Nuvolette di pensieri

Mormora l'acqua del ruscello

Un rinnovato impegno per la cittadinanza di genere


La storia è attraversata da uomini e donne, ma per secoli i passi compiuti dalle donne sono stati marginalizzati e relegati in un angolo, subordinati e oscurati da una narrazione monosessuata al maschile. Una storia che è relazioni e intrecci tra i generi sarebbe zoppa senza considerare il genere femminile. Pertanto nella ricostruzione è fondamentale ricomporre un modello relazionale, di rapporto e di incontro/scontro tra i generi. La cittadinanza è un concetto che irrompe con la Rivoluzione francese, con l’avvento dei diritti universali dell’uomo. E l’altra metà, le donne che posto occupavano? Nel 1791, Olympe De Gouges con la sua Dichiarazione dei diritti delle donne e della cittadina, rimise ordine e cercò di portare un equilibrio per il quale pagò con la ghigliottina, dimentica delle “virtù che convengono al suo sesso e di essersi immischiata nelle cose della Repubblica. Olympe, insieme a Théroigne de Méricourt (che aveva proposto la formazione di un battaglione di donne per partecipare alla guerra, fu rinchiusa in manicomio) rappresentano il tentativo di mobilitare le donne per la causa della liberazione dall’oppressione di un potere gestito solo dagli uomini.

Nel 1792, a Londra, Mary Wollstonecraft pubblicava “La rivendicazione dei diritti delle donne”, le donne per superare la loro condizione subalterna dovevano prendere coscienza del loro valore sociale attraverso l’educazione, dando centralità al valore pubblico e politico della dimensione personale.

Quando parliamo di “cittadinanza di genere” cosa intendiamo, di quali specificità è portatrice? L’essere donne, uguali e differenti, essere partecipi della vita sociale, politica, comunitaria significa garantire benessere e miglioramenti per tutte le componenti. Questo è il farsi e il potersi fare cittadina, esercitando consapevolmente e pienamente i propri diritti, conoscendone in primis l’origine e il cammino che ci ha portato ad acquisirli. Quali soluzioni, quali risposte, quale qualità della vita, quale grado di attenzione, quale priorità sono state accordate alle donne? Quale la nostra autonomia e quale la nostra capacità di incidere e di cambiare il corso degli eventi e della storia, quali sono state le nostre parole davanti alla storia e alle sue sfide? Quanto è solida e ampia la nostra democrazia? Quanto dipende dalla presenza e da un’azione delle donne? E se si smarrisce ciò che è stato il contributo delle donne per pigrizia o per una solerte “operazione dimenticanza”, cosa accade?

E lo notiamo quando in un momento di crisi e di difficoltà, quando si parla di riforma e di costruire una nuova stagione per un partito, ritroviamo ancora una volta tra i relatori di un evento solo degli uomini.

Nessuna discontinuità. Tutto cambia attorno, ma non sembra che ci sia la volontà di accorgersene e di dimostrare di voler intraprendere un cammino diverso. E non crediate che non ci siano donne in grado di spingere e di segnare una nuova stagione. Le energie ci sono, ma a furia di non includerle e di non valorizzare ciò che è autenticamente differente, si ha la sensazione di un immobilismo ripiegato su se stesso. D’altronde cosa e chi si pensa di rappresentare se non ci si accorge di queste anomalie?

A volte sembra tutto molto simile nelle difficoltà a quando nella Consulta del 1945 si discuteva sull’opportunità di estendere il diritto di voto alle donne, con i partiti di massa che ne temevano le conseguenze, tra calcoli politici e dubbi sulle loro capacità di scelta. Le donne andavano educate alla partecipazione: “C’era da “alfabetizzare” un intero popolo alla politica, alla partecipazione, all’espressione delle proprie istanze, alla democrazia rappresentativa. Ancora più importante diventava la formazione delle donne, escluse da sempre, ritenute non idonee alla politica e alla vita pubblica.” 

Pio XII allertava le conseguenze sugli equilibri del focolare domestico. Nel febbraio del 1946 con 179 voti contro 156 contrari, le donne riuscirono a conquistare il suffragio. Il 2 giugno 1946, 21 donne vennero elette all’Assemblea costituente. Solo 5 donne entrarono a far parte della Commissione Speciale, detta “dei 75”, incaricata di elaborare e proporre il progetto di Costituzione da discutere in aula: Maria Federici (DC), Teresa Noce (PCI), Angelina Merlin (PSI), Nilde Iotti (PCI) e Ottavia Penna Buscemi (UOMO QUALUNQUE).

Fu l’occasione di riscatto civile per tutte le donne, la testimonianza di una volontà di voler rappresentare le italiane tutte. Ci riuscirono facendo squadra. Numeri esigui ma che seppero segnare l’anima della nostra Carta costituzionale: il principio di uguaglianza (art. 3), la famiglia e il matrimonio (artt. 29, 30, 31) il lavoro femminile e la parità di retribuzione (art. 37), il diritto di voto (art. 48), l’accesso alle cariche politiche elettive e amministrative (art. 51). Il clima ostile non permise da subito l’ammissione delle donne nella Magistratura, ma non per questo si smise di lottare: dovremo attendere il 9 febbraio del 1963.

Un contributo ampio, oltre le questioni femminili, volto a costruire un nuovo tessuto democratico, con un pensiero e soluzioni con sguardo di donna, che fosse finalmente anche a misura di donna.

Il tema della cittadinanza femminile non è un orpello decorativo da commemorazione, lo si vede plasticamente quando viene messo nell’ombra: gli effetti e i risultati sono in frenata, in retromarcia.

Teresa Mattei intervenne nel corso dei lavori dell’Assemblea costituente:

“Il riconoscimento della raggiunta parità esiste per ora negli articoli della nuova Costituzione. Questo è un buon punto di partenza per le donne italiane, ma non certo un punto di arrivo. Guai se considerassimo questo un punto di arrivo, un approdo”.

Il passaggio dalla carta alla pratica nella realtà è tuttora in atto, un’eredità di cui dobbiamo innanzitutto essere consapevoli. Un lavoro che implica uno sforzo comune tra uomini e donne, che rileva il grado di maturità di un Paese e il livello di superamento dei muri di genere.

Stando alle vicende di questi ultimi mesi/giorni, si stenta a credere che ci sia sufficiente senso di responsabilità e senso del valore di istituzioni e della nostra Carta. Se manca il passaggio intergenerazionale, il rischio di tornare indietro è purtroppo molto concreto. Ciò che è accaduto ha mostrato alcuni gravi segnali di un cortocircuito prodotto da una sorta di smarrimento delle fondamenta comuni della nostra casa. Nel chiacchiericcio e nei calcoli da perenne campagna elettorale si sono disciolte, rendendo più arduo un discorso politico serio e di qualità. Tutto e il contrario di tutto, in un modello gattopardesco che parla di “cambiamento”, in un gioco pericoloso di ribaltamento di significato.

E noi donne di cosa abbiamo paura? Cosa stiamo aspettando? Ci andranno ancora bene i meccanismi di stampo maschile che ci sottraggono opportunità di rappresentanza autentica e puzzano di tanfo patriarcale? Ci andranno bene soluzioni e proposte politiche che non tengono conto della nostra voce e del nostro punto di vista?

Articolo pubblicato anche su Dol’s Magazine.

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Dall’Italia all’Irlanda per rispettare la volontà e la scelta delle donne


I primi 40 anni della Legge 194, Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza. A che punto siamo?

Al principio fu la battaglia contro una delle più evidenti espressioni dell’assetto patriarcale della società. Un movimento che si batté per garantire alle donne l’accesso all’aborto, libero, assistito e gratuito. Una pratica che era clandestina, esisteva, veniva gestita in modo diverso a seconda delle condizioni e delle disponibilità economiche della donna, tra ginecologi, ostetriche e mammane. Differenze di classe e di censo che decidevano della salute della donna. Ci si scontrava contro leggi che bollavano la contraccezione come “attentato all’integrità della stirpe”, come da Codice penale Rocco, e l’aborto era considerato un crimine per lo Stato italiano e un omicidio per la Chiesa.

Decidere sul proprio corpo, quando questo corpo per secoli era stato considerato appendice, proprietà, oggetto in possesso dell’uomo.

Nonostante questo contesto medievale, le donne abortivano clandestinamente con ogni mezzo, tra sonde, chinino, prezzemolo e altre pratiche più o meno rischiose.

Il primo tentativo di avviare la discussione in Parlamento avvenne con il ddl Fortuna nel 1971.

Occorreva trovare nuove strategie per diffondere la discussione anche oltre gli ambiti istituzionali, tra le donne, ma anche per iniziare a rompere il silenzio delle pratiche clandestine e aprire una nuova stagione. A partire dal 1973 il CISA (Centro Informazione Sterilizzazione Aborto) avviò l’apertura di strutture in cui praticare in sicurezza le IVG. Alcune donne e gruppi di donne iniziarono ad autodenunciarsi, avviando processi politici (ricordiamo Gigliola Pierobon nel 1973 e 263 donne di Trento nel 1974). Nel 1974 il Movimento di Liberazione della Donna raccolse in una settimana 13.000 firme perché in Parlamento si discutesse urgentemente sull’aborto. Arrivò la proposta di legge del PCI, mentre la Corte Costituzionale dichiarò illegittimo l’art. 546 del c.p. che non consentiva alcun tipo di scelta alla donna, nemmeno in caso di pericolo per la sua vita. Nel 1975 furono raccolte 750.000 firme per un referendum abrogativo sulle leggi fasciste sull’aborto. Il Parlamento si svegliò e iniziò l’esame di un disegno che unificava varie proposte, era marzo 1976. Il 2 aprile DC e MSI votarono contro l’art. 2, perché ritenevano l’aborto un reato. Il giorno dopo 50.000 donne manifestarono e non si fermarono più fino all’approvazione della 194, il 22 maggio 1978.

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AGGIORNAMENTO 26 maggio 2018:

Di gravidanza non si dovrà più morire, l’Irlanda ha votato sì al referendum per l’abrogazione dell’ottavo emendamento, il 66,4% dei voti ha permesso finalmente di sbloccare una situazione grave che dal 1983 consentiva l’interruzione solo nei casi in cui fosse «reale e sostanziale» il rischio per la vita della partoriente. Il premier irlandese ha promesso una norma entro l’anno per consentire alle donne irlandesi di scegliere, per un aborto sicuro, legale e senza dover andare all’estero.

Non riesco ad esprimere la gioia per questa conquista delle sorelle irlandesi… hanno davvero scritto la storia. Una storia che riguarda tutte noi!

Prendiamo esempio dalla perseveranza delle irlandesi e lavoriamo sodo per mutare la situazione disastrosa in cui versano i nostri diritti sessuali e riproduttivi.

 

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Legge 194: i primi 40 anni di una legge che va difesa, con prospettive a sostegno della salute sessuale e riproduttiva delle donne


Sono trascorsi 40 anni, questo 22 maggio dalla promulgazione della legge 194, Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza.

Gli anniversari servono solo se riescono a far prendere coscienza, non solo per tracciare un bilancio, ma se riusciamo a correggere e a risolvere ciò che nel tempo è andato perduto, si è sfilacciato come un tessuto di cui non abbiamo avuto abbastanza cura.

Attorno a questo numero di legge è rimasto un alone di silenzio e negli anni si è sempre cercato di marginalizzare tutto ciò che questa norma portava con sé. Fino a smarrirne la genesi e fino a doverne constatare i profondi tentativi di svuotarla nella sua applicazione. In una crescente difficoltà, non abbiamo mollato mai del tutto, anche se negli anni è tornato ad essere un tema tabù, anche per la politica, abbiamo tentato di uscire dal silenzio, ci siamo trascinate fino ad oggi cercando di continuare ad arginare questo smottamento. I risultati sono questi: si attesta al 70,9% la percentuale nazionale di ginecologhe e ginecologi obiettrici e obiettori di coscienza, mentre tra gli/le anestesisti/e siamo al 48,8%.

Da quanto rileva l’Ass. Luca Coscioni solo il 59,4% delle strutture con reparto di ostetricia rispetta la legge e pratica l’IVG. Mentre il Ministero della salute afferma che “su base regionale e, per quanto riguarda i carichi di lavoro per ciascun ginecologo non obiettore, anche su base sub-regionale, non emergono criticità nei servizi di IVG”, valutando però la presenza dei servizi su base statistica e non su base territoriale. Per non parlare dei costi aggiuntivi per la Sanità pubblica, sostenuti per reclutare i medici “gettonisti” che vanno a supplire gli obiettori. Non è solo una questione di numeri, ma di garantire un livello e una qualità di assistenza buone.

 


La relazione ci dice che i consultori sono 0,6 ogni 20.000 abitanti (il POMI del 2000 ne prevedeva 1 ogni 20.000 abitanti), rilevando purtroppo che “molte sedi di consultorio familiare sono servizi per l’età evolutiva o dedicati agli screening dei tumori e pertanto non svolgono attività connessa al servizio IVG”. Per non parlare dei problemi relativi al ricambio generazionale, di personale, alla strumentazione di cui sono dotati (mancano gli ecografi). Il tutto aggravato da pratiche regionali differenti che creano difformità sul territorio nazionale (costi delle prestazioni e una gratuità che non è più assicurata dappertutto). Insomma dal 1975 assistiamo a una lenta perdita di presidi e di diritti.

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Donne: equilibri e disequilibri di una condizione che merita cure adeguate

@Anna Parini


Passata la festa della mamma, in occasione della quale sono stati sciorinati dati, dolciumi e zuccherini, le mamme si trovano sempre nella medesima condizione e di dolce resta ben poco, che possa garantire una qualità della vita soddisfacente, altro che indice bes.

Per chi se lo fosse perso, Save the Children ha elaborato un report “Le equilibriste, la maternità in Italia”, un indice sulla condizione delle madri in collaborazione con ISTAT.

L’occupazione è una questione di genere, perché non solo il numero è differente a discapito delle donne, ma varia molto a seconda se ci sono figli e del loro numero. Ma questo già è assai risaputo.

“Decidono di diventare madri sempre più tardi (l’Italia è in vetta alla classifica europea per anzianità delle donne al primo parto con una media di 31 anni) e rinunciano sempre più spesso alla carriera professionale quando si tratta di dover scegliere tra lavoro e impegni familiari (il 37% delle donne tra i 25 e i 49 anni con almeno un figlio risulta inattiva).”

D’altronde, i numeri delle dimissioni volontarie non accennano a diminuire e sono ancora una volta le donne che compongono la fetta maggioritaria.

Non è solo una questione di accesso, ma di permanenza e a quali condizioni. L’ultimo Global gender gap parla da sé: siamo ottantaduesimi su 144 Paesi, abbiamo fatto tanti passi indietro soprattutto a causa della voce lavoro, siamo al 118° posto.

Disuguaglianze socio-economiche che penalizzano non solo le donne, ma l’intero sistema Paese.

I dati sulla divisione dei tempi del lavoro familiare, inclusi nel rapporto annuale Istat 2018(pagina 219, n. b. fanno riferimento a un report del 2014!), rivelano che le donne “dedicano circa 3 ore in più degli uomini alle attività domestiche e di cura dei familiari, la differenza supera le 4 ore nelle coppie con figli, e arriva a 4 ore e 40 nelle coppie in cui lavora solo lei.” Hanno all’incirca 84 ore al mese (più di mille in un anno) in meno di un uomo per sé e per il lavoro.

Lavare e stirare, pulire la casa sono ancora appannaggio delle donne tra il 70-80%. I carichi familiari determinano poi le motivazioni per cui le donne sono circa i 3/4 dei part-time, che diventa quasi un obbligo, almeno che non si possa usufruire di aiuti esterni quali familiari o collaboratori domestici. Anche il tasso di partecipazione alla comunità con attività di volontariato risente dai compiti di cura familiari.

Gli uomini risultano ancora più propensi a condividere la cura dei figli, occuparsi della spesa e seguire la contabilità familiare.

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Non si cambia la cultura se questi sono i messaggi


Alla cortese attenzione di:
Presidente Rai Monica Maggioni 
Direttore RAI Andrea Fabiano
Direttrice di RAI Fiction Eleonora Andreatta
Presidente AGCOM Angelo Marcello Cardani 
Presidente Com. Media e Minori Donatella Pacelli
Loro Sedi
Oggetto: Segnalazioni sulla Fiction Il Capitano Maria, in onda su RAIUNO

Gentilissime e Gentilissimi,
vi scriviamo per segnalare e porre alla vostra attenzione e riflessione, ciascuno per le proprie competenze e il proprio ruolo, la fiction Il Capitano Maria.

Già a partire dal titolo, che non declina al femminile il grado militare e adopera il semplice nome di battesimo per designare la protagonista (al pari del Commissario Rex, la nota fiction su un cane pastore), si evidenzia un primo elemento di discriminazione e di mancanza di attenzione a un pari trattamento, che parte dal linguaggio adoperato.

Nel corso del primo episodio possiamo evidenziare alcuni messaggi che un servizio pubblico dovrebbe evitare di proporre e di divulgare.
1. Iniziamo dal fatto che la Capitana adopera il cognome del marito, quando secondo l’ordinamento italiano tale cognome si può posporre al proprio da nubile, che non scompare e non è sostituito da quello del coniuge. L’errore della fiction è sintomo del retaggio di una mentalità patriarcale, in cui si passava da un cognome all’altro, che ignora la Riforma del diritto di famiglia del 1975.
2. Un bambino, liberato dalla cintura di esplosivo, è affidato a una carabiniera, dopo aver scartato l’omologo con laurea in psicologia, in virtù della sua storia personale di figlia maggiore all’interno di una “famiglia numerosa”. Per la serie, mai rompere gli schemi e i ruoli stereotipati in cui sono ingabbiate le donne anche nella rappresentazione mediatica che ne fa il servizio pubblico.
3. Nell’ora di religione nella classe della figlia della Capitana, all’interno di un dibattito che sembra suggerire che i musulmani sarebbero terroristi, si ascolta una sua frase che veicola il sempiterno binomio amore e violenza: “Se io amo un ragazzo, lui mi tradisce o anche solo mi manca di rispetto, io lo ammazzo. L’amore è violenza, altrimenti che amore è?”. Luce Guerra fa un’affermazione pesante come un macigno e nessuno interviene a stigmatizzarla o ad evidenziarne la pericolosità e le conseguenze che recano con sé, neppure l’insegnante.
4. Verso la fine si assiste alla scena del preside che cerca di conquistarsi un posto prioritario nel piano di evacuazione della scuola. Una sorta di novello Schettino, che getta discredito su un’intera categoria.

Uno scenario di luoghi comuni, composto per non scomodare troppo le menti del pubblico televisivo, che si devono crogiolare nei consueti stereotipi, schemi, pregiudizi e aspettative sempre uguali. Perché cambiare linguaggio, messaggio, ruoli, comportamenti, scardinare mentalità secolari? Meglio proporre un prodotto televisivo neutro, finanche innocuo? A nostro parere l’effetto è contrario perché innocuo non lo è assolutamente, visto che di messaggi nocivi, errati e fuorvianti ne lancia parecchi.

Eppure, a leggere le Linee guida editoriali per la produzione della fiction Rai, lo spirito dell’Azienda appare assai diverso: “Un’offerta che dovrà sempre essere improntata al rispetto della dignità della persona ed alla non discriminazione e che dovrà contribuire al superamento degli stereotipi culturali attraverso una rappresentazione veritiera della società civile, orientata al recupero di identità valoriali e rispettosa delle diverse sensibilità”.

Lo scorso 8 marzo è stato siglato il nuovo contratto che regolamenta il servizio pubblico radiotelevisivo e digitale per i prossimi 5 anni, affidato alla Rai in base ad una convenzione rinnovata nel 2017 per 10 anni. Nella prima parte “Principi generali” sono stati inseriti specifici impegni in tema di rispetto delle diversità di genere (Art. 2, comma 1 lettera b)…avere cura di raggiungere le diverse componenti della società, prestando attenzione alla sua articolata composizione in termini di genere (Art. 2, comma 3 lettera g)… assicurare il superamento degli “stereotipi di genere, al fine di promuovere la parità e di rispettare l’immagine e la dignità della donna anche secondo il principio di non discriminazione” (Art. 8, comma 2 lettera c) …promuove modelli di riferimento, femminili e maschili, paritari e non stereotipati, mediante contenuti che educhino al rispetto della diversità di genere e al contrasto della violenza” (Art. 9, comma 1) “La Rai assicura nell’ambito dell’offerta complessiva, diffusa su qualsiasi piattaforma e con qualunque sistema di trasmissione, la più completa e plurale rappresentazione dei ruoli che le donne svolgono nella società, nonché la realizzazione di contenuti volti alla prevenzione e al contrasto della violenza in qualsiasi forma nei confronti delle donne” (Art. 9, comma 2 lettera a) ….promuovere la formazione tra i propri dipendenti, operatori e collaboratori esterni, affinché in tutte le trasmissioni siano utilizzati un linguaggio e delle immagini rispettosi, non discriminatori e non stereotipati nei confronti delle donne”(Art. 8, comma 2 lettera d) … si caratterizzi per una cura prioritaria per il linguaggio, con riferimento a un uso appropriato della lingua italiana.

Ci sembra che, rispetto al suddetto Contratto di servizio, numerosi punti della fiction in questione, già nella prima puntata siano stati disattesi e che gli scopi si siano persi per strada. Non sappiamo se sia un problema di scelta degli autori o dei prodotti, ma qualcuno in RAI dovrebbe verificare preventivamente cosa sia mandato in onda, qualcuno in RAI dovrebbe interrogarsi se i programmi siano o meno in linea con i principi e gli impegni presi. 

Far crescere i cittadini e le cittadine è un compito importante ma delicato, motivo per il quale ci attendiamo che in seguito a questa nostra segnalazione la RAI, in quanto servizio pubblico, dia attuazione ai citati impegni assunti e adotti in merito strumenti e procedure di verifica prima della messa in onda.
Rimaniamo in attesa di un cortese riscontro e inviamo i nostri saluti.

14 maggio 2018

Gruppo d’ascolto RAI
Rosanna Oliva de Conciliis, Presidente della Rete per la Parità
Donatella Martini, Presidente DonneInQuota
Maddalena Robustelli, SNOQ-Vallo di Diano
Simona Sforza, blogger
Serenella Molendini, Consigliera nazionale di Parità supplente
Mariella Crisafulli, Consigliera di Parità Provincia di Messina
Annamaria Barbato Ricci, comunicatrice, scrittrice, giornalista e avvocata
Carla Cantatore, UDI Monteverde
Donatella Caione, editrice di libri per l’infanzia
Alba Coppola, docente
Ester Rizzo, scrittrice
Concetta Callea, docente
Angela Nava Mambretti, Presidente CNU
Annamaria Isastia, storica – Soroptimist
Marilisa D’Amico, Università degli Studi di Milano
Roberta Schiralli, avvocata
Patrizia Tomio, Pres. Conferenza Naz. C.P.O. delle Università italiane
Giuliana Giusti, linguista Università Cà Foscari Venezia
Suny Vecchi, Snoq-Ancona Comitato 13 febbraio
Fabrizia Boiardi, DonneInQuota
Maria Pia Ercolini, Presidente Ass. Toponomastica Femminile
Giusy Agueli, Presidente Ass. Palma Vitae
Elisa Giomi, Università Roma Tre
Donne in Rete Foggia
Mariolina Di Salvo, Consigliera Ordine Professionale Assistenti Sociali-Sicilia
Marcella Mariani, giornalista-Il Paese delle Donne
Pina Arena,FINISM Catania
Grazia Mazze’, sindacalista
Vera Parisi, docente
Francesca Riggi, fotografa
Clelia Lombardo, scrittrice
Roberta Schenal, docente
Daniela Pasquali
Maria Angela Bonas Brizzi
Vincenza Amato
Nadia Boaretto
Carla Rizzi
Titta Vadalà
Giovanna Lauricella
Paola Testa
Giovanna Tomassini

La raccolta delle firme è ancora aperta

Contatti: 3356161043
info@donneinquota.org – segreteria.reteperlaparita@gmail.com

 

Lettera aperta pubblicata anche su Noi Donne

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Quanto valore diamo al lavoro invisibile delle donne?

Renato Guttuso – Le due cucitrici


Leggendo questo articolo apparso sul Guardian ho riflettuto sui tanti stereotipi e alibi che tuttora insistono quando si parla di lavoro delle donne.

Si parte dal dogma secondo cui: “il divario retributivo di genere non ha nulla a che fare con la discriminazione nelle decisioni di assunzione o di promozione“. Per la serie, il problema non sussiste, viviamo in una società egualitaria, in cui sono sufficienti il merito, le competenze e gli skills.

Poi ci sono le donne che dal loro privilegio e dalla loro totale “adorazione di un capitalismo libero”, sostengono che in reltà sono le donne a scegliere di lavorare per meno, garantendosi uno spazio in ogni occasione “nell’interesse dell’equilibrio”.
Certo, la solita favola della libera scelta, quando davanti non hai grandi alternative e quando c’è un compromesso a cui sottostare che ti schiaccia quanto un macigno.

“Ma il divario retributivo non è la scelta delle donne. È sia una causa che una conseguenza della disuguaglianza di genere. Per molti aspetti è più importante della discriminazione retributiva perché mette in luce le profonde disuguaglianze strutturali in ogni parte della nostra società e dell’economia.” rileva giustamente Sandi Toksvig.

La situazione in Uk non è difforme da quanto accade in Italia: la crisi ha di fatto tagliato la spesa in infrastrutture sociali, viste come ambiti sacrificabili. “Secondo Save the Children, 870.000 madri tornerebbero sul posto di lavoro se potessero permettersi un’assistenza all’infanzia – riducendo i sussidi di disoccupazione e aumentando la base imponibile.”

Si investe in ambiti “maschili”, in infrastrutture fisiche, perché si pensa che facciano da traino all’economia. Non si capisce che un investimento nell’assistenza all’infanzia e sociale può portare molti benefici: si fatica a comprendere che “la crisi globale della disuguaglianza è una crisi di disuguaglianza di genere.”

“Le nostre vite sono ancora rigidamente divise in economiche e sociali, produttive e riproduttive, retribuite e non retribuite. La metà ha sempre più valore dell’altra. Il risultato è che la redistribuzione della ricchezza in questo paese, e globalmente, troppo spesso avviene dalle donne più povere agli uomini più ricchi.”

Sembra che non si voglia accettare l’idea che una maggiore uguaglianza delle donne corrisponda a un beneficio diffuso.

 

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Guardarsi attorno può servire. Buone pratiche a contrasto della violenza di genere.


Guardarsi attorno può servire per comprendere quali margini di miglioramento possiamo implementare anche nel nostro Paese. Mi è capitata sotto mano questa analisi sulle pratiche messe in atto dalla Svezia in materia di violenza di genere. Il documento, datato aprile 2018, è a cura del Policy Department on Citizens’ Rights and Constitutional Affairs, su richiesta dalla Commissione del Parlamento UE per i diritti della donna e l’uguaglianza di genere (FEMM).


 

Il Consiglio svedese per la prevenzione della criminalità ha presentato una nuova relazione il 27 marzo 2018, che evidenzia le tendenze fino al 2015 (non include i dati del 2016, che sono ancora preliminari).

Nel corso della loro vita, il 25% delle donne è stato vittima di un crimine all’interno di una relazione, nel circa il 24% dei casi si è trattato di violenza psicologica e nel 15% di violenza fisica. Il Consiglio ha affermato che vi è una violazione dell’integrità di una donna che riguarda la violenza contro le donne che subiscono ripetute violenze all’interno di relazioni strette. Nel 2015, sono stati segnalati 1.844 casi, ma è stato evidenziato che molti reati sfuggono alle stime per mancanza di denuncia. Secondo il National Crime Survey 2015 solo il 26% dei reati è stato effettivamente denunciato, con un indice più alto per le aggressioni (64%) e più basso per reati sessuali (8%).

Quindi cosa prevede la Svezia per affrontare il fenomeno?

Qui di seguito il quadro legislativo in Svezia per combattere la violenza contro le donne.

In Svezia, la violenza contro le donne è regolata principalmente in diversi capitoli del codice penale. Il codice penale si applica, in particolare, a quanto segue:

  • violenza domestica,
  • violenza sessuale (compreso lo stupro, violenza sessuale, molestie o stalking),
  • tratta di esseri umani,
  • cyber-violenza e molestie con l’uso di nuove tecnologie,
  • pratiche lesive (come i matrimoni forzati).

Non esiste una legislazione speciale, tutti i reati sono contemplati nel Codice penale. Fa eccezione la legge speciale sulle mutilazioni genitali femminili, un reato punibile anche se l’atto è stato commesso in un paese in cui non è illegale. Esiste anche una legge ad hoc sulle molestie e lo stalking.

Quale strategia viene messa in atto per prevenire e combattere la violenza degli uomini contro le donne?

La traversale ottica di genere che attraversa tutta l’attività politica e di governo, porta a considerare il contrasto della violenza contro le donne come una priorità. La strategia nazionale per prevenire e combattere la violenza degli uomini contro le donne è entrata in vigore il 1 gennaio 2017, con una copertura di 10 anni. Ha quattro obiettivi:

  • incrementare l’efficacia di un lavoro di prevenzione per combattere la violenza;
  • migliorare la capacità di individuazione della violenza e una maggiore protezione e sostegno a donne e bambini vittime di violenza;
  • più efficace lotta al crimine;
  • migliorare la conoscenza del fenomeno e dello sviluppo metodologico. La strategia ha una vasta portata e tiene conto di diversi aspetti della violenza contro le donne (anche in relazioni omosessuali, donne trans, migranti e musulmane, ma anche su un’idea di mascolinità nociva e distruttiva). La partecipazione degli uomini è considerata essenziale per questa strategia di prevenzione. Oltre al coinvolgimeno coordinato di tutti gli attori interessati, il governo ha affrontato riforme in aree chiave: eliminazione di norme che giustificano la violenza, l’acquisto di servizi sessuali e altre restrizioni alla libertà di azione e alle scelte di vita di donne e ragazze.

Per poter realizzare questo piano d’azione, il governo svedese ha stanziato 600 milioni di corone svedesi, volte a finanziare nuove misure per il periodo 2017-2020, oltre ai 300 milioni di corone svedesi destinati a comuni e consigli provinciali.

Attualmente, in Svezia sono disponibili tre tipi di organizzazioni a sostegno delle donne vittime di abusi:

  1. rifugi per le donne e centri di supporto per giovani donne,
  2. gruppi di sostegno alle vittime di reati
  3. centri di crisi municipali.

Storicamente, le organizzazioni costituite su base volontaria hanno assunto la principale responsabilità di proteggere le donne. Queste organizzazioni hanno alcuni dipendenti ufficiali, ma si affidano principalmente ai volontari, sono supportate da sovvenzioni governative / rimborsi municipali.

I rifugi sono offerti dalla National Organization for Women’s Shelters and Young Women’s Shelters (Roks) e dalla Swedish Association of Women’s Shelters e Young Women’s Empowerment Centres (SKR). La missione di entrambe le organizzazioni è duplice, pur proteggendo direttamente le donne che soffrono di violenza domestica, hanno anche una posizione in politica, tentando di influire le politiche pubbliche.

La Crime Victim Support Association (BOJ) si concentra esclusivamente sul supporto individuale e non si rivolge solo alle donne, e ha circa 100 gruppi di supporto locali.

In seguito a molteplici emendamenti alla legge sui servizi, c’è stato un crescente coinvolgimento con i servizi municipali. Una sorta di responsabilizzazione condivisa ed allargata, con un approccio allargato, che abbraccia molteplici ambiti e mette in campo una strategia strutturata e interconnessa.

 

Sempre a livello di UE, il parlamento non smette di sollecitare i Paesi membri.

Lo scorso 19 aprile il parlamento europeo ha approvato una risoluzione che invita la Commissione a “includere la protezione di tutti i cittadini, in particolare di quelli che si trovano nelle situazioni più vulnerabili, nell’Agenda europea sulla sicurezza, con particolare riguardo per le vittime di reati, quali la tratta di esseri umani o la violenza di genere, comprese le vittime del terrorismo, che necessitano di particolare attenzione, sostegno e riconoscimento sociale.”

Si invita:

“a mettere a punto campagne volte a incoraggiare le donne a denunciare qualsiasi forma di violenza sulla base del genere, in modo da proteggerle e poter migliorare l’accuratezza dei dati sulla violenza fondata sul genere;”

“a presentare un atto legislativo per sostenere gli Stati membri nella prevenzione e nella soppressione di tutte le forme di violenza nei confronti delle donne e delle ragazze e di violenza di genere;”

Altresì si invita il Consiglio ad “attivare la “clausola passerella” mediante l’adozione di una decisione unanime che configuri la violenza contro le donne e le ragazze (e altre forme di violenza di genere) come reato, ai sensi dell’articolo 83, paragrafo 1, TFUE;”

Si auspica che dopo la firma, il 13 giugno 2017, di adesione dell’UE alla Convenzione di Istanbul, la Commissione (in linea con la sua risoluzione del 12 settembre 2017 sull’adesione dell’UE alla convenzione di Istanbul), designi “un coordinatore dell’UE sulla violenza nei confronti delle donne che sia responsabile del coordinamento, dell’attuazione, del monitoraggio e della valutazione delle politiche, degli strumenti e delle misure dell’Unione per prevenire e combattere tutte le forme di violenza nei confronti delle donne e delle ragazze e per fungere da rappresentante dell’UE presso il Comitato delle parti della convenzione;”

Gli Stati membri sono invitati “a garantire formazione, procedure e orientamenti adeguati a tutti i professionisti che si occupano delle vittime di tutti gli atti di violenza che rientrano nel campo di applicazione della convenzione di Istanbul, al fine di evitare discriminazioni o una seconda vittimizzazione durante i procedimenti giudiziari, medici e di polizia.”

Un interessante incontro all’interno delle Giornate Romane per le P.O.


Sul miglioramento in termini di “preparazione” c’è molto da lavorare anche in Italia (ben venga il recente varo delle linee guida per i P.S.). Sappiamo quanto la situazione nostrana non sia molto rosea, conosciamo quanto siano ancora presenti pratiche volte a colpevolizzare le sopravvissute e a minimizzare la violenza, insinuando una corresponsabilità delle donne. Tutto questo deve finire.

A più di un anno dalla sentenza di condanna dell’Italia da parte del CEDU, il CSM ha iniziato a lavorare su una sorta di vademecum dedicato ai giudici e alla polizia giudiziaria e secondo cui chiunque è chiamato a trattare i reati contro le donne deve avere una comprovata esperienza nell’ambito. Sempre secondo le nuove regole tutte le procure e i tribunali d’Italia sono chiamati a implementare una sezione specializzata in reati di violenza domestica, di genere e ai femminicidi, al fine di velocizzare i processi e per gestire queste tipologie di reati come a “trattazione prioritaria”, sia in fase di indagine che di dibattimento, per avere una protezione efficace delle vittime. Un’altra importante novità in tema di violenza è data dal fatto che le vittime non dovranno più testimoniare in presenza del proprio aggressore, al fine di preservare la loro integrità psicofisica.

Un adempimento che tra l’altro andrebbe ad attuare una raccomandazione già presente nella Convenzione Cedaw: “Gli Stati Parti assicurino che le leggi contro la violenza e gli abusi familiari, lo stupro, la violenza sessuale e le altre forme di violenze di genere diano adeguata protezione a tutte le donne e rispettino la loro integrità e dignità. Dovrebbero essere forniti alle vittime appropriati servizi di protezione e di sostegno. Una formazione attenta alle specificità di genere rivolta ai funzionari giudiziari, agli agenti delle forze di polizia e ad altri funzionari pubblici è essenziale per l’efficace attuazione della Convenzione”.

Ma credo che il punto centrale su cui lavorare parta da questo assunto:

“Perché le donne esercitino pienamente i loro diritti, in quanto donne, occorre infatti che le bambine che sono state abbiano imparato quali sono i loro diritti in quanto bambine, e a tutelarli e rivendicarli (Bosisio, Leonini, Ronfani 2003)”

L’ho ripreso dal documento dettagliato del We World Index 2018 presentato il 18 aprile a Roma.

 

Fonte: We World Index 2018


Mi sembra fondamentale per comprendere da dove occorre iniziare a investire tempo ed energie. Non possiamo certamente immaginare un cambiamento significativo senza lavorare sulle generazioni future di donne, includendole in un percorso di autoconsapevolezza e valorizzazione di sé, a 360°.

Senza prevenzione, declinata in informazione, formazione e sensibilizzazione, non potremo rompere e sgretolare i modelli stereotipati culturali che sono alla base di una discriminazione e subordinazione delle donne.

Dobbiamo renderci parte attiva di questo cambiamento, di questo immenso lavoro di diffusione di consapevolezza. Ne abbiamo di strada da fare, tanto da non poterci permettere di disperdere energie.

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