Nuvolette di pensieri

Mormora l'acqua del ruscello

Il clima d’odio sessista che corre spedito sulla rete – Boicottiamo Facebook!

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Il problema lo conosciamo, sono anni che assistiamo al proliferare di pagine e gruppi misogini e violenti. Vogliamo unire le forze e costruire una protesta contro tutto questo? Non possono esistere luoghi reali o virtuali in cui si tolleri la violenza contro le donne. I social media devono decidere da che parte stare. Ci date una mano?

Donne come oggetti, bersagli di una valanga gratuita di violenza verbale, un hate speech che fa parte di un fenomeno in crescita costante come il cyberbullismo a sfondo sessuale. Che i social amplifichino le abitudini machiste ostili e violente contro le donne è chiaro a tutti. Tutti ricordiamo le tragiche vicende di donne come Tiziana Cantone o di adolescenti come Carolina Picchio. Tutti sappiamo come siano diventate vittime del tritacarne del web e si siano tolte la vita in seguito a video messi in rete. Conosciamo il fenomeno del revenge porn. I gruppi in cui si agisce lo stupro virtuale sono un tassello di questo ampio fenomeno d’odio contro le donne.
Sembra che nulla si possa fare, ma qualcosa deve essere fatta, perché non possiamo più tollerare che le nostre vite siano alla mercé di questo gioco spregevole, che il diritto a essere rispettate sempre venga continuamente schiacciato e leso.
Non siamo disposte a sopportare ulteriori sottovalutazioni da parte delle Autorità e di chi potrebbe intervenire affinché nessuna donna sia più vittima e oggetto di sfogo degli istinti e delle abitudini più turpi di uomini connotati evidentemente da una concezione della virilità alquanto deviata e sbagliata. Cresciuti a porno e violenza, visto che per i ragazzi la pornografia è una consuetudine socialmente accettata, un modo per costruire la virilità del maschio dominante.
Alcune femministe, come Catharine MacKinnon e Andrea Dworkin, hanno individuato come nella pornografia una “rappresentazione ossessiva di donne disponibili, oggettivate, vulnerabili” concorra al “mantenimento della subordinazione femminile”. La rappresentazione della donna nel porno è nella maggior parte dei casi basata su una figura di donna deumanizzata, asservita, oggettivata, mercificata, subordinata e strumentale all’uomo. Numerose indagini scientifiche hanno rilevato come il consumo pornografico produca degli effetti negativi nelle relazioni uomo-donna, porti ad avere delle aspettative distorte del rapporto con le donne reali, ad avere relazioni sessuali senza alcun coinvolgimento emotivo, a considerare le donne come oggetti e ad alimentare i pregiudizi di genere.
Ci sono numerosi studi empirici che hanno dimostrato un legame tra consumo di pornografia e violenza.
In Italia, ad esempio, Lucia Beltramini, Daniela Paci e Patrizia Romito hanno condotto una ricerca per analizzare i rapporti tra i sessi, le esperienze di violenza e la sua percezione in un campione di ragazzi e ragazze, studenti dell’ultimo anno di diverse scuole del Friuli Venezia Giulia. I risultati mostrano che le percentuali di adolescenti che consumano materiale pornografico sono elevate, con il rischio che in futuro la violenza sessuale aumenti. La normalizzazione di queste abitudini, che entrano nel quotidiano sin dalla prima adolescenza, consolida un’idea di virilità fondata sul sopruso, l’abuso, il dominio. Non c’è spazio per altro. Ed è alla radice che occorre colpire, a livello culturale che bisogna sanare questo abisso.

Quando però i comportamenti maschili più abietti trovano espressione verbale su Facebook ed altri social si può e si deve intervenire in tempi celeri, creando programmi che vadano a scandagliare in automatico contenuti, parole chiave e che facciano pulizia di certi gruppi chiusi in cui si praticano violenza e stupri virtuali. Bastano semplici accorgimenti tecnici per intervenire. Basta voler cambiare atteggiamento di fronte a un clima nocivo per le donne, ma in maniera similare anche per chi subisce attacchi razzisti o omofobi. Indubbiamente siamo noi donne a essere il primo bersaglio, come emerge dall’indagine di Vox Diritti e questo accade quotidianamente. Non è solo un fenomeno sporadico, né recente, ma che va avanti da anni ed è in costante ascesa, un’ondata d’odio che arriva come la lava incandescente e intrappola le vite delle donne.

Chi gestisce i social può intervenire, deve farlo se ci tiene a rendere quei luoghi virtuali “woman friendly”, a misura di donna, all’insegna del rispetto. Non ci può essere spazio per la violenza, questo deve essere chiaro a tutt*. Siamo tutt* responsabili. Alimentare o assolvere questo clima d’odio contro le donne è complicità alla violenza.
Non basteranno le segnalazioni degli utenti a fermare l’ondata di violenza, se non cambierà l’atteggiamento di chi gestisce i social. Non ci si può nascondere dietro la libertà di espressione. Le donne sono esseri umani al 100% e i loro diritti vanno salvaguardati prima di ogni cosa.
Se l’articolo 167 del codice della privacy, che prevede la reclusione da uno a sei mesi per chi pubblica foto senza consenso, non scoraggia queste pratiche e non ferma l’orrore, forse occorre fare pressione dal basso. Continuare semplicemente a segnalare non cambierà sostanzialmente la situazione: da anni lo facciamo, ci lamentiamo, denunciamo, ma Facebook non muta la sua policy che in sostanza gira la testa dall’altra parte di fronte a questo tipo di situazioni.
Come sosteneva a novembre 2016 il Ministro Orlando, occorre che i gestori dei social media, che veicolano queste informazioni, intervengano direttamente, affrontino e rimuovano certi contenuti.
Laura Boldrini si è già mossa su questo fronte: “Ai vertici di Facebook incontrati il mese scorso, ha fatto tre proposte concrete: mettere un’icona «attenzione odio», che possa essere usata dagli utenti quando riscontrano messaggi di hate speech; una linea telefonica dedicata; un personale ad hoc con sedi nei vari Paesi. «Mi hanno assicurato — racconta — risposte entro fine gennaio»”.
Ma forse occorre fare di più. Perché Facebook dalle interazioni tra utenti, da tutte le nostre azioni trae profitto e non ha intenzione di perderlo. Per fargli cambiare rotta e tutelare adeguatamente le donne deve subire un danno economico, quello che potremmo generare non usando il mezzo per una giornata (o più, con un calendario settimanale di sciopero, insomma trovando una modalità adeguata di protesta che sia tangibile e chiara), per esempio, chiedendo il cambio di policy e una legge che sanzioni i social ogni volta che viene creato un gruppo misogino o non viene rimosso un contenuto lesivo dei diritti delle donne. Ma deve essere qualcosa di condiviso, una protesta di massa, altrimenti resterà tutto così com’è.
Di un luogo infestato da attacchi misogini e dove la violenza è tutto sommato tollerata non ne dovremmo sentire il bisogno, dovremmo far di tutto per pretendere un cambiamento significativo da parte degli amministratori e dei gestori dei social affinché regolino in modo adeguato e stringente i loro ambienti. Se non agiamo in qualche modo per sollecitare tutto questo sarà una nostra colpevole omissione.
Non possono esistere luoghi reali o virtuali in cui si tolleri la violenza contro le donne.

2 commenti »

Senza rispetto. La violenza contro le donne nel tritacarne mediatico.

@Anna Godeassi

@Anna Godeassi

Certe cose ti paralizzano. Si è superato il limite, di tanto. Il limite del rispetto. Un burrone senza fondo. Un impasto nocivo dato in pasto senza porsi domande sulla sua opportunità. Un danno enorme questo genere di tv.

Sentire ripetere più volte “sei bella”, “un’altra ragazza bella come te”, come se la violenza colpisse solo le donne belle, come se il problema fosse la bellezza. “Un uomo ha attentato alla bellezza.”

E poi giù la pioggia battente con le stesse parole, un uomo può arrivare a questo genere di azioni per “troppo amore”. Una vita, una violenza, una giovane donna sola, in balia dei media, senza che nessuno le crei un sostegno, che la porti a prendere consapevolezza che quello non è amore, che una relazione in cui entra la violenza non è una relazione sana, normale. L’amore non c’entra nulla. Le luci, le telecamere hanno violato quello che era un momento delicato, il momento che Ylenia avrebbe dovuto dedicare a se stessa, per ritrovarsi. Con l’aiuto di qualcuno che non le permettesse di lasciarsi mangiare dai media, non curanti di lei e del suo passato, non curanti del fatto che fosse prioritario aiutare lei, per il suo futuro, perché questa è la priorità, affinché lei possa costruire un futuro diverso da quanto sinora vissuto, con nuovi punti di riferimento, dovrà riempire di nuovi significati le parole,  le emozioni, per i sentimenti, per le relazioni.

 

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Mi hanno detto che è iniziato un nuovo anno

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Leggo qui che:

“secondo gli ultimi dati diffusi dalla polizia in occasione della giornata contro la violenza sulle donne i femminicidi stanno – anche se di pochissimo – diminuendo. Nel nostro Paese muore una donna ogni tre giorni: speriamo di non leggere anche nel 2017 queste cifre, queste tragedie. Qui la speranza non deve abbandonarci: se le donne vengono ammazzate nel 93% dei casi da uomini vuol dire che la disparità di potere è fortissima. Solo con il lavoro, con il guadagno, le donne possono e devono rendersi autonome e mettersi in salvo dalla furia omicida di compagni ed ex mariti.”

Io non condivido l’abitudine di continuare a misurare il fenomeno della violenza maschile sul numero di femminicidi, come se le oltre 120 donne che hanno perso la vita nel 2016 fossero una cosa normale e la flessione del numero ci desse la misura di un fenomeno in via di risoluzione. Così non è, a questo punto dovremmo andare più a fondo, scavando dentro tutta la violenza che non emerge o emerge grazie al lavoro dei centri antiviolenza e delle reti territoriali. Il femminicidio va prevenuto e contrastato, non dobbiamo fermarci ai numeri in calo, “non una di meno” è la frase che dobbiamo ripetere, l’obiettivo da perseguire, perché vogliamo essere tutte vive e libere dalla violenza. Il femminicidio è la punta dell’iceberg di un fenomeno diffusissimo e molto grave che blocca e soffoca la vita delle donne. Perché noi non accettiamo che nemmeno una donna possa ancora subire violenza o perdere la vita, perché questa violenza è un fatto pubblico, politico, una questione che lacera, avvelena le nostre comunità, devasta il nostro sistema di diritti e tutele, garanzie a vivere libere e autonome. La vita di ciascuna donna è importante, nessuna deve avere diritti affievoliti o meno opportunità di una vita dignitosa e libera.

La nostra autoderminazione è fortemente lesa e messa in discussione dalle tante forme di violenza che siamo costrette a vivere. L’oppressione delle donne è sotto i nostri occhi e contro questo dobbiamo fortemente combattere, senza ricorrere a forme autoconsolatorie. Abbassare la guardia solo perché c’è una flessione è pericolosissimo, così come è pericoloso pensare che un lavoro ci possa rendere immuni o salvare da solo dalla violenza. Certo può aiutarci, ma non è in grado di liberarci. Pensiamo a quante donne che lavorano subiscono violenza economica (e non solo) e non sono libere di autogestire il proprio stipendio. La violenza è trasversale e non risparmia nessuna, per censo, per cultura, per occupazione, per contesto sociale. Non vedere questo significa perdere di vista una porzione consistente del problema.

Lo vediamo dai dati delle donne occupate che si rivolgono alla rete antiviolenza milanese.

L’autonomia materiale non è una garanzia totale, altrimenti non ci sarebbe bisogno di avviare percorsi in grado di sostenere l’autostima delle donne, l’autodeterminazione, la consapevolezza della propria persona e dei propri diritti. Tutto questo in un contesto di violenza è fortemente carente, la donna viene azzerata come essere umano, la ricostruzione dell’identità è fondamentale per risultati duraturi e realmente di fuoriuscita dalla violenza. Ci sono circoli di violenza che portano le donne a non riuscire a riconoscere il proprio valore, ciò che è giusto e normale in un rapporto e ciò che non lo è. Dobbiamo stare a contatto con le donne reali, non con prototipi immaginari, conoscere le loro realtà quotidiane.

Non ci sarà uguaglianza, parità di diritti, pari opportunità, finché non debelleremo le radici culturali della violenza contro le donne, le disparità di potere troppe volte assecondate e alimentate, le varie forme di discriminazioni troppo spesso taciute, minimizzate e normalizzate, le connivenze per briciole di potere maschile, i muri eretti per ostacolare una piena partecipazione delle donne alla vita sociale, economica e culturale di questo Paese.

Non sarà un anno nuovo, ma la prosecuzione senza discontinuità dei secoli precedenti.

Non sarà un anno nuovo finché non promuoveremo con forza e convinzione programmi e progetti di sensibilizzazione contro le numerose forme di violenza che abitano le vite delle donne, finché il rispetto non sarà un valore insegnato, condiviso e diffuso, finché non riterremo inammissibile che vi siano spazi o porzioni di popolazione per cui rispetto e diritti umani fondamentali non valgano.

Non sarà un anno nuovo finché la trasformazione non includerà anche il benessere e la serenità delle donne.

Non vogliamo un po’ di rosa qua e là, buono solo per lavarci le coscienze. Non vogliamo ricordarci delle donne e sentire bilanci solo di circostanza.

Perché il patriarcato, quel substrato violento e velenifero che infesta le nostre esistenze di donne è tutto ancora lì, vivo e vegeto, forte, alla ricerca della prossima donna da sottomettere e su cui usare violenza.

Molti continuano a ripetere “non tutti gli uomini”, è vero, ma questi sono alcuni dei termini di ricerca che vengono tracciati dal mio blog, le frasi adoperate sui motori di ricerca per arrivare sul blog.

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Questo solo il 31 dicembre. A questo si pensa a fine anno e per gli altri 364 giorni.

 

Non sarà un anno nuovo finché non diffonderemo consapevolezza a tutte le donne, informandole sui servizi e sulle possibili soluzioni ai loro problemi.

Non sarà un nuovo anno e nemmeno buono finché non cambieremo le parole, il linguaggio, le visioni, gli approcci, le fondamenta delle relazioni, i comportamenti, a partire dai più semplici atteggiamenti.

Non sarà l’alba di un nuovo anno finché non riusciremo a raccontare la violenza con le parole giuste. Nonostante anni di appelli a un cambiamento del lavoro giornalistico, ci troviamo ripetutamente di fronte a questo tipo di narrazione tossica sul Messaggero:

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Un racconto con accenti inaccettabili, forse diretti a compiacere i tanti uomini che vorrebbero emulare questo gesto atroce. Un atto che poteva segnare la fine della vita di questa donna, viene descritto come se fosse un’abitudine tutto sommato “simpatica” e consolidata, perché si sa è “tradizione” considerare le donne degli oggetti, da buttare via all’occorrenza quando si decide di liberarsene. In memoria permane ancora l’attacco originale dell’articolo (poi cancellato) che richiama la tradizione. Troviamo il consueto richiamo al momento d’ira, il solito raptus di questo uomo che voleva liberarsi della moglie, il suo “guaio”. Parole, stile, ricostruzione tutto fuori luogo e ci chiediamo a cosa risponda questa giovane giornalista. Proprio non sappiamo fare di meglio, imparare a comunicare in modo differente? Un sintomo di come tanti giornalisti e giornaliste vivono nel proprio mondo, insonorizzato evidentemente, se non vengono raggiunti dai tanti appelli (Giulia giornaliste) e decaloghi dell’Ifj per l’informazione sulla violenza contro le donne a un cambiamento dei media, se non capiscono che comunicare in questo modo significa replicare all’infinito stereotipi e modelli negativi, assecondare comportamenti e mentalità altamente pericolose.

Forse per vendere o ottenere qualche click, ci piace pensare che tutto sommato non causeranno poi tanti danni? I danni sono evidenti, basti considerare la percezione della violenza che emerge da questa indagine europea.

Questo il quadro in cui ci muoviamo, quindi abbiamo ancora molta strada da fare per diffondere consapevolezza e lavorare sulla cultura e sul linguaggio.

Abbiamo anche un altro fronte su cui lavorare: ci sono tante realtà e reti a sostegno delle donne, ma spesso si fa fatica a farle conoscere.

Per questo condivido queste informazioni* riguardanti la rete antiviolenza milanese, attiva già dal 2006. Vi consiglio di leggere con attenzione questi documenti, utili a diffondere una panoramica del lavoro svolto in questi anni sul territorio, un percorso che ha bisogno di essere condiviso, conosciuto, da continuare a costruire, migliorare insieme, magari allargando la rete ad altri soggetti che possano arricchire con un sentire “femminista”. Più se ne parla, più si aprono le collaborazioni e le interazioni, migliori risultati si ottengono. Soprattutto occorre individuare chi è realmente idoneo e in grado di occuparsi di violenza.

Le risorse:

 

Mi auguro che si adottino strumenti di divulgazione e di informazione più accessibili alle donne tutte. Torno a ribadire che strumenti come Disamorex potrebbero fornire utili “ganci” di riflessione e di diffusione di consapevolezza, soprattutto tra le più giovani e perché no, se tradotto in più lingue, anche tra le donne migranti.

Per questo occorre avere degli spazi in periferia dedicati alle donne, il più possibile autonomi e autogestiti, per rendere questo passa parola ancora più efficace. Qui una raccolta di “desideri” e bisogni delle donne del mio municipio, frutto di uno degli incontri che stiamo promuovendo. C’è un gran bisogno di incontrarsi e condividere. Restiamo in ascolto reciproco. Questa è l’unica vera regola essenziale. Non restiamo sole, siamo in tante. La nostra resistenza collettiva a chi ci vuole controllare e sottomettere.

E che rivoluzione femminista sia! Non c’è altra via.

ride

 

 

*p.s. ringrazio la consigliera comunale Diana De Marchi, presidente commissione Pari Opportunità, per i dati sulla rete antiviolenza milanese.

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