Nel suo racconto, ci sono passaggi, esperienze che ogni donna, anche se in contesti diversi, in situazioni diverse, con modalità diverse, si è trovata a vivere. In ogni aspetto della vita ci scontriamo con qualche episodio di discriminazione per il nostro essere semplicemente delle donne. Quando c’è da scegliere, nella maggior parte dei casi si tratterà di un uomo. L’esperienza e l’affidabilità sembrano essere due qualità e caratteristiche intrinseche del maschio, mentre le donne devono dimostrarlo. È in questa parola “dimostrazione” che si racchiude il senso di tutto. Dimostrare di essere adeguata in ogni circostanza, in ogni ruolo e in ogni contesto. Dimostrare di essere adeguata significa, in gergo maschile, essere docile, mansueta, ragionevole e seguire i “consigli” degli uomini, non essere troppo dura, sempre un passo indietro all’uomo. Se non sei allineabile vuol dire che non sei adatta. Ti chiedono di piegarti e di restare sottomessa. La nostra ricerca di un’approvazione e di un’accettazione a volte assume aspetti paradossali, come il caso della donna nubile, narrato da Chimamanda, che quando va a una conferenza si mette un finto anello nuziale al dito per ottenere rispetto dai colleghi. Subiamo questo tipo di condizionamenti ogni giorno, conviviamo immerse in una violenza psicologica profonda e innegabile. Soggette a una infinità di regole di condotta e di ruoli che ci ingabbiano. Il più delle volte ci capita di sentirci come le pedine di una Dama, spostate qua e là da una volontà aliena, che decide per noi, pronta a usarci e a sostituirci all’occorrenza. Mi direte che capita anche agli uomini, ma per le donne assume dimensioni e caratteristiche totalmente peculiari. Questo accade perché spesso non è contemplato che una donna possa avere un punto di vista differente, utile e originale e nel caso dovesse averlo è sempre meglio schiacciarlo, inglobarlo e neutralizzarlo. Non si sa mai. Così, ti accorgi che ciò che dici ha sempre un valore minore. Non vi è mai capitato di notare le reazioni dopo aver affermato qualcosa, che dopo due minuti viene ripetuta da un uomo? L’effetto di solito è che lui ha ragione (con applausi anche da parte delle donne), ha detto una cosa saggia, mentre la medesima cosa detta da te non ha sortito lo stesso effetto. Mi direte che conta il modo in cui dici una cosa. Vi assicuro che non è sempre così. Mi è stato anche detto che il fatto che io sia una donna mi fa “naturalmente partire svantaggiata”, meglio che per me parli un uomo.. sai com’è, invece di pretendere rispetto, in qualsiasi contesto, cercare di cambiare qualche insana abitudine misogina, meglio non insistere e affidarsi alla rappresentanza maschile.
Okoloma era uno dei miei più cari amici d’infanzia. Abitava nella mia stessa strada e si prendeva cura di me come un fratello grande. Se mi piaceva un ragazzo, chiedevo a Okoloma che ne pensava. Okoloma era spiritoso e intelligente e portava gli stivali da cowboy a punta. È morto nel dicembre del 2005 in un incidente aereo nel sud della Nigeria. Faccio ancora fatica a esprimere a parole cosa ho provato allora. Okoloma era qualcuno con cui potevo discutere, ridere, parlare davvero.
È anche la prima persona che mi ha detto che ero femminista.
Avrò avuto quattordici anni. Eravamo a casa sua e discutevamo, sfoderando entrambi le mezze nozioni apprese dalle nostre letture. Non ricordo di cosa stavamo discutendo. Ma ricordo che mentre snocciolavo i miei argomenti, Okoloma mi guardò e disse: “Sei proprio una femminista”.
Non era un complimento. Lo intuii dal tono, lo stesso con cui uno direbbe: “Quindi difendi il terrorismo”.
Non sapevo l’esatto significato della parola femminista. E non volevo che Okoloma sapesse che non lo sapevo. Così ripresi la discussione facendo finta di niente, e ripromettendomi di cercare la parola nel vocabolario non appena fossi tornata a casa.
Ora andiamo avanti di qualche anno.
Nel 2003 ho scritto un romanzo intitolato L’ibisco viola. Parla di un uomo che, tra le altre cose, picchia la moglie, e che non fa una bella fine. Mentre promuovevo il libro in Nigeria, un giornalista – un signore gentile e benintenzionato – mi ha voluto dare un consiglio (come saprete i nigeriani sono sempre pronti a dare consigli non richiesti).
Mi ha detto che secondo molte persone il mio era un romanzo femminista, e il suo consiglio – parlava scuotendo la testa con aria triste – era di non dichiararmi mai femminista, perché le femministe non trovano marito e sono infelici.
Così ho deciso di dichiararmi femminista felice.
Poi una professoressa universitaria nigeriana mi ha detto che il femminismo non faceva parte della nostra cultura, che il femminismo non era africano, e che mi dichiaravo femminista solo perché ero stata influenzata dai libri occidentali (cosa che mi ha fatto sorridere, perché molte delle mie prime letture sono state decisamente poco femministe: credo di aver letto ogni volume della serie di romanzi rosa Mills & Boon prima dei miei sedici anni. E ogni volta che provo a leggere i cosiddetti classici del femminismo, mi annoio e faccio fatica a finirli).
Detto ciò, dato che il femminismo non era africano, ho deciso di dichiararmi una femminista felice africana.
Poi un/a caro/a amico/a mi ha detto che dichiararmi femminista voleva dire che odiavo gli uomini. Così ho deciso di dichiararmi femminista felice africana che non odia gli uomini. A un certo punto ero diventata una femminista felice africana che non odia gli uomini e che ama mettere il rossetto e i tacchi alti per sé e non per gli uomini.
Naturalmente è anche un po’ uno scherzo, ma dimostra che la parola “femminista” si porta dietro un bagaglio negativo notevole: odi gli uomini, odi i reggiseni, odi la cultura africana, pensi che le donne dovrebbero sempre essere ai posti di comando, non ti trucchi, non ti depili, sei sempre arrabbiata, non hai senso dell’umorismo, non usi il deodorante.
Ora ecco un episodio della mia infanzia: quando ero alle elementari a Nsukka, una città universitaria nel sudest della Nigeria, la mia insegnante ci fece fare un compito all’inizio dell’anno, dicendo che la persona con il voto più alto sarebbe diventata capoclasse. Diventare capoclasse era una cosa importante. Il capoclasse scriveva ogni giorno i nomi degli alunni chiassosi, di per sé un esercizio di potere già abbastanza inebriante, e in più la maestra ti dava una canna da tenere in mano mentre pattugliavi la classe. Naturalmente non avevi il diritto di usare la canna. Ma ai miei occhi di novenne era comunque una prospettiva eccitante. Volevo davvero tanto diventare capoclasse. E presi il voto più alto. Poi, con mia grande sorpresa, la maestra disse che il capoclasse doveva essere un maschio. Si era dimenticata di precisarlo. Lo aveva dato per scontato. Il secondo voto più alto lo aveva preso un bambino. E lui diventò il nuovo capoclasse. La cosa interessante è che il bambino in questione era un’anima mite e per nulla attratta dall’idea di pattugliare la classe con una canna in mano. Mentre io non sognavo altro.
Ma io ero una femmina e lui un maschio, e così fu lui a diventare capoclasse.
Non ho mai dimenticato quell’episodio.
Se facciamo continuamente una cosa, diventa normale. Se vediamo continuamente una cosa, diventa normale. Se solo i maschi diventano capoclasse, a un certo punto finiamo per pensare, anche se inconsciamente, che il capoclasse deve per forza essere un maschio. Se continuiamo a vedere solo uomini a capo delle grandi aziende, comincia a sembrarci naturale che solo gli uomini possano guidare le grandi aziende.
Faccio spesso l’errore di credere che se una cosa e ovvia per me, lo sia per chiunque altro. Prendiamo l’esempio del mio caro amico Louis, un uomo brillante e di sinistra. In passato e capitato che mi dicesse: “Non capisco cosa intendi quando sostieni che le donne vivono una realtà diversa e più difficile. Forse era cosi in passato, ma oggi no. Oggi le donne non hanno problemi”.
Non capivo come non capisse quello che a me sembrava cosi evidente.
Amo tornare a casa in Nigeria e trascorrere gran parte del mio tempo a Lagos, il centro urbano e commerciale più grande del paese. A volte, quando la sera l’aria rinfresca e il ritmo della città rallenta, esco in compagnia per andare a mangiare o a bere. Una volta io e Louis siamo usciti con alcuni amici.
C’e una meravigliosa costante a Lagos: dei gruppetti di energici ragazzotti che ciondolano davanti ad alcuni locali e, in modo molto teatrale, ti aiutano a parcheggiare. Lagos e una metropoli di quasi venti milioni di abitanti, con più energia di Londra e più spirito imprenditoriale di New York, cosi le persone escogitano i modi più diversi per guadagnarsi da vivere. Come succede in molte grandi città, parcheggiare la sera può essere un’impresa, e il lavoro di questi ragazzi consiste nel trovarti un posto o, quando il posto c’è, nel guidarti nella manovra gesticolando, e prometterti di tenere d’occhio la macchina fino al tuo ritorno. Quella sera sono stata colpita dalle doti istrioniche dell’uomo che ci aveva trovato il posto e cosi, prima di allontanarmi, ho deciso di dargli una mancia. Ho aperto la borsa, ho infilato la mano per prendere i soldi e li ho dati all’uomo. E lui, quell’uomo grato e felice, ha preso i soldi dalla mia mano, poi si e girato verso Louis e ha detto: “Grazie, signore!”. Louis mi ha guardato, sorpreso, e ha chiesto: “Perché ha ringraziato me? Non sono stato io a dargli la mancia”. Poi ho visto dalla sua espressione che aveva capito. Quell’uomo credeva che se avevo dei soldi dovevano venire da Louis. Perché Louis e un uomo.
Uomini e donne sono diversi. Abbiamo ormoni diversi, organi sessuali diversi e capacita biologiche diverse (le donne possono avere figli, gli uomini no). Gli uomini hanno più testosterone e sono generalmente più forti delle donne. Le donne sono leggermente più numerose degli uomini (il 52 per cento della popolazione mondiale e femminile), ma la maggior parte dei posti di potere e di prestigio e occupata da uomini. Wangari Maathai, attivista keniana e Nobel per la pace morta nel 2011, l’ha sintetizzato perfettamente cosi: più sali e meno donne trovi.
Alle elezioni statunitensi del 2012 si e sentito spesso parlare della legge Lilly Ledbetter. Dietro questo nome pieno di belle allitterazioni c’e il seguente fatto: negli Stati Uniti se un uomo e una donna fanno lo stesso lavoro e hanno le stesse qualifiche, l’uomo sarà pagato di più perché è un uomo.
Quindi gli uomini governano, nel vero senso della parola, il mondo. Questo poteva avere senso mille anni fa, quando gli esseri umani vivevano in un mondo in cui la forza fisica era la qualità più importante per sopravvivere. La persona fisicamente più forte aveva più probabilità di diventare il capo. E gli uomini di solito sono fisicamente più forti (naturalmente esistono molte eccezioni). Oggi viviamo in un mondo profondamente diverso. La persona più qualificata per comandare non è quella più forte. È la più intelligente, la più perspicace, la più creativa, la più innovativa. E non esistono ormoni per queste qualità. Un uomo ha le stesse probabilità di una donna di essere intelligente, innovativo, creativo.
Ci siamo evoluti. Ma le nostre idee sul genere non si sono molto evolute.
Qualche tempo fa sono entrata in uno dei migliori alberghi della Nigeria e una guardia all’ingresso mi ha fermata per farmi delle domande irritanti: come si chiamava la persona che aspettavo? In che stanza stava? Conoscevo questa persona? Potevo dimostrare di essere un’ospite dell’albergo mostrandogli la mia chiave? Tutto questo perché il presupposto automatico è che se una donna nigeriana entra in un albergo da sola, è una lavoratrice del sesso. Una donna nigeriana sola non può assolutamente essere un’ospite che si paga la propria stanza. Se un uomo entra nello stesso albergo, non viene fermato. Si presuppone che sia lì per un motivo legittimo (a proposito, perché questi alberghi non si concentrano sulla domanda di lavoratrici del sesso invece che su quella che può sembrare l’offerta?).
A Lagos ci sono vari locali e bar rispettabili dove non posso andare sola. Se sei una donna sola, non ti fanno entrare e basta. Devi essere accompagnata da un uomo. Ho amici maschi che arrivano davanti a un locale soli e finiscono per entrare a braccetto con una perfetta sconosciuta, perché quella completa sconosciuta, una donna sola, non ha avuto altra scelta che chiedergli aiuto per entrare nel locale.
Ogni volta che entro in un ristorante nigeriano con un uomo, il cameriere mi ignora e saluta l’uomo. I camerieri sono i prodotti di una società che ha insegnato loro che gli uomini sono più importanti delle donne. So che non intendono fare del male, ma un conto è capire una cosa razionalmente, un altro è percepirla attraverso le emozioni. Ogni volta che mi ignorano, mi sento invisibile. Mi sento sconvolta. Vorrei dirgli che sono un essere umano quanto lo è l’uomo, che merito lo stesso riconoscimento. Sono piccole cose, ma a volte sono quelle che fanno più male.
Di recente ho scritto un articolo su cosa vuol dire essere una giovane donna a Lagos. Un conoscente mi ha detto che era un articolo pieno di rabbia, e che non avrei dovuto metterci tanta rabbia. Ma non mi sono affatto pentita. Certo che era pieno di rabbia. Il genere, per come funziona oggi, è una grave ingiustizia. Io sono arrabbiata. Dovremmo tutti essere arrabbiati. La rabbia ha sempre avuto la capacità di provocare cambiamenti positivi. Oltre a provare rabbia ho speranza, perché credo profondamente nella capacità degli esseri umani di migliorare.
Ma torniamo alla rabbia. Ho sentito dal tono della sua voce che il conoscente mi stava mettendo in guardia, e che il suo commento era tanto sull’articolo quanto sul mio carattere. La rabbia, diceva quel tono, non si addice a una donna. Se sei una donna, non ci si aspetta che tu esprima rabbia, perché la rabbia è minacciosa. Ho un’amica, negli Stati Uniti, che ha preso il posto di un dipendente uomo. Il suo predecessore era considerato una persona tosta e ambiziosa. Era un tipo diretto, determinato e particolarmente rigido nella gestione delle presenze dei dipendenti. La mia amica ha preso il suo posto, sapendo di essere altrettanto tosta, ma forse un po’ più flessibile: a volte, mi ha detto, questo dirigente non si rendeva conto che le persone, compresa lei, avevano una famiglia. Qualche settimana dopo l’inizio del nuovo lavoro, la mia amica ha rimproverato un dipendente che aveva falsificato il registro delle presenze, proprio come avrebbe fatto il suo predecessore. A quel punto il dipendente si è rivolto alla direzione lamentandosi del suo modo di fare. Ha detto che era aggressiva e che era difficile lavorare con lei. Altri colleghi gli hanno dato ragione. Uno di loro ha detto che si aspettavano che desse un “tocco femminile” al suo lavoro, ma che non era successo. A nessuno è venuto in mente che stava facendo esattamente la stessa cosa per la quale un uomo era stato apprezzato.
Ho un’altra amica, anche lei statunitense, che ha un lavoro molto ben retribuito nel campo della pubblicità. Nella sua squadra oltre a lei c’è un’altra donna. Un giorno, a una riunione, si è sentita disprezzata dal suo capo, che ha ignorato alcune sue osservazioni per poi fare i complimenti a un uomo che aveva detto quasi la stessa cosa. La mia amica sarebbe voluta intervenire, affrontando il suo capo. Non l’ha fatto. Dopo la riunione è andata in bagno ed è scoppiata a piangere, poi mi ha chiamato per sfogarsi. Non aveva reagito per paura di sembrare aggressiva. Si è tenuta dentro il risentimento.
Quello che mi colpisce – nel suo caso come in quello di molte altre amiche negli Stati Uniti – è quanto sia importante per queste donne sapere di piacere agli altri. Sono cresciute sentendosi dire che piacere è molto importante, e che questo essere piacevoli è una cosa ben precisa. E questa cosa non prevede la possibilità di esprimere rabbia o di essere aggressive o di dissentire con troppa forza.
Passiamo troppo tempo a insegnare alle ragazze a preoccuparsi di cosa pensano i ragazzi. Mentre il contrario non succede. Non insegniamo ai ragazzi a sforzarsi di piacere. Passiamo troppo tempo a dire alle ragazze che non possono essere arrabbiate o aggressive o toste, e come se non bastasse poi ci giriamo dall’altra parte ed elogiamo gli uomini che si comportano nello stesso modo. In tutto il mondo troviamo articoli e libri che spiegano alle donne cosa fare, come essere e come non essere per attirare o soddisfare gli uomini. Mentre ci sono poche guide che spiegano agli uomini come soddisfare le donne.
A Lagos insegno in un laboratorio di scrittura e una delle partecipanti mi ha raccontato che un amico le aveva detto di non dar retta ai miei “discorsi da femminista”, altrimenti avrebbe assorbito delle idee che potevano rovinare il suo matrimonio. Nella nostra società questa minaccia – la fine di un matrimonio, il rischio di non sposarsi mai – è usata molto più facilmente contro una donna che non contro un uomo.
Il genere conta in tutto il mondo. E oggi vorrei che tutti cominciassimo a sognare e a progettare un mondo diverso. Un mondo più giusto. Un mondo di uomini e donne più felici e più fedeli a se stessi. E cominciamo da qui: dobbiamo cambiare quello che insegniamo alle nostre figlie. Dobbiamo anche cambiare quello che insegniamo ai nostri figli.
Facciamo un torto ai maschi educandoli come li educhiamo. Soffochiamo la loro umanità. Gli offriamo una definizione della virilità molto ristretta. La virilità è una gabbia piccola e rigida dentro cui rinchiudiamo i maschi. Gli insegniamo ad aver paura della paura, della debolezza, della vulnerabilità. Gli insegniamo a mascherare chi sono davvero, perché devono essere uomini duri.
Alle scuole medie un ragazzo e una ragazza escono entrambi con la loro paghetta da adolescenti. Ma ci si aspetta che sia il ragazzo a pagare, sempre, per dimostrare la sua virilità (e poi ci chiediamo perché i maschi sono più inclini a rubare soldi ai genitori). Cosa succederebbe se ai maschi e alle femmine insegnassimo a non collegare la virilità ai soldi? Se invece di dare per scontato che “il maschio deve pagare” pensassero “paga chi ha di più”? Naturalmente, grazie al loro vantaggio storico, oggi sono soprattutto gli uomini ad avere di più. Ma se cominciamo a educare i nostri figli in modo diverso, tra cinquant’anni, tra cent’anni, gli uomini non si sentiranno più obbligati a dimostrare la loro virilità con mezzi materiali.
Ma la cosa peggiore che facciamo ai maschi – spingendoli a credere di dover essere duri – è che li rendiamo estremamente fragili. Più un uomo si sente costretto a essere un duro e più la sua autostima sarà fragile. E poi facciamo un torto ben più grave alle femmine, perché gli insegniamo a prendersi cura dell’ego fragile dei maschi.
Insegniamo alle femmine a restringersi, a farsi piccole. Diciamo alle femmine: puoi essere ambiziosa, ma non troppo. Devi puntare ad avere successo, ma non troppo, altrimenti minaccerai l’uomo. Se nella coppia guadagni di più, fai finta che non sia così, soprattutto in pubblico, altrimenti per lui sarà come sentirsi evirato.
E se invece rimettessimo in discussione questa premessa?
Perché il successo di una donna dovrebbe essere una minaccia per l’uomo? Un conoscente nigeriano una volta mi ha chiesto se non avevo paura di intimidire gli uomini. Non era un mio timore, anzi non ci avevo mai pensato, perché un uomo intimidito da me è esattamente il tipo di uomo che non mi interessa.
La domanda mi ha comunque colpito. Poiché sono una donna, ci si aspetta che io aspiri al matrimonio. Ci si aspetta che io faccia delle scelte di vita tenendo sempre a mente che il matrimonio è la cosa più importante.
Il matrimonio può essere una cosa bella, una fonte di gioia, di amore e di sostegno reciproco. Ma perché insegniamo alle femmine a desiderare il matrimonio e non insegniamo la stessa cosa ai maschi? Conosco una donna nigeriana che ha deciso di vendere la sua casa perché non voleva intimidire un uomo che forse aveva intenzione di sposarla. Conosco una donna non sposata, in Nigeria, che quando va alle conferenze si mette una fede perché vuole che i colleghi – dice lei – “le mostrino rispetto”. La cosa triste è che una fede nuziale la farà effettivamente sembrare subito più rispettabile, mentre se non la portasse sarebbe facilmente ignorata, e lei è in un ambiente di lavoro moderno.
Conosco ragazze che subiscono pressioni così forti sul matrimonio – da parte della famiglia, degli amici, perfino al lavoro – che finiscono per fare scelte terribili.
La nostra società insegna a una donna che se a una certa età non è ancora sposata, questo è un grave fallimento personale. Mentre se un uomo è celibe a una certa età è perché non ha ancora fatto la sua scelta.
Le donne possono rifiutare tutto questo. È facile a dirsi. Ma la realtà è più difficile, più complessa. Siamo tutti esseri sociali. Interiorizziamo idee che derivano dalla nostra società. Lo dimostra anche il nostro linguaggio. Per parlare del matrimonio usiamo spesso il linguaggio della proprietà, non quello della collaborazione. Usiamo la parola “rispetto” per indicare ciò che la donna deve mostrare all’uomo, ma meno spesso per indicare il contrario. Uomini e donne sposati diranno: “L’ho fatto per quieto vivere”. Quando lo dice un uomo, di solito si riferisce a qualcosa che non dovrebbe comunque fare.
Una cosa che racconta agli amici in tono orgogliosamente esasperato, considerandola una conferma della sua virilità: “Oh, mia moglie dice che non posso andare per locali tutte le sere, così ora, per quieto vivere, esco solo il fine settimana”.
Quando le donne dicono “l’ho fatto per quieto vivere”, di solito è perché hanno rinunciato a un lavoro, a un traguardo professionale, a un sogno. Insegniamo alle femmine che in un rapporto è più facile che sia la donna ad accettare un compromesso. Insegniamo alle ragazze a considerarsi in competizione tra loro, non per uno stesso lavoro o per uno stesso risultato, ma per l’attenzione degli uomini.
Insegniamo alle ragazze che non possono essere esseri sessuali come i ragazzi. Se abbiamo dei figli, non ci dà fastidio sapere delle loro fidanzate. Ma i fidanzati delle nostre figlie? Per carità! Poi naturalmente quando arriva il momento del matrimonio ci aspettiamo che portino a casa l’uomo perfetto.
Sorvegliamo le ragazze. Le portiamo alle stelle se sono vergini ma non portiamo alle stelle i ragazzi se sono vergini (e quindi mi chiedo quale sia la soluzione, dato che la perdita di verginità di solito coinvolge due persone di genere diverso).
Qualche tempo fa una giovane donna è stata vittima di uno stupro di gruppo in un’università nigeriana, e la reazione di molti giovani nigeriani, sia ragazzi sia ragazze, è stata più o meno questa: sì, lo stupro è una cosa sbagliata, ma cosa ci faceva una ragazza in una stanza da sola con quattro ragazzi?
Cerchiamo, se possibile, di mettere da parte l’orribile disumanità di questa reazione. A questi nigeriani è stato insegnato che la donna è per definizione colpevole.
E gli è stato insegnato ad aspettarsi così poco dagli uomini che la visione dell’uomo come creatura selvaggia priva di autocontrollo per loro è tutto sommato accettabile. Insegniamo alle ragazze a vergognarsi. Incrocia le gambe. Copriti. Le facciamo sentire in colpa per il solo fatto di essere nate femmine. E così le ragazze diventano donne incapaci di dire che provano desiderio. Donne che si trattengono. Che non possono dire quello che pensano davvero. Che hanno fatto della simulazione una forma d’arte. Conosco una donna che odia le faccende domestiche, ma fa finta di amarle perché le è stato insegnato che la “donna da sposare” deve essere – per usare un’espressione nigeriana – “senza pretese”. Poi si è sposata. E la famiglia del marito ha cominciato a lamentarsi di lei perché era cambiata. In realtà non era cambiata. Si era solo stancata di fingere di essere ciò che non era.
Il problema del genere è che prescrive come dovremmo essere invece di riconoscere come siamo. Immaginate quanto saremmo più felici, quanto ci sentiremmo più liberi di essere chi siamo veramente, senza il peso delle aspettative legate al genere. I maschi e le femmine sono indiscutibilmente diversi sul piano biologico, ma la vita in società accentua le differenze. E poi avvia un processo che si auto-rafforza. Prendiamo l’esempio della cucina. Oggi è spesso più facile che siano le donne a fare le faccende di casa: cucinare e pulire. Ma qual è il motivo? È perché le donne nascono con il gene della cucina o perché negli anni la società le ha portate a credere che spetta a loro cucinare? Stavo per rispondere che forse le donne nascono con il gene della cucina, quando mi sono ricordata che quasi tutti i cuochi famosi del mondo – che ricevono il titolo spettacolare di chef – sono uomini. Ricordo quando guardavo mia nonna, una donna brillante, e mi chiedevo cosa sarebbe diventata se da giovane avesse avuto le stesse opportunità di un uomo. Oggi una donna ha più opportunità di quante ne avesse mia nonna ai suoi tempi, e questo perché sono cambiate le leggi e le politiche, che sono molto importanti.
Ma ciò che conta di più è il nostro atteggiamento, la nostra mentalità. E se, educando i nostri figli, ci concentrassimo sulle capacità invece che sul genere? Sugli interessi invece che sul genere?
Conosco una famiglia con un figlio e una figlia. Hanno un anno di differenza e sono tutti e due bravissimi
a scuola. Quando il maschio ha fame, i genitori dicono alla figlia: “Vai a fare dei noodle per tuo fratello”.
Alla ragazza non piace preparare i noodle, ma è una ragazza e deve farlo. E se i genitori avessero insegnato a entrambi figli a cucinare i noodle? Tra l’altro saper cucinare è una competenza pratica molto utile per un ragazzo. Ho sempre trovato assurdo delegare ad altri una cosa fondamentale come la capacità di nutrirsi.
Conosco una donna che ha gli stessi titoli di studio e lo stesso lavoro del marito. Quando tornano a casa, è lei a occuparsi di gran parte delle faccende domestiche, e questo accade spesso, ma la cosa che mi ha colpito è che quando lui cambia il pannolino al bambino lei lo ringrazia. E se invece le sembrasse normale e naturale vedere il marito occuparsi anche lui del figlio? Sto cercando di disimparare molte lezioni sul genere che ho interiorizzato crescendo. Ma a volte mi sento ancora vulnerabile di fronte alle aspettative legate al genere.
La prima volta che ho tenuto una lezione di scrittura in un’università ero preoccupata. Non per la materia: ero ben preparata e insegnavo una cosa che amavo. Ero preoccupata perché non sapevo come vestirmi. Volevo essere presa sul serio. Sapevo che, in quanto donna, avrei automaticamente dovuto dimostrare quanto valevo. E temevo che, sembrando troppo femminile, non sarei stata presa sul serio. Avrei tanto voluto mettere il lucidalabbra e la gonna corta, ma ho preferito non farlo. Ho messo un tailleur molto serio, molto mascolino e molto brutto. La triste verità è che, quando dobbiamo giudicare le apparenze, prendiamo gli uomini come termine di paragone. Molti di noi pensano che meno una donna si mostra femminile e più ha probabilità di essere presa sul serio. Un uomo che va a un incontro di lavoro non si chiede se sarà preso sul serio in base a come è vestito, una donna sì. Vorrei non aver indossato quel brutto tailleur quel giorno. Se avessi avuto la fiducia in me stessa che ho adesso, i miei studenti avrebbero potuto imparare ancora di più. Perché io sarei stata più sicura, più pienamente e autenticamente me stessa. Ho deciso di non scusarmi più per la mia femminilità. E voglio essere rispettata in quanto femmina. Perché me lo merito. Amo la politica, la storia e le belle discussioni.
Mi piacciono le cose femminili. E sono felice che mi piacciano. Mi piacciono i tacchi alti e mi piace provare rossetti nuovi. Mi piace ricevere complimenti da uomini e donne (anche se a essere sincera preferisco riceverli da donne eleganti), ma spesso indosso abiti che gli uomini non apprezzano o non “capiscono”. Li indosso perché mi piacciono e perché mi fanno sentire bene. Lo sguardo maschile influenza solo casualmente le mie scelte di vita. Non è facile parlare di genere. È un argomento che
crea disagio, a volte perfino irritazione. Tanto gli uomini quanto le donne sono restii a parlare di genere, o si affrettano a liquidare il problema. Pensare di cambiare lo status quo è sempre una prospettiva scomoda.
Alcune persone chiedono: “Perché la parola ‘femminista’? Perché non dici semplicemente che credi nei diritti umani, o una cosa del genere?”. Perché non sarebbe onesto. Il femminismo ovviamente fa parte dei diritti umani, ma scegliere di usare un’espressione generica come “diritti umani” vuol dire negare la specificità del problema di genere. Vorrebbe dire far dimenticare che le donne sono state escluse da questi diritti per secoli. Vorrebbe dire negare che il problema di genere colpisce le donne, la condizione dell’essere umano donna, e non gli esseri umani in generale. Per secoli il mondo ha diviso gli esseri umani in due per poi escludere e opprimere uno dei due gruppi. È giusto che la soluzione al problema riconosca questo fatto. Alcuni uomini si sentono minacciati dall’idea del femminismo. Credo sia dovuto all’insicurezza provocata dalla loro educazione, per cui la loro autostima diminuisce se non sono loro a comandare “naturalmente” in quanto uomini.
Altri uomini potrebbero ribattere: “Ok, è interessante, ma io non ragiono così. Io al genere non ci penso proprio”. Forse è vero. E questo fa parte del problema: il fatto che molti uomini non riflettano o non notino il genere. Che molti uomini dicano, come il mio amico Louis, che forse in passato la situazione era peggiore ma che ora è tutto risolto. E che molti uomini non facciano nulla per cambiare la situazione. Se sei un uomo, entri in un ristorante e il cameriere saluta solo te, dovrebbe venirti in mente di chiedergli: “Perché non ha salutato anche lei?”. Gli uomini devono prendere la parola in tutte queste situazioni apparentemente poco gravi. Poiché il genere è un argomento scomodo, ci sono molti modi per evitare di parlarne. Alcune persone tirano fuori la biologia evolutiva e le scimmie, facendo l’esempio delle femmine che si inchinano ai maschi. Ma il fatto è questo: noi non siamo scimmie. Le scimmie vivono sugli alberi e mangiano lombrichi. Noi no. Alcune persone diranno: “Anche gli uomini poveri se la passano male”. Ed è vero.
Ma non è di questo che stiamo parlando. Il genere e la classe sono due cose diverse. Un uomo povero ha comunque i vantaggi di essere uomo, anche se non ha quelli di essere benestante. Parlando con alcuni uomini neri, ho capito molto dei sistemi oppressivi e di quanto non siano riconosciuti dagli altri sistemi oppressivi. Un giorno stavo parlando di genere quando un uomo mi ha detto: “Perché parli di te in quanto donna? E non in quanto essere umano?”. Questo tipo di domanda permette di liquidare la particolare esperienza di una persona. Sono un essere umano, certo, ma ci sono alcune cose che mi succedono perché sono una donna. Tra l’altro quella stessa persona parlava spesso della propria esperienza di uomo nero. E avrei probabilmente dovuto chiedergli: “Perché non parli della tua esperienza di uomo o essere umano? Perché di uomo nero?”.
Qui, dunque, parliamo di genere. Alcune persone diranno: “Oh, ma sono le donne ad avere il vero potere: il bottom power”, cioè il potere del fondoschiena, un modo di dire nigeriano per indicare una donna che usa la propria sessualità per ottenere qualcosa da un uomo. Ma il bottom power non è potere, perché la donna con quel potere non è afatto potente. Ha solo una via di accesso al potere di qualcun altro. E che succede se l’uomo è di cattivo umore o malato o momentaneamente impotente? Alcune persone diranno che la donna si sottomette all’uomo perché fa parte della nostra cultura. Ma la cultura cambia senza sosta. Ho due nipoti gemelle, due belle ragazze di quindici anni. Se fossero nate un secolo fa, sarebbero state portate via e uccise. Perché un secolo fa la cultura igbo considerava la nascita di gemelli un cattivo presagio. Oggi tutti gli igbo trovano quella pratica inconcepibile. A che serve la cultura? In in dei conti lo scopo di una cultura è di assicurare la protezione e la continuità di un popolo. Nella mia famiglia sono la figlia che più si interessa alla nostra storia, alle terre dei nostri antenati, alla nostra tradizione. I miei fratelli non hanno lo stesso interesse. Ma io rimango comunque fuori dalle loro discussioni perché la cultura igbo privilegia gli uomini, e solo i membri maschi della famiglia estesa possono partecipare alle riunioni in cui si prendono le grandi decisioni familiari. Quindi pur essendo la persona che se ne interessa di più, non posso partecipare. Non posso dire ufficialmente la mia. Perché sono una donna. La cultura non fa le persone. Sono le persone che fanno la cultura. Se è vero che la piena umanità delle donne non fa parte della nostra cultura, allora possiamo e dobbiamo far sì che lo diventi.
Penso molto spesso al mio amico Okoloma. Prego perché lui e le altre vittime dell’incidente aereo di Sosoliso riposino in pace. Okoloma sarà sempre ricordato da chi lo ha amato. E aveva ragione quel giorno, tanti anni fa, quando mi diede della femminista. Io sono una femminista. Quando, tanti anni fa, cercai la parola nel vocabolario, trovai: “femminista: persona che crede nell’eguaglianza sociale, politica ed economica dei sessi”. La mia bisnonna, a quanto mi hanno raccontato, era una femminista. Fuggì dalla casa di un uomo che non voleva sposare e sposò l’uomo che aveva scelto. Si oppose, protestò, disse ciò che pensava quando le sembrò che la stessero privando della sua terra perché era una donna. Non conosceva la parola “femminista”. Ma non vuol dire che non lo fosse. Dovremmo essere più numerosi
a rivendicare questa parola. Il miglior esempio di femminismo che conosco è mio fratello Kene, che è anche un ragazzo buono, bello e molto virile. La mia definizione di femminista è questa: un uomo o una donna che dice sì, oggi esiste un problema legato al genere e dobbiamo risolverlo, dobbiamo fare meglio. Tutti noi, donne e uomini, dobbiamo fare meglio.