la depenalizzazione completa porti alla violenza sulle sex workers. Il fatto che la legalizzazione porti un incremento del traffico significa assistere a un incremento della violenza. Un altro fatto è che sin da quando il modello nordico è stato applicato in Svezia, nessuna prostituta è stata uccisa, mentre nei quartieri a luci rosse di Amsterdam annualmente si registrano femminicidi ai danni delle donne che vi lavorano.
Arthur sostiene la solita tesi secondo cui lo “stigma” provoca la violenza contro le prostitute e ciò che il modello nordico perpetra è uno “stigma”. Ma anche in paesi che hanno legalizzato, lo stigma non è scomparso. Le donne tuttora non vogliono prostituirsi e solo un ridotto numero di prostitute si registrano per pagare le tasse (il che significa che la maggior parte del settore è ancora sommerso, il che contesta l’affermazione secondo cui il modello nordico produce clandestinità) – perché? Perché non desiderano essere registrate e mostrare di essersi prostituite. La loro speranza è di uscire dal loro stato e di fare qualcosa di diverso nella vita (una registrazione è qualcosa che rischia di marchiarti a vita, ndr). Gli uomini non uccidono le prostitute a causa dello “stigma”, bensì perché viviamo in una società patriarcale, all’interno della quale gli uomini imparano che la violenza contro le donne è accettabile e sexy (vedi BDSM), perché i clienti sono misogini che non rispettano le donne (se le rispettassero come esseri umani veri, non le tratterebbero come oggetti e materie prime) e perché molte delle donne che si prostituiscono sono emarginate economicamente, socialmente, a livello razziale e di genere: questo “legittima” il potere dei clienti su di loro, sminuendo il valore di queste donne e rendendole meno visibili nel contesto di un patriarcato capitalista.
Ho affrontato già in precedenza queste tematiche e ho risposto a molte di queste affermazioni senza fondamento che Arthur ripete nel suo articolo, per cui ora vorrei andare oltre e concentrarmi su “cosa le femministe realmente pensano e credono”, “su cosa sia una femminista” e su “cosa sia il femminismo”, rispondendo puntualmente ad alcuni punti dell’articolo di Arthur.

 

La connivenza con alcune forze politiche
Arthur scrive:
“Le femministe radicali che si oppongono alle sex workers hanno sostenuto gruppi di destra e il governo federale conservatore per far passare questo testo di legge sulla prostituzione. Questi ultimi due gruppi sono motivati da un forte desiderio di contrastare i diritti delle donne, l’autodeterminazione e la libertà di espressione sessuale “non tradizionale”, fatto che denota le difficoltà con cui queste femministe radicali affrontano questi temi. Per lo meno credo che lo facciano quando si parla di diritti delle sex workers”.
Io non ho unito le mie forze a nessun partito politico, tanto meno con il governo federale conservatore. Questa non è una questione di parte. Ho sostenuto la legge C-36 perché è un buon testo, nonostante io non sostenga il partito conservatore. Non condivido la posizione del NDP sulla prostituzione perché la ritengo pessima e fuorviante, anche se alla fine alle prossime elezioni potrei votare per loro. Chi lo sa. Ma non posso oppormi a una legge che io ritengo buona, solo perché non voto il partito che la sostiene, così come non vorrei mai dover sostenere un progetto di legge cattivo ad opera di un partito che voto. Il mio voto in occasione delle ultime elezioni locali lo dimostra. Mi piacerebbe poter votare per un partito che sostengo in toto, ma è difficile che ciò possa accadere in tempi brevi.

 

Sugli abolizionisti
Gli abolizionisti si oppongono all’industria del sesso (Arthur sostiene che ci opponiamo al sex work, ma non usiamo l’espressione “lavoro sessuale” perché troppo vago per includere ogni aspetto e perché è più corretto dire che ci opponiamo all’industria del sesso). Questo non è perché abbiamo “problemi” in relazione ai diritti delle donne, all’autodeterminazione e alla libertà sessuale delle donne. Questa è un’affermazione assurda se si ha la minima comprensione di cosa sia il femminismo e cosa siano prostituzione e patriarcato. Tutte le femministe sostengono i diritti umani delle donne. Questo non significa che sosteniamo il potere maschile e l’industria che rende le donne e le ragazze un servizio sessuale per gli uomini che hanno maggiore potere di quanto ne abbiano loro. Sosteniamo l’autodeterminazione delle donne in quanto aspiriamo a una società che consenta scelte reali per le donne, che vadano ben oltre l’essere scopate da degli sconosciuti, per il solo fatto che queste donne non hanno altri mezzi per sopravvivere.

 

Sulle tradizioni
I sostenitori del sex work e i maschilisti ignoranti solitamente asseriscono che sia “il mestiere più antico del mondo” (che non lo è, per la cronaca) il che sembra suggerirci che, lungi dall’essere “non-tradizionale”, la prostituzione è parte di una lunga tradizione che è legata a stretto filo con la tradizione del patriarcato. Ciò significa dire che non solo è una cosa ridicola e risibile che qualcuno dotato di un po’ di cervello possa definire la prostituzione come qualcosa di “non tradizionale”, ma anche che non ha niente a che fare con la naturale espressione sessuale delle donne, questo perché l’unico motivo per cui la prostituzione esiste è che a questo mondo gli uomini detengono un maggiore potere economico e sociale. Non perché le donne entrano volontariamente in massa nell’industria del sesso. Se così fosse non esisterebbero la tratta internazionale di esseri umani, i rapimenti, i ricatti, le bugie e tutti i vari espedienti messi in atto che costringono e portano le donne a prostituirsi. Perché loro non dovrebbero fare altro che “scegliere” di farlo come parte della loro “espressione sessuale non-tradizionale”.

 

Sulla scelta
Naturalmente esistono donne che scelgono intenzionalmente di prostituirsi, senza esservi costrette. Ma ci sono anche migliaia di donne in tutto il mondo che si sottopongono a operazioni di mastoplastica additiva (per scelta), che agitano le tette a spettacoli rap (per scelta), che pubblicano selfies su Instagram (per scelta) – questo significa che tutta l’auto-oggettivazione è femminista? O che le protesi al seno siano qualcosa di buono? O che ottenere applausi per un nudo non abbia nulla a che fare col patriarcato? Se una persona sceglie o meno qualcosa non significa automaticamente che quella cosa che sceglie sia o meno femminista (o più in generale buona o cattiva, etica o salutare o altro). Si tratta semplicemente di una scelta che hanno fatto, considerando il contesto di una serie di fattori – in questo caso i fattori sono stati principalmente il capitalismo e il patriarcato, e se facciamo riferimento al nostro precedente quesito su cosa sia il femminismo, noterete che è un movimento che combatte il patriarcato e che, pertanto, se il tuo femminismo non è fermamente radicato in questa lotta, nei fatti non stai facendo esperienza di femminismo.

 

Sulle vittime
Nonostante ciò, Arthur sembra credere il contrario, se qualcuno si identifica come “vittima” non ha niente a che fare con il fatto che l’industria del sesso vittimizzi o meno le donne. Gli abolizionisti si concentrano sui comportamenti maschili e non su quelli femminili. Questo significa che il colpevole è la persona che vittimizza, quindi che una persona scelga o meno di identificarsi come vittima, non cambia le responsabilità del colpevole. Se per esempio una donna rimane con il marito violento e non si sente/definisce vittima, si tratta di una sua scelta. Ma questo non significa che le azioni del marito diventano “accettabili” (“legittime” ndr), che le femministe debbano accettare ciò come “normale” e guardare altrove o che quello che sta facendo non costituisca vittimizzazione. Per quanto riguarda la prostituzione, in particolare, una donna può sentirsi nelle piene facoltà di scegliere di prostituirsi, ma 1) Lei fa parte di una minoranza (la maggior parte delle prostitute è povera, molte di loro non hanno scelta e non rilasciano interviste) e 2) questo non cambia le dinamiche e il senso dell’industria del sesso, nel suo complesso. Nel mondo vi sono più di 20 milioni di vittime di tratta, la maggior parte delle quali sono donne o ragazze da avviare alla prostituzione. Non esistono milioni di donne adulte nel mondo che stanno scegliendo la prostituzione perché gli piace.

 

Sul femminismo anti-femminista ed altri aspetti in merito al femminismo e alle femministe
Nel resto dell’articolo Arthur ricorre prevalentemente a insulti sessisti e tropi, di solito riservati agli MRA (men’s rights activist), ai giocatori, ai frat bros, in modo tale da accusare le femministe di essere delle fanatiche, come i patriarchi cristiani fondamentalisti che reprimono la sessualità. Arthur prosegue con l’etichettare le femministe che si oppongono all’industria del sesso come pudiche e che cercano di reprimere la sessualità maschile e di incoraggiare la monogamia, affermazioni che suonano molto simili a ciò che direbbe un uomo sessista. Non sono certo cose che direbbe una persona che sostiene di essere in linea con il movimento femminista. In ogni caso, se la prostituzione fosse qualcosa di innato della sessualità maschile, è stupro? Tutto ciò che facciamo per affrontare il “diritto” al sesso che gli uomini accampano e l’uso dei corpi femminili significa “reprimere la sessualità maschile”? Gli uomini sono in qualche modo biologicamente predisposti ad avere rapporti sessuali con donne che non li desiderano? Perché trovo questo concetto preoccupante, per non dire altro.
Le femministe sono apostrofate in ogni modo dalle anti-femministe: naziste, odia-uomini, nemiche del sesso, brutte, pelose, arrabbiate, pazze e pudiche. Arthur utilizza alcuni di questi epiteti. Lei ci accusa anche di odiare le donne: “è possibile che (le femministe radicali) abbiano una vena punitiva che disprezza le prostitute?”
Permettetemi di rispondere: no Joyce. Per la miliardesima volta no. Il femminismo non odia le donne. Si tratta di qualcosa che concerne gli uomini e consiste nello sfidare il potere maschile. Inoltre, molte femministe radicali, femministe e femministe abolizioniste sono state prostitute. E loro non possono certo odiare se stesse, le amiche, le loro sorelle, le figlie e le madri che in passato sono state prostitute o lo sono tuttora. Mi verrebbe voglia di rispondere con il dito medio a queste insinuazioni, ma questa volta rinuncerò.
Nelle sue esultanze misogine finali, Arthur sforna un classico: You’re all just jealous, bitcheeeees. Nelle sue parole “le femministe radicali…vedono le sex workers come concorrenti che, troppo disponibili sessualmente, rovinano “la piazza” alle altre donne. Mi sembra un’ipotesi un tantino confusa, perché mi sembrava di aver capito che le femministe radicali odiassero gli uomini e il sesso, quindi mi sembra strano che ora vengano dipinte come gelose e desiderose di essere possedute dai clienti al loro posto.
Non so voi. Si potrebbe pensare che se le femministe fossero messe così male riguardo al sesso, se la prostituzione fosse una pratica tanto piacevole per far soldi, ci dovrebbe essere un buon numero di uomini prostituti per risolvere il problema delle femministe radicali. (…)
Scherzi a parte le argomentazioni dell’articolo di Arthur non possono definirsi femministe. Sono dannose, sessiste, pieni di stereotipi contro le donne radicati nei miti e nelle fantasie maschili. Sono tesi che concorrono a mantenere lo status subordinato delle donne e mirano a far sembrare “naturale/normale” la nostra oggettivazione, la nostra sessualità e la nostra disuguaglianza. Sono argomentazioni che servono ad attribuire un’aurea di normalità al potere maschile e alla violenza. E come ogni 6 dicembre, ogni anno, ricordiamo che l’odio nei confronti delle femministe può essere molto pericoloso.

Quale libertà ci può essere in una scelta, quando non si hanno alternative percorribili? Pensiamoci, questo ci riguarda molto da vicino.

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Quanto ancora?

fiore red

Quando una donna potrà essere semplicemente se stessa e il risultato delle proprie scelte?
Quanto dovrà parlare una donna per essere ascoltata, creduta e sostenuta?
Quante volte dovrà sentirsi dire che sta ingigantendo i fatti?
Quante volte non verrà creduta?
Quanti km dovrà frapporre tra sé e la violenza, per sentirsi al sicuro?
Quanta acqua e sapone dovrà usare per togliersi il fango di dosso che altri le hanno gettato addosso?
Quante volte dovrà gridare per difendere i propri diritti?
Quante volte dovrà sentirsi chiamare pazza per le sue lotte e per affermare un diritto?
Quante volte si dovrà sentire dire che non vale niente?
Quante volte le capiterà di essere azzerata umanamente?
Quante volte dovrà lottare per essere ciò che desidera?
Quali parole dovrà usare per dire basta?
Quali potranno essere le cure quando la violenza scava dentro e annienta ogni più piccolo sogno, desiderio e ogni cm della tua anima?
Quanti sensi di colpa inutili potrà sostenere?
Quali parole per affermare la sua dignità davanti a chi desidera schiacciarla?
Come potrà sbarazzarsi di tutti gli epiteti che le sono stati appiccicati addosso?
Quando potrà essere se stessa senza sentirsi ogni volta messa sotto giudizio?
Quando smetterete di crocifiggerci per le nostre idee, le nostre aspirazioni, le nostre scelte?
Quando saremo accettate così come siamo? SEMPLICEMENTE DONNE, ESSERI UMANI.
Non siamo noi a doverci vergognare e scusare della nostra stessa esistenza. Fatevene una ragione.
Tanto per la cronaca, sono orgogliosa delle mie idee e di essere femminista.
Mia madre li chiama grilli pericolosi per la testa. Io ho voltato pagina. Lei no. Ognuno segue la propria strada. Per molti è difficile accettare questa cosa.
Con orgoglio me ne frego altamente e scelgo un bel colpo di spugna su tutto quello che mi ha fatto male.
Sono io e basta questo. Sono io con tutti i miei sbagli e i miei successi. Mai farsi zittire o intimidire, sopratutto quando ti dicono che non vali niente o che hai fatto solo errori.

Non smetterò mai di pensare con la mia testa.

Pericolosamente indipendente e mai schiava!

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Trascendenza e Esistenza

Esistenza

Proseguo nel mio cammino attraverso le pagine di Simone de Beauvoir, perché credo che siano passi importanti per ricostruire il percorso della donna e andare a scandagliare aspetti che raramente compaiono nelle analisi recenti.
Oggi riprendo alcuni passaggi tratti da pagg. 84-85 da Il secondo sesso, Il saggiatore 2012.

“Al puro livello biologico una specie si conserva solo rinnovandosi; ma questo rinnovarsi non è che un ripetere la stessa Vita sotto forme diverse. Solo trascendendo la Vita mediante l’Esistenza l’uomo assicura il ricrearsi della Vita: con questo superamento crea valori che negano ogni senso alla pura ripetizione. Nell’animale la gratuità, la varietà delle attività maschili restano vane perché non sono concepite in vista di uno scopo; quando non serve la specie, la sua attività è inutile; mentre il maschio umano servendo la specie modifica la faccia del mondo, crea strumenti nuovi, inventa, foggia l’avvenire. Nel farsi sovrano, trova la complicità della donna: poiché è lei pure un esistente, è abitata dalla trascendenza e i suoi fini non consistono nella ripetizione dell’avvenuto ma nel superamento verso un avvenire nuovo; il cuore stesso del suo essere è abitato dalla conferma delle pretese maschili. Ella si associa agli uomini nelle feste che celebrano i successi e le vittorie dei maschi. La sua disgrazia è di essere biologicamente votata a ripetere la vita, mentre, anche per lei, la vita non porta in sé le sue ragioni sostanziali di essere, e tali ragioni sono più importanti della vita stessa. Certi passaggi della dialettica con cui Hegel definisce il rapporto tra padrone e schiavo si applicherebbero assai meglio alla relazione tra uomo e donna. Il privilegio del padrone – dice Hegel – nasce dal fatto che, rischiando la sua vita, egli afferma lo Spirito contro la Vita: ma in realtà lo schiavo vinto ha conosciuto il medesimo rischio; mentre la donna è originariamente un’esistente che dà la vita e non rischia la propria vita; tra il maschio e lei non c’è mai stata lotta; la definizione di Hegel si applica singolarmente a lei. “L’altra (coscienza) è la coscienza subordinata, la quale la realtà essenziale è la vita animale, cioè l’essere dato da un’entità estranea.”

In pratica, l’assenza di quel conflitto che permetteva l’esperienza e la piena coscienza di sé (di cui parlavo nei miei post precedenti), la donna non stata storicamente messa in grado di affermare se stessa. Per questo ella vive una coscienza subordinata, non consapevole di sé. Il suo ruolo resta confinato e subordinato, incapace di quel salto che le permetta di superare il dato biologico. Ma questo rientra in un disegno maschile, come spiega bene de Beauvoir:

“Ma questo rapporto si distingue dal rapporto di oppressione, in quanto la donna riconosce e ambisce i medesimi valori che sono concretamente raggiunti dai maschi; è l’uomo che apre l’avvenire verso il quale anche la donna si trascende; in realtà le donne non hanno mai opposto ai valori maschili dei valori femminili: sono stati gli uomini desiderosi di mantenere le prerogative maschili a inventare questa divisione; hanno voluto creare un regno femminile – regno della vita, dell’immanenza – solo per rinchiudervi la donna; ma l’esistente cerca la giustificazione nel moto della sua trascendenza, al di là di ogni specificazione sessuale: la sottomissione stessa delle donne ne è la prova. Oggi esse vogliono venire considerate come “esistenti” alla medesima stregua degli uomini e non sottomettere l’esistenza alla vita, l’uomo alla sua animalità”.

Siamo ancora ferme a questo punto, alla ricerca di affermare la sua esistenza al pari dell’uomo, senza essere schiava di una discriminazione che l’ha confinata a un destino specifico. Superare il destino è l’obiettivo. Conoscere a che punto siamo oggi è il primo passo.

“Una prospettiva esistenziale ci ha dunque permesso di capire perché la situazione biologica ed economica delle orde primitive dovesse condurre alla supremazia dei maschi. La femmina è più del maschio in preda alla specie; l’umanità ha sempre cercato di evadere al suo destino specifico; con l’invenzione dello strumento la conservazione della vita è divenuta per l’uomo attività e fine, mentre la donna nella maternità restava incatenata al suo corpo, come l’animale. L’uomo è diventato un “padrone” rispetto alla donna perché l’umanità mette in causa tutto il proprio essere, cioè preferisce alla vita le ragioni di vivere; il fine dell’uomo non è di ripetersi nel tempo: è di regnare sull’istante e di formare l’avvenire. È l’attività maschile che, creando valori, ha costituito l’esistenza stessa come valore; essa ha prevalso sulle forze oscure della vita; ha asservito la Natura e la Donna”.

Da questo occorre partire. Come è stata definita la donna, l’Altra, che posto e che diritti le sono stati riservati? L’Altra esistente misconosciuta, mai riconosciuta come pari.
Occorre riconoscere il ruolo delle donne come creatrici di un’esistenza che riesce a superare la mera ripetitività e che consente all’umanità tutta di trascendere se stessa. Questo il nostro compito: portare alla luce questi aspetti e crescere le future generazioni in questa consapevolezza nuova e mai affermata veramente.
Questo è un compito per tutte le donne del mondo.

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…con tutta la forza del vento

Vi invito a leggere questo contributo di Alessandra Chiricosta su Laboratorio Donnae. Penso sia un ottimo inizio per una nuova e rinvigorita politica delle donne.

“Il boschetto di bambù diviene una foresta. Se una singola canna di bambù resiste anche alla tempesta più travolgente, ritornando carica di forza, quanta forza può sprigionare un bosco di bambù? Direi la forza di mille tempeste. Mi ha sempre meravigliato l’ordine che regna in un boschetto di bambù. Le singole canne crescono vicine, vicinissime, ma non si soffocano reciprocamente. Si piegano all’unisono, ma ciascuna a modo suo. C’è una forma di “intelligenza vegetale” che fa si che non ci sia bisogno di un cervello centrale, ma dell’essere ciascuna autenticamente…una canna di bambù in un boschetto di canne di bambù. Il bambù è invasivo. Si radica nel territorio e inizia a diffondersi, canna dopo canna, occupando tutti gli spazi disponibili. Il boschetto cresce, in altezza, in larghezza. Diviene fitto, impenetrabile. Queste riflessioni mi sembrano particolarmente pertinenti nella ricerca di una forma di politica delle donne che prenda ispirazione dal bambù”.

Qui il testo completo: …con tutta la forza del vento.

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Discendenza e vita economica

discendenza

Riflettevo nel mio post su quale potesse essere l’origine del comportamento dell’uomo che cerca di sottomettere e controllare il corpo della donna, la sua vita, le sue capacità riproduttive. Sempre facendo riferimento al tentativo dell’uomo di superarsi e di trascendere se stesso, l’uomo cerca di dominare in primis la Natura, creando strumenti sempre più sofisticati per l’agricoltura, poi gli altri uomini e infine la donna (psicanaliticamente dipinta come il soggetto alienato per eccellenza). Riprendo Engels. C’è un momento in cui, in una divisione primitiva del lavoro, agricoltura e lavoro domestico si equivalevano e concorrevano in egual misura al benessere del gruppo. A un certo punto, il passaggio a forme di produzione e di economia più complesse, che esigevano una forza maggiore, ha creato di fatto l’esigenza di avvalersi dei servigi di altri uomini. L’uomo diventa padrone di terre e di altri uomini, generando di fatto la proprietà privata. In questo possesso rientra naturalmente anche la donna. Il lavoro domestico diventa un di più di scarso valore, in una società in cui il lavoro dell’uomo invece assume un ruolo primario. Il diritto paterno sostituisce quello materno: si tramanda il potere (e le proprietà) di padre in figlio, non più dalla donna al suo clan. Si chiama modello patriarcale. Il materialismo storico non spiega a sufficienza come avvengono i passaggi che abbiamo citato, dandoli quasi come dati di fatto, come ad esempio il legame d’interesse che lega l’uomo alla proprietà privata. Così come non si comprende come mai nel pensiero socialista, grazie all’integrazione delle donne nella produzione, si avrà un superamento della sottomissione del genere femminile, che verrà assimilato nella categoria “lavoratori”. Sul fallimento (ne avevo già parlato qui a proposito di alcune argomentazioni di Simone de Beauvoir) della strategia femminista che identifica il lavoro retribuito come la via per la liberazione delle donne tornerò in un altro post.

Per colmare il vuoto sulle cause originarie, occorre utilizzare quel ragionamento che avevo introdotto nel post La Natura, l’Altro e l’Altra. Per comprendere è necessario ripescare l’idea di un soggetto che voglia imporsi come individualità autonoma, cercando se stesso in una forma estranea che fa sua, alienandosi in essa. Il territorio che egli conquista e fa proprio attraverso i suoi strumenti diventa di una importanza immensa, perché in esso ritrova se stesso. Ma per spiegare la sottomissione della donna dobbiamo aggiungere un altro tassello. Se i rapporti umani fossero da sempre stati contraddistinti da un tipo di associazione amichevole, non ci sarebbe stato nessun asservimento. Simone de Beauvoir, parla di “imperialismo insito nella coscienza umana, che cerca di realizzare nell’oggetto la propria sovranità”. Era il discorso sul predominio sull’Altro che facevo nel mio post. Quindi non è lo sviluppo tecnologico a spiegare da solo il processo di sfruttamento. Engels non approfondisce il carattere speciale dell’oppressione delle donne, riducendo le disparità tra i sessi a un mero conflitto di classe. Nella scissione tra le classi non ci sono questioni biologiche, l’operaio oppresso prende coscienza di sé contro il padrone, sperimentando da sempre il conflitto che può portare a invertire la situazione: “il proletariato mira a sparire come classe”. “La donna non vuole abolirsi come sesso”, ma cercare di eliminare le conseguenze negative di una differenza sessuale che ha invaso ogni ambito della sua vita, impedendone uno sviluppo pieno e pregiudicandone il libero godimento.

 

to be continued

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La “causa” è di tutte le donne o di nessuna

 

Silvia Federici qui (in pdf) afferma che:

“non possiamo ottenere nessun cambiamento sociale significativo a meno che non combattiamo contro la totalità dello sfruttamento femminile e sino a che ci diamo da fare per politiche di cui beneficia solo un gruppo limitato di donne”.

L’impostazione sul lavoro retribuito come fonte “certa” di liberazione delle donne nasce come risultato delle teorie marxiste, una conseguenza “naturale” che sarebbe stata raggiunta con l’abolizione delle classi e con il superamento del modello capitalistico. Il capitalismo è vivo e vegeto, le discriminazioni delle donne pure. Ne parlavo qui, commentando le tesi di Simone de Beauvoir:

“siamo stritolate e l’emancipazione sembra passare solo attraverso esistenze funamboliche, subappaltate magari a qualche altra donna che faccia le nostre veci di angelo del focolare. Si susseguono e si affermano miti di donne tuttofare, in grado di sostenere ogni cosa da sole, ci raccontiamo tante frottole per soddisfare il modello che oggi è considerato vincente e irrinunciabile. Ci facciamo strizzare, comprimere per essere quelle donne perfette come ci chiedono gli altri, il sistema sociale ed economico. Ci dibattiamo su quale sia la scelta giusta, quando non esiste. È palese che la crocifissione in virtù di una scelta perfetta non va bene. Non esiste, una e una sola ricetta. Saranno tutte ugualmente fallimentari, finché non cambierà il sistema produttivo, i rapporti sociali e culturali. La mancata piena emancipazione femminile è fondata sul mantenimento di donne perennemente traballanti, qualunque sia la loro scelta. Ci vogliono così, perché disunite, fragili, piene di sensi di colpa, affannate, tremanti, angosciate, siamo più controllabili e ci possono tenere sotto dominio, palese o celato. Incelofanate e pronte al multiuso. Dobbiamo imparare a sbarazzarci di sistemi di vita preconfezionati e marchiati come vincenti e socialmente approvati. Costruiamone di nostri, autentici. Sicuramente sbaglieremo, ma almeno saremo in grado di esserne consapevoli”.

Queste riflessioni ci portano a comprendere, forse per la prima volta nella storia, dopo l’euforia a partire dal secondo dopoguerra e del boom economico, che l’emancipazione non passa unicamente per una compartecipazione alla produzione capitalistica, non può derivarci nulla di buono dall’essere inserite in un meccanismo che ci sfrutta e che ci usa. Evidentemente ci vuole qualcosa di più “permanente” e meno aleatorio di un lavoro. Evidentemente si tratta di un’emancipazione illusoria, funzionale al nostro essere utili a un sistema di produzione ineguale e fonte di discriminazioni. Il mito dell’ascensore sociale è crollato. Come abbiamo visto, possiamo ampiamente sostenere che siamo ricadute in una nuova forma di “controllo” e sfruttamento, per certi aspetti più subdola. Forse è il caso di affrontare queste questioni e aprire le nostre riflessioni.

Notevoli i passaggi che si riferiscono al lavoro domestico e alla violenza domestica:

Domestic work and domestic life are built on women’s unpaid labour and the male supervision of it. As I have often pointed out throughout my work: by means of the wage, capital and the state delegate to men the power to command women’s work, which is why domestic violence has been socially accepted and is so widespread even today.

L’attuale assetto socio-economico specula su una competizione accesa tra individui, divisi e sempre più spiccatamente dotati di un approccio individualistico alla vita. Silvia Federici spiega molto bene come un meccanismo di cooperazione potrebbe costare molto caro al capitalismo. Per questo noi femministe siamo da sempre bersaglio del modello capitalista. Ma per orientarsi verso un modello di cooperazione occorre sviluppare una consapevolezza propria, che in un momento di fragilità esistenziale e materiale come quello che stiamo vivendo, appare difficilmente raggiungibile.
Nella lunga intervista, la filosofa femminista tocca anche il tema della famiglia nucleare, funzionale all’ordine e alla disciplina capitalista. Così come la sottomissione delle donne è stato uno strumento per la costruzione capitalista, in Europa, nelle Americhe e in Asia (dove la dominazione coloniale ha cancellato i modelli di società matrilineari e la trasmissione delle proprietà collettive per linea materna).

“L’approccio è di insistere che qualsiasi richiesta e strategia che non interessi tutte le donne e, prima di tutto, quelle che sono state più sfruttate e discriminate, qualsiasi approccio che non mini le gerarchie che sono state costruite tra noi, è fallimentare, e mette a rischio qualsiasi vantaggio abbiamo potuto momentaneamente ottenere”.

La causa è di tutte le donne o di nessuna. Il femminismo deve essere rivoluzionario, scardinare le regole secolari costruite dagli uomini per il benessere e il successo del proprio genere, a discapito dell’Altra.
La crisi, lo “slittamento dal welfare al workfare” ha segnato l’avvento di tutele previdenziali subordinate allo svolgimento di un lavoro retribuito. In un contesto di precarietà diffusa, questo meccanismo è molto pericoloso, segna una discriminazione che dovrebbe portarci a riflettere. Non si tratta semplicemente di un modello che disincentiva chi non lavora, ma lo penalizza nel momento in cui la sua condizione di bisogno e di impossibilità permanente o temporanea non gli permette di essere parte attiva del sistema produttivo. Sappiamo benissimo quali sono le componenti della società maggiormente colpite dal workfare. Soprattutto laddove mancano i servizi e i sostegni dello stato all’assistenza dei figli e dei familiari anziani o malati.

Questa intervista è preziosa per l’approccio analitico, a 360°. Ciò che alcune volte manca alle riflessioni femministe. Occorre capire che tutti gli ambiti qui toccati sono strettamente interconnessi e non dobbiamo assumere un’ottica parziale e monotematica. Infine, penso che sia giunto il momento di tornare a fare fronte compatto tra donne e dismettere la prassi che spesso ci coglie “ognuna per sé”, divise in schieramenti e appartenenze che non aiutano.

Fonte originale dell’intervista qui.

 

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