Nuvolette di pensieri

Mormora l'acqua del ruscello

Rosa canta e cunta

 

Rosa Balistreri

Rosa Balistreri

 

Pi nun perdiri lu cuntu. Nata il 21 a primavera, come Alda Merini. Non è un caso. Come Alda, era capace di segnare una differenza, una unicità di sguardo per indagare nelle pieghe della vita e raccontarle, in profondità. Una sensibilità che consentiva a entrambe di avere la capacità del dire oltre la parola e il senso comune. Conoscevo Rosa Balistreri molto poco. Oggi ne scrivo grazie alle sollecitazioni che mi sono giunte dopo aver visto il bel lavoro teatrale di Tiziana Francesca Vaccaro TERRA DI ROSA – u cantu ca vi cuntu. Un omaggio a una donna, che la sua terra, bella e piena di contraddizioni, se la portava dentro. La sua terra dura e amara, narrata con la sua voce profonda, che scava fino nelle viscere, un canto ancestrale che si innesta in un presente ancora difficile. La terra di una bambina che diventa donna e che da quella terra sente il bisogno di distaccarsi, ma allo stesso tempo non ne può fare a meno. Terra di emigrazione, difficile viverci e sopravviverci. A sud, dalla Sicilia alla mia Puglia, un’unica terra dalla quale non si parte mai del tutto. Quanto lo sappiamo noi che ci siamo nate e che lo continuiamo a sentire, dentro, anche se ce ne siamo andate. Viscerale è la sua produzione musicale, ripresa da Tiziana per raccontare la storia di questa donna che ha affrontato, scontrandosi e pagando di persona, il suo tempo e le sue regole. In lei la scintilla è scattata sin da piccola, quando ha cercato di trovare la sua strada, nonostante il padre, un matrimonio forzato con un uomo violento e l’oppressione di una Licata di inizio secolo. Appassionata l’interpretazione che ne fa Tiziana, riportandoci la vita in ogni suo aspetto, sempre vissuta in prima linea, senza cedere mai, credendo fermamente nell’amore, crudele ma indispensabile, motore di una vita. “Vogliu spaccari…spaccari li cieli, pì fari chioviri…chioviri amuri”.

Amore per la sua terra, per la verità, contro la violenza, contro la mafia, in un universo in cui le donne dovevano (e devono, purtroppo ancora oggi) restare al loro posto.
Le sue passioni, le sue idee, la volontà di cambiare e sovvertire l’esistente, che la porta a imparare a leggere e a scrivere all’età di 22 anni. Rosa che comprende quanto sia importante saper leggere e scrivere per non essere più schiava. Sapere e conoscere per essere libera. Il canto che sarà il suo compagno amorevole per tutta la vita, che le resterà appiccicato fino alla fine. Canto come liberazione e rivoluzione, come racconto, memoria, strumento che disvela ciò che si cela dietro le consuetudini, le violenze quotidiane e una società sorda che va riabituata ad ascoltare, affinché sia in grado di dire finalmente no a tante cose. Donna scomoda e fuori dal suo tempo, perché ne percepiva tutte le contraddizioni, le iniquità, le oppressioni, le discriminazioni di un patriarcato che metteva a tacere le donne, dividendole tra sante e bottane. Donne che esistevano solo in quanto figlie o mogli di e che al massimo esercitavano un potere illusorio confinato tra le mura domestiche. Ogniqualvolta una donna porta alla luce, racconta la storia di un’altra donna rivoluzionaria come Rosa Balistreri compie un lavoro fondamentale, affinché i messaggi non si perdano e si sia in grado di andare avanti, con l’energia di queste donne. Rosa che non si è mai adeguata, non ha mai incarnato il ruolo che famiglia e società avevano fissato per lei. Rosa che con la sua voce ha girato il mondo con i piedi sempre ben piantati nella sua terra d’origine, per non perdere mai il contatto con la vita, vita difficile, vita aspra, vita appassionata, vita che non sta in un cantuccio, ma canta e cunta.

Grazie Tiziana per questo tuo lavoro teatrale, per la forza, per la passione con cui porti in scena Rosa, le sue canzoni, le sue parole, il suo percorso, per una vita vissuta pienamente, non come vermi sotto terra, ma alla luce del sole. Un prezioso contributo per il nostro lungo cammino di emancipazione e di liberazione. Rosa noi continuiamo a camminare… chi ci può fermare????

 

Qui di seguito pubblico due estratti tratti dallo spettacolo di e con Tiziana Francesca Vaccaro

INIZIO

Da bambina stavo sempre per terra. Mi piaceva giocare con la terra, mi faceva sentire grande. Buttarmi a terra, sporcarmi i vestiti, impiastricciarmi la faccia, le mani di terra… A volte ne prendevo un po’ accovacciata, ci infilavo le mani con bastoncini di legno e scavavo, scavavo e trovavo radici, sassi e pure vermi… A me piacevano un sacco i vermi, ci giocavo proprio, li facevo andare un po’ qua un po’ là, e gli toccavo la testa. In realtà cercavo di accarezzarla, mi sembravano spaventati, mi facevano un po’ pena. E pensavo: “chissà come dev’essere vivere sotto la terra! E chissà cosa succede a questi poveri vermi quando vengono tirati fuori dalla loro casa, sopra la terra!” Non riuscivo proprio a immaginarmelo il disadattamento, la paura… Ci provavo, eh? Ma… ero piccola, non ci riuscivo molto bene. So solo che quando ci pensavo e li vedevo così, indifesi, stavo male, forse perché anch’io mi sentivo un po’ verme, come loro, fatta di terra, dentro la terra.
Allora con i bastoncini li rinfilavo giù, lì sotto. E scomparivano, puff… diventavano un’unica cosa con la terra.

La storia che vi sto per raccontare è la storia di un verme, un verme che dalla sua tana è stato costretto a fuggire ma che poi c’è ritornato.
È una storia di radici antiche, profonde, dal sapore di terra. Terra di Sicilia.
È la storia di Rosa Balistreri.

FINE

Da bambina stavo sempre per terra. Mi piaceva giocare con la terra, mi faceva sentire grande. Poi diventi veramente grande e ti accorgi che ti capita sempre più raramente di buttarti a terra, sporcarti i vestiti, impiastricciarti la faccia, giocare con i vermi… Diventi grande e giochi a confrontarti con altre terre, a scoprire nuovi mondi, mischiarti con le persone, a incontrare nuovi vermi.

 

 Foto di Simone Boiocchi © 2015

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Il testo del brano “Rosa canta e cunta” di Rosa Balistreri

Stasira vaju e curru cu lu ventu
a grapiri li porti di la storia.
Stasira vogliu dari p’un mumentu
la vita a lu passatu i a la memoria.
Stasira cu la vampa di l’amuri
scavu na fossa, na fossa a lu duluri.

C’è chiù duluri, c’è chiù turmentu
ca gioia e amuri pi l’umanità
Nun è lu chiantu ca cancia lu distinu,
nun è lu scantu ca ferma lu caminu,
grapu li pugna, cuntu li jita
restu cu sugnu, scurru la vita.

Cantu e cuntu, cuntu e cantu
pi nun perdiri…lu cuntu.

Nuddu binidicì lu me caminu,
mancu la manu nica d’un parrinu
e vaju ancora comu va lu ventu
cercari paci sulu p’un mumentu.
Vogliu spaccari…spaccari li cieli
pì fari chioviri…chioviri amuri.

C’è cu t’inganna, c’è cu cumanna
e cu ‘n silenziu mutu si nni sta.
È lu putiri ca nforza li putenti,
è lu silenziu ca ammazza li ‘nnuccenti,
grapu li pugna, cuntu li jita
restu cu sugnu, cercu la vita.

Cantu e cuntu, cuntu e cantu
pi nun perdiri…lu cuntu.

Vinni a stu munnu quannu lu “Voscienza”
si schifiava pi li strati strati.
Tempi d’abbusi, di fami e di guerra
criscivu mmenzu di li malannati.
Lacrimi muti ni chiancivi e quanti,
la me nnuccenza si la sparteru ‘n tanti.

La mala genti, li priputenti,
tanti su tanti nni sta sucità.

Nun è l’amuri ca crisci ad ogni banna,
ma lu favuri ca sparti cu cumanna,
grapu li pugna, cuntu li jita
restu cu sugnu, scurru la vita.

Cantu e cuntu, cuntu e cantu
pi nun perdiri… lu cuntu.

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Non relazioni. Compro e pretendo?

18feb

 

Ho partecipato a un altro incontro organizzato dalla Caritas Ambrosiana sul tema della prostituzione. Relatori don Stefano Cucchetti e Lea Melandri. Il filo conduttore era il denaro, nel tentativo di scandagliare come esso e il mercato entrano in contatto con i temi etici. Possiamo porre il mercato in una posizione subordinata, oppure regola e determina ogni aspetto delle nostre vite?

Qui di seguito proverò a fare una sintesi dell seminario, aggiungendo qualche mia annotazione a margine degli interventi. I miei commenti saranno evidenziati da (Ndr).
Il tema è: il denaro come grande mediatore. Il corpo in prostituzione diviene bene mobile che messo sul mercato crea profitti. Il fenomeno come sappiamo è molto frastagliato, complesso.
Il bilancio delle unità di strada della Caritas nel 2014 parla di 1.386 contatti. La libertà di scelta è quasi impercettibile da questo punto di osservazione. Ma ancor più importante è sottolineare come consapevolezza e libertà di scelta non siano mai sovrapponibili. Questo dobbiamo tenerlo presente sempre, per non fare confusione sul concetto di libera scelta, come ho sentito in uno degli interventi del pubblico.

Cucchetti introduce il suo ragionamento attorno al denaro, citando Umberto Galimberti:

“La prostituzione è da considerarsi come sintomo del regime sessuale che caratterizza la nostra società. Alla sua base non si trova il sesso, ma il denaro. Il denaro infatti una volta dato si separa in modo assoluto dalla personalità e tronca ogni ulteriore conseguenza nel modo più netto. Pagando in denaro ogni cosa è chiusa nel modo più radicale. Di fronte al denaro tutto diventa merce” (qui un documento interessante da leggere).

A livello filosofico, sono pochi i contributi sul tema del denaro. Cucchetti cita il lavoro di George Simmel del 1902 (qui un bel pezzo di qualche anno fa su Simmel, pubblicato sul mensile Noi Donne).
Il denaro diviene pertanto un “grande presente silenzioso”, qualcosa che abita le nostre vite, gli imprime una impronta fortissima, ne determina, in modo più o meno invasivo, ogni aspetto.
È l’intero sistema di vita che viene impattato.
Cucchetti a proposito della locuzione latina “pecunia non olet”, cita un episodio della vita di S. Francesco:

“Francesco disprezzava il denaro al punto da considerarlo alla stregua del diavolo ed ai suoi frati era assolutamente vietato anche solo toccare una moneta. Un giorno, però, un uomo lasciò una offerta in denaro sotto la croce della chiesa di Santa Maria della Porziuncola ed uno dei fraticelli la prese con una mano e la poggiò sul davanzale di una finestra. Questa cosa fu riferita a Francesco ed il frate decise di recarsi da lui per scusarsi. Si prostrò quindi a terra in attesa della punizione, che Francesco gli comminò subito: togliere con la bocca la moneta dalla finestra e deporla su sterco d’asino fuori dalla chiesa, a simboleggiare che non c’era differenza tra quel denaro e lo sterco. Il frate obbedì senza fiatare, quasi sollevato che la punizione fosse così lieve”.

Il denaro per sua caratteristica è un elemento che non reca con sé informazioni sulla sua origine, perde la sua “puzza”. Ma Francesco cerca di farci ricordare che invece la puzza permane.
L’economia monetaria per Cucchetti è l’unica possibile, perché più efficace e semplice, si impone maggiormente rispetto ad altre soluzioni. Questo perché il denaro è uno strumento di mediazione molto pratico: è capace di oggettivare i rapporti commerciali. Se io desidero un bene che non ho, ma che un altro possiede, questo altrui possesso rende quel bene resistente al mio desiderio. L’oggetto è carico della soggettività della persona che lo possiede. L’oggetto parla dell’altra persona. Se io voglio soddisfare il mio desiderio, sorge il problema di come vincere quella resistenza, il legame soggettivo tra la persona e l’oggetto posseduto.
Il denaro è l’unico strumento di mediazione quantitativo (e non qualitativo), consente di misurare le cose. Ha valore per la sua quantità ed è in grado di staccare dal soggetto i suoi beni. Il denaro oggettivizza. Attraverso il denaro la mia identità, all’interno del mercato, da un lato si estende (dal lato dell’identità desiderata, se ho denaro a sufficienza posso comprare di tutto, è solo una questione di quantità), dall’altro si riduce (il denaro mi priva dei miei oggetti, la mia casa per esempio). Pezzo dopo pezzo, tutto si può sganciare da me, tanto che la mia identità reale può trovarsi ridotta all’osso. “Sono una psiche nuda, perché persino il mio corpo è acquistabile” secondo Cucchetti. Le entità desiderate possono diventare infinite:
– Il cliente attraverso l’accesso a “ennemila” donne;
– La prostituta che sceglie, implica un non limite del desiderio, di benessere, “di bella vita”.
Ma al contempo si verifica una riduzione dell’identità stessa sia del cliente che della prostituta.

A questo punto mi sorge una domanda. Ma siamo ancora al mantra della prostituta che sceglie? Non so se Cucchetti si è reso conto di questo particolare. Mi sembra che si rischi di cadere nel solito equivoco di fondo. Ma ora proseguiamo con il ragionamento. (Ndr)

Secondo Simmel, per quanto il denaro sia in grado di quantificare ogni cosa, il fatto che sia in grado di separare le persone dai propri oggetti di possesso è solo illusorio. Se torniamo al nostro tema principale, è chiaro che in prostituzione, per quanto la donna si convinca della possibilità di oggettificazione del proprio corpo, si tratta di una illusione. In questo caso riemerge il dramma soggettivo e questa separazione forzata non può reggere a lungo.

Mi viene in mente l’intervista a Rosen Hicher che avevo pubblicato qualche settimana fa. Non si può reggere in una situazione di violenza. (Ndr)

Cucchetti è convinto che non si debba fare a meno del denaro o del mercato, ma sia necessario tornare a sentire “la puzza” dei soldi, “ridando soggettività al denaro, riscoprendo un modello economico come mediazione di relazioni e non di oggetti/oggettualità”. Viene ripreso il passaggio del Vangelo sulle monete con l’effigie di Cesare, con la famosa risposta di Gesù “rendete a Cesare quel che è di Cesare”. Questo significa riagganciare il denaro alla mediazione relazionale. Gesù usa il denaro per svelare una ipocrisia, che c’è dietro l’uso del denaro. Ridurre tutto a un oggetto è comodo, perché permette di non scorgere che dietro ci sono relazioni. Occorre tornare a comprendere lo spessore delle qualità relazionali (un esempio sono le pratiche di micro-credito). Attraverso un recupero del concetto di “restituzione”, del riconoscere un debito che muove nuove consapevolezze nelle relazioni concrete.

Passiamo all’altra relatrice del seminario. Per comprendere il tessuto dell’intervento di Lea Melandri, consiglio la lettura preventiva di questo suo articolo (qui), comparso di recente su Il Manifesto.

Lea Melandri esordisce parlando di contesto prostituzionale allargato, che oggi si esplicita anche nei lavori precari. “Il denaro è un elemento portante del potere che l’uomo esercita sulle donne”. Si rievoca il rapporto uomo-corpo materno, che si manifesta sia attraverso le cure e l’accudimento, sia come fonte delle prime sollecitazioni sessuali. La prostituzione non è un lavoro come un altro, ma un impianto base della relazione tra sesso e denaro, sesso e lavoro, sesso e vita affettiva. Senza dimenticare l’ambito della politica. Melandri si chiede se per caso siamo tutte in qualche modo sex workers. A tutte è chiesto di imparare a vendersi bene, a rendersi appetibili, anche e soprattutto nel lavoro.

Mi ricorda tanto il consiglio che la mia insegnante di lettere del liceo diede a mia madre: “Sa sua figlia deve imparare a vendere meglio la sua merce”. Sì, è tutta una questione di commercio, di rendere “bello” un prodotto, perché così com’è non è sufficientemente in linea con il mercato. Non importa la sostanza, l’importante è che si presenti e che venga presentato al meglio. (Ndr)

Occorre interrogarsi alla luce della storia del rapporto tra i sessi, così come dei rapporti familiari, per comprendere cosa c’è dietro i clienti. Il bisogno di regolamentare e il desiderio di occultare hanno dato il via all’idea delle red zone dedicate alla prostituzione, denotando una profonda ipocrisia. Questi sono i nostri padri, amici, fratelli ecc. Lea Melandri è contraria a colpire i clienti, perché si dovrebbe ragionare sull’immaginario sessuale maschile che vede donna uguale corpo, al servizio dell’uomo. “Rassicurante ma riduttivo parlare del fenomeno prostituzione solo in termini di tratta o di sex workers”.

Qui c’è un evidente problema. Riconosco che si tratta di una rivoluzione culturale da fare, modificando l’immaginario sessuale maschile. Ma questo implica un lungo periodo. Sul breve periodo, per scoraggiare il consumo di sesso a pagamento e iniziare un percorso di cambiamento nelle pratiche maschili, l’idea di colpire il cliente è il primo step necessario. Altrimenti corriamo il rischio di rinviare e di continuare tacitamente a consentire e ad avvallare certi comportamenti.
Permane l’oscillazione di posizione che avevo avvertito anche nell’articolo sul Manifesto. (Ndr)

Melandri cita l’antropologa Paola Tabet, che annota un continuum tra prostituzione e ciò che per secoli si è svolto all’interno della vita coniugale, in cui il legame sesso-denaro era presente, nel rapporto tra marito e moglie.
Per mantenere il controllo sulle donne, gli uomini hanno creato anche la dicotomia tra sante e puttane.
Oggi con il fenomeno delle veline, delle escort, delle ragazze immagine, il corpo è divenuto ancora di più capitale, moneta di scambio. Non si tratta certo di corpi liberati, ma non sono prostitute tout court. Sono soggetti che si oggettivizzano. Si tratta di una emancipazione malata, perversa, data dalla società dei consumi. La donna è stata identificata nel corpo. Si sceglie un tipo di emancipazione formale e narcisistica per evitare laliberazione reale, effettiva. La disuguaglianza uomo-donna ha portato la donna ad adoperare il corpo e la sessualità per ottenere dei vantaggi, quindi in modo funzionale all’ordine socio-economico esistente.

Facciamo attenzione alle parole. Evitiamo di cadere in un trappolone, che alla fine dice che le donne sono manipolatrici e che tutto sommato hanno l’arma del corpo e la usano per raggiungere posizioni più favorevoli o di potere. Secondo me, a questo punto stiamo smarrendo la strada. Ci stiamo dimenticando che chi è in prostituzione nella maggior parte dei casi non ha scelta e non ha alcun potere: non trae vantaggio dal fatto che il suo corpo venga usato, messo in vendita sul mercato del sesso. Qui c’è un grosso equivoco, perché sembra che tutto sommato chi si prostituisce possa avere il suo tornaconto personale. La necessità di sopravvivenza e la schiavitù dell’essere merce deumanizzata non mi sembrano proprio elementi attinenti al vantaggio personale. (Ndr)

Melandri cita Pia Covre: “definire la prostituzione come un lavoro significa porre una separazione tra corpo e sessualità”. Un’occasione irripetibile per giungere alla “riappropriazione di se stesse”.

Ecco spuntare nel discorso il mantra secondo cui la prostituzione è un elemento di libertà, un mezzo per raggiungere la piena emancipazione femminile. Come mai non ci avevamo pensato prima!! (Ndr)

Poi Melandri cita Ciccone di Maschile Plurale, che si interroga sul potere del cliente e della prostituta. Ha più potere colui che acquista la merce o chi la possiede e la mette in vendita?

Oibò! Qui buttiamo alle ortiche decenni di riflessioni sugli squilibri di potere esistenti. Come possiamo dimenticarcene? Evidentemente ad alcuni fa comodo cancellare, rimuovere un dato palese. Cavolo, abbiate il coraggio di andare a raccontare certe cose alle donne che ogni giorno vivono in prima persona la vita sulla strada, o in bordello, la sostanza non cambia. Siamo alla teorizzazione del potere delle prostitute?! (Ndr)

Poi arrivano le lodi al testo di Giorgia Serughetti, che tinteggia un quadro romantico, bohémien del mondo della prostituzione (un pamphlet-invito a prostituirsi in massa, perché è un mestiere come un altro, ben remunerato e tutto sommato piacevole), tra fidanzate a noleggio e l’uomo che finalmente si abbandona a una relazione con una donna, senza il peso delle responsabilità. Ma che cosa c’entra la parola relazione se qui c’è solo un rapporto usa e getta con un corpo che per il cliente non ha nemmeno dignità umana, ma è solo un oggetto. Allora, siccome gli uomini hanno difficoltà crescente ad assumersi responsabilità di coppia, a vivere relazioni tra pari, è bene che trovino oggetti da comprare, necessari per i loro bisogni fisiologici? A questo è ridotta una donna? (Ndr)
Perché non abbiamo mai il coraggio di spostare i riflettori sull’uomo, sulla sua percezione deforme della donna? Qui il problema sta tutto dal lato della domanda, e non pensare di colpirla è sinonimo di connivenza. Non smetterò mai di ripeterlo. Vogliamo responsabilizzare il cliente o dobbiamo concedergli ancora decenni di alibi? Dobbiamo attaccare quella mentalità diffusa che vede come “normale” l’uso del corpo di una donna da parte dell’uomo. Questo non è né normale, né eterno, né ineluttabile! E diamoci da fare per aiutare chi è sulla strada e non ha né scelta, né potere. Costruiamo per loro delle alternative. Contestualmente occupiamoci del lavoro culturale, per costruire un nuovo modello di civiltà e di relazioni. (Ndr)
Per fortuna gli interventi del pubblico (tranne un caso) hanno raddrizzato il tiro, evidenziando i pericoli che derivano dal considerare la prostituzione un lavoro come un altro.

Lea Melandri dopo gli interventi precisa che per lei la prostituzione non rappresenta una modalità di liberazione e di emancipazione della donna.
Non mi stancherò mai di ripetere che quando c’è un bisogno da soddisfare, non c’è mai libertà. Laddove non c’è una uguaglianza economica o sociale, non vi può essere equità tra due posizioni. Senza dimenticare mai il divario di genere e i conseguenti squilibri. Ricordiamoci “la puzza” dei soldi. (Ndr)

 

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L’efficacia simbolica del divario di genere

 

Dati OCSE

Dati OCSE

 

Ho recuperato un interessante e ben documentato articolo di Máriam Martínez-Bascuñándi pubblicato su El Diario (qui). L’ho tradotto e lo condivido, perché lo ritengo utile per le nostre riflessioni.

 

La discussione accademica sulla giustizia di genere ha mostrato evidenze empiriche per dimostrare che oggi permane una diseguaglianza strutturale che attraversa le nostre società, causando gravi squilibri di potere tra uomini e donne. In relazione a ciò, la grande domanda che ne deriva è da dove ha origine questa struttura di diseguaglianza e come possiamo identificarla?

Sappiamo che esiste una struttura economica che genera specifiche forme di ingiustizia distributiva di genere, e che comprende lo sfruttamento basato sulla disuguaglianza di genere in termini di salari, carenza di potere, emarginazione e privazione. Sicuramente, una delle principali manifestazioni di questa ingiustizia distributiva specifica di un determinato genere, ha a che fare con il mantenimento di una struttura sociale di base che perpetua la divisione sessuale del lavoro.
Secondo Iris Marion Young (qui) la divisione sessuale del lavoro è radicata in una ripartizione dei compiti per ruoli di genere. Questa divisione sessuale del lavoro è parte della struttura economica delle nostre società che considerano normale che le donne debbano investire primariamente le proprie energie nei compiti di cura della casa, dei bambini, delle persone non autosufficienti e di tutti gli altri membri della famiglia.
Questa divisione del lavoro porta alla disparità, come quella di tutte le persone che lasciano il lavoro dopo un anno dalla nascita del figlio, l’85% sono donne. O che ogni 26 donne che scelgono il part-time per “conciliare” (casa-lavoro, ndr), solo un uomo compie la stessa scelta (qui).
O come dice l’ultimo rapporto OCSE (qui), le donne tra i 25 e i 34 anni acquisiscono maggiori titoli universitari rispetto agli uomini, ma il loro livello di occupazione (qui) è più basso perché molte di loro sono costrette ad assumere il tradizionale ruolo di “badanti” (qui).

A causa di ciò si alimenta un immaginario sociale che identifica la donna in un determinato tipo di attività, mentre si genera un sistema di aspettative che le vengono imposte, moltiplicando le difficoltà per poter sviluppare altre competenze o dedicare il suo tempo ad altre attività che non siano in primo luogo di cura. Questo insieme di aspettative, di immagini, di stereotipi, di norme sociali e istituzionali costruiscono un ordine culturale responsabile del fatto che le donne partono con uno svantaggio competitivo in termini di potere, di lavoro, di riconoscimento o di prestigio culturali.
Questo dimostra che il genere è una categoria ibrida radicata sia nella struttura economica che nell’ordine culturale delle nostre società. Pertanto, per eliminare la discriminazione di genere in modo efficace dobbiamo combattere su entrambi i fronti. Il fronte economico e quello simbolico. Comprendere la natura bidimensionale del genere è la chiave per comprendere la complessità della discriminazione di genere e perché tuttora si verifica (qui).
Tuttavia, nello stesso modo in cui sembra che la struttura economica sia qualcosa di tangibile, misurabile, facile da identificare e da spiegare, non è così con l’altra faccia della discriminazione di genere che la rende bidimensionale, e si riferisce all’ordine simbolico. Per Nancy Fraser, il genere dal punto di vista simbolico dovrebbe essere visto come un modo di codificare modelli onnipresenti culturali di interpretazione e di valutazione, che sono fondamentali per capire il motivo per cui le donne continuano a subire discriminazioni. Questo modo di codificare i modelli culturali, rientra in quello che molte teoriche femministe, come Fraser, hanno designato con il termine “androcentrismo” (qui).

L’androcentrismo secondo la letteratura femminista (qui), è un modello istituzionale di valore culturale che privilegia i tratti associati alla mascolinità, mentre svaluta quelli codificati come “femminili”. Questo fenomeno rende talvolta anche inconsapevole l’uso di giudizi sulle competenze. Parliamo per esempio di ciò che Adrian Piper (qui) chiamò “discriminazione di ordine superiore”, che si verifica quando le persone sminuiscono gli attributi, le qualità nelle donne, che al contrario, solitamente, sono considerati degni di lode negli uomini, in quanto vincolati ai tratti maschili che la cultura androcentrica privilegia (ma solo negli uomini). Ci riferiamo ad esempio a comportamenti che mostrano l’ambizione, l’assertività o il pensiero indipendente. Da un punto di vista astratto, queste caratteristiche possono essere considerate come doti di qualcuno che si desidererebbe avere nella propria squadra di lavoro. Tuttavia, quando sono le donne a presentare tali caratteristiche, iniziano ad essere valutate come conflittuali, o come segnali di una incapacità di lavorare in squadra. Questo fa sì che a volte le donne sono inibite nel mostrare simili comportamenti, o che lo facciano al prezzo di subire, nei casi pià gravi, un trattamento umiliante e vessatorio, a volte derisorio, venendo etichettate come “poco femminili”.

Questi modelli valoriali androcenrici permeano la cultura popolare e l’interazione quotidiana. Sono diffusi in stereotipi e luoghi comuni, nelle rappresentazioni scritte e visuali, in cui di solito è difficile criticare il contesto in cui appaiono, perché ciò che viene presentato è dato come realtà, trasmesso con forza e accettato in modo subliminale, in modo tale che non venga percepito come discutibile. Questi stereotipi confinano le donne a una natura che spesso è legata in qualche modo ai loro corpi (o al dato biologico, ndr), e di conseguenza, non si può negare facilmente. L’esempio più evidente di questo potrebbe essere la cura e l’oggettivazione dei corpi. Gran parte di questo ordine culturale è dedicato al culto della bellezza femminile, ma, come sostiene Iris Young, lo stesso “camafeo ideal” (questa stessa ricerca di bellezza ideale, ndr) è in gran misura responsabile del fatto che la maggior parte dei corpi delle donne sono considerati “imperfetti” (qui).

Il paradosso consiste nel fatto che quella particolare forma di codifica della realtà distingue le donne come prima cosa perché sono donne, e allo stesso tempo le rende invisibili. Le etichette a partire da rappresentazioni stereotipate, oggettivizzanti e dispregiative dei media, le rendono invisibili o le includono in maniera non egualitaria rispetto alle figure maschili, nei dibattiti pubblici e nelle istituzioni deliberanti.
La rimozione dell’androcentrismo passa attraverso la trasformazione di questo ordine culturale di genere, rimpiazzandolo con modelli che esprimano pari presenza e rispetto per le donne. La teoria della comunicazione politica ci insegna che i fatti non possono essere studiati a partire dal modo in cui vengono presentati. Analogamente, l’ordine culturale non può essere svincolato da una lettura politica che mostra la connessione tra cultura, genere e potere. Al di là della assimilazione acritica dell’esistente, solo partendo da questa consapevolezza possiamo evidenziare i limiti delle nostre società e sondare tutte le sue potenzialità per progredire nella lotta contro la discriminazione di genere.

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Non esiste luogo

Gabriella Giandelli

© Gabriella Giandelli

 

Ormai si parla con approssimazione, lo fanno tutti anche coloro che si autodefiniscono “esperti”. Lo si fa perché la profondità a molti stanca, perché le argomentazioni sostenute da fonti, dati e letture specifiche sono troppo complesse da masticare e digerire. Lo vedo quotidianamente, anche tra coloro che si definiscono “impegnate”. Mi chiedo come diavolaccio possiamo andare avanti così. Argomento su cui si disserta del più e del meno è la prostituzione, dimenticandosi che non si può essere superficiali quando si parla delle vite di donne, che non sono solo corpi, come qualche maschietto e qualche donna ritengono. Quando ti senti dire che tutto sommato è normale che qualche donna si sacrifichi.. che rispondi a una così? Per la serie, ci si volta dall’altra parte e si va a messa la domenica. Questa è la prassi diffusa. La facciata va salvaguardata. Tutto il resto non conta. Per non parlare del fatto che quei clienti non sono dei fantasmi, ma possono essere i nostri parenti, amici, vicini, figli, mariti ecc.

Se le opinioni della maggior parte delle persone si formano unicamente sulla tv, sui talk che ti forniscono la pappa pronta per riempirti il cervello, è chiaro che i risultati siano pessimi. La vulgata sul provvedimento sulla red zone a Roma (per fortuna rientrato, anche se c’è chi chiede a gran voce una legge nazionale che spazzi via la legge Merlin) è che tale provvedimento nasce con “premurosi” intenti. Controllare e proteggere meglio le ragazze. La SICUREZZA. Poi scopri che un mucchio di gente è soddisfatta perché non vede più le prostitute sotto casa. Sono stata attaccata perché trovavo questa soluzione inaccettabile, frutto di una colpevole ipocrisia e non solo. Mi è stato detto che è più decoroso così, lontano dagli occhi: “Chi vuole aiutare queste donne, lo faccia, ma sinceramente non me ne frega niente, almeno così non si vedono certe scene”, “meglio così, poveri bambini che vivevano con questa roba sotto gli occhi”, “poi sai, gli uomini sono fatti così”, “non puoi combattere una cosa che c’è sempre stata e sempre ci sarà”. E poi, se riaprono i bordelli meglio così, lo Stato incassa. Così la gente sembra più contenta, ma io non lo sono perché spostare il problema fisicamente, non significa risolverlo. Nessuno, né tanto meno una istituzione, può procedere così. Non puoi dire, ti sposto e continua pure a stuprare, a usare le donne. C’è chi mi ha detto che si tratta di una soluzione tampone, poi si vedrà. Ma allora dico: “vai tu per strada a prostituirti e attendi provvedimenti che ti possano tirar fuori da questo inferno”. Questa è connivenza, questo significa dire ai maschietti, “guarda come siamo stati bravi, ora hai una zona in cui sei libero di usare le donne a tuo piacimento, con la nostra protezione e supervisione, sai l’importante è che non lo fai in un luogo frequentato, tra i palazzi”. Poi mi dovete spiegare se le organizzazioni criminali che gestiscono queste ragazze (anche minorenni) accetteranno mai di entrare nella red zone o preferiranno spostare la loro merce altrove, per non avere controlli.

Un paese in cui non si riesce a spiegare che occorre intervenire su una cultura che vede le donne come oggetti di cui servirsi. Un paese che sa ma preferisce non vedere. Un mucchio di cittadini che non legge, non è capace di ascoltare, di capire cosa significhi veramente prostituirsi. Leggete le testimonianze delle sopravvissute, di coloro che lavorano ancora per strada o nei bordelli. Lo so, fa molto male, ma solo così si costruisce rifiuto e repulsione per questi uomini che sono liberi di violentare le donne. Lo stigma deve essere sui clienti e sugli sfruttatori. Solo da questo si costruisce un’opinione pubblica che non si aspetta più free sex zone, ma uno stato che persegue e combatte il fenomeno, perché viola i principali diritti di una persona. Finora si è preferito ignorare e buttare la polvere sotto il tappeto. Per strada, in appartamento, o in mega bordelli, la sostanza non cambia. Questo donne subiscono violenze quotidiane per anni. Spesso pagano con la propria vita. Per cosa? Per un uomo che ha un’idea malata della sessualità? La mia indignazione massima deriva dal fatto che buona parte di queste argomentazioni le ho sentite fare da donne. Allora, mettiamoci in testa che forse sarebbe giunto il momento di dare un bel calcio ai non-uomini che vanno a prostitute, finiamola col difenderli. Non hanno bisogno di essere compresi! Va combattuta la domanda, punto e basta. Rendiamo questa schifezza di abitudine impossibile da praticare. Essere abolizionista non significa essere una utopista. Semplicemente non voltiamo la testa dall’altra parte. Nessun corpo può essere mercificato. Son cose che si insegnano, sin da piccoli. E poi, soprattutto, diamo delle alternative di vita a queste donne. Questo dovrebbe essere uno dei nostri principali obiettivi. Diciamo basta a questa vera e propria schiavitù. Questo mi aspetto, non soluzioni ipocrite e populiste. Non venite a parlarmi di autodeterminazione delle donne, che serve solo a mascherare tutto il resto.

Quando cerchi di portare la conversazione su clienti e papponi, ti rispondono così:

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Non avete idea di quante volte ho dovuto ripetere che in Italia prostituirsi non è reato, lo è invece lo sfruttamento. Per cui, nessuno può affermare che si voglia colpire chi si prostituisce. Girare la frittata è meschino, oltre che indice di ignoranza.

In questo blog ho da sempre privilegiato la scelta accurata e la citazione delle fonti. Un motivo c’è. Le mie opinioni non nascono come dei funghi nella mia testa, ma sono il risultato di letture e approfondimenti. Altrimenti non avrei mai il coraggio di scrivere. Non pretendo di sapere tutto, non mi posso definire una specialista. Non lo sono, ma quanto meno cerco di capire, di trovare risposte, meglio se numerose e diverse. Mi pongo domande e cerco di capire cosa c’è dietro i fenomeni. Per questo spesso propongo articoli che trovo in giro per il mondo, per avere uno sguardo diverso, perché spesso l’ottica nostrana è viziata e piena di lacune volute. Ecco, allora, quando qualcuno sosterrà che leggere non è necessario, sappiate che questa persona non vi ascolterà nemmeno durante la conversazione, perché le basteranno le sue idee e le sue torri mentali.
Documentarsi è fatica, ascoltare idem. Ma qui la si pensa diversamente.
Per cui, oggi vi propongo questa mia traduzione. Per chi ancora pensasse che i bordelli possano essere dei paradisi del sesso per le donne che vi lavorano.

Se ritieni che la depenalizzazione possa rendere la prostituzione sicura, dai un’occhiata ai mega-bordelli in Germania. È il titolo di un articolo pubblicato su New Statesman (qui), firmato Sarah Ditum. Mi piacerebbe che anche da noi ci fossero giornaliste come Sarah. Da noi invece si è sempre troppo preoccupate di bruciarsi la carriera. Dopo i fatti di Roma e della giunta Marino, che aveva proposto una red zone per ghettizzare la prostituzione, e chi spinge per una celere approvazione del Ddl Spilabotte, occorre davvero una mobilitazione collettiva. Non possiamo rimanere indifferenti e lasciar passare questi provvedimenti, che ammettono lo sfruttamento e lo stupro delle donne.

Qui di seguito la mia traduzione dell’articolo di Sarah Ditum.

 

I democratici liberali e i verdi supportano la depenalizzazione della prostituzione – nella speranza di renderli “sicuri”. Ma la Germania ha legalizzato la prostituzione nel 2002 e tuttora non si tratta di un lavoro come un altro.
C’è un luogo giusto per la prostituzione? Nel 2006, Steve Wright ha ucciso 5 donne a Ipswich. Tutte erano tossicodipendenti, e tutte si prostituivano per finanziare la loro dipendenza. Wright era un cliente, come tanti, ovviamente non più violento di tanti uomini che abbordano le prostitute sulle strade di Ipswich. Le donne che temevano per la propria vita, non avevano paura di Wright. “Era sempre una persona tranquilla con cui uscire, girava un paio di volte e poi sceglieva la donna che voleva”, ha detto Tracey Russell al Guardian (la sua amica Annette Nicholls era la quarta vittima di Wright). “Noi li chiamiamo solitamente “ritardati mentali”. Lui era uno di loro. Noi non avremmo mai sospettato di lui”.
A quei tempi, l’opinione pubblica sosteneva che quelle cinque donne erano morte perché si trovavano nel posto sbagliato – e che la penalizzazione della prostituzione le aveva messe lì. In un pezzo pubblicato sul New Statesman (qui), the English Collective of Prostitutes (ECP) ha accusato la legge sulla prostituzione, affermando che “le donne sono sono costrette sulle strade, piuttosto che prostituirsi nei locali, dove è più sicuro lavorare”. Ai tempi ero convinta che con un altro tipo di legislazione quelle cinque donne sarebbero state ancora vive. Tornando indietro ad analizzare quei casi, però, i fatti non si adattano alle tesi dell’ECP. Anche se una delle vittime, Tania Nicol, era stata costretta ad abbandonare il salone di massaggi, finendo per strada, non era stata spinta dai controlli di polizia: secondo uno dei gestori di un salone, era stata allontanata a causa della sua tossicodipendenza.
Le donne assassinate da Wright non erano “sex workers” spinte verso il pericolo da misure illiberali in merito alla loro “professione”; erano donne con vite fragili, caotiche, spinte verso la frontiera della violenza maschile a causa della loro dipendenza. Questa non è stata una scelta. (Russel descrisse al Guardian la prostituzione come qualcosa di “orribile”: “Si impara a cancellare tutto con il passare del tempo, solo perché sei sotto l’effetto di droghe, riesci a pensare ad altro. So che sembra strano, ma si fa. Ci si abitua a ciò, ed è finita in pochi secondi. Speriamo”.) Anche se ci fosse stato un bordello legale a Ipswich, mi sembra improbabile che queste cinque donne sarebbero state lì dentro.
Eppure la tesi secondo cui la depenalizzazione renderà sicura la prostituzione permane – nel Regno Unito è la politica perseguita dai Liberali Democratici e dai Verdi. In cosa consista questa maggiore sicurezza per le donne nella pratica è poco discusso, ma abbiamo un esempio a poche centinaia di chilometri da noi dal quale possiamo imparare. La Germania ha legalizzato la prostituzione nel 2002, seguendo il ragionamento (come Nisha Lilia Diu riporta al Telegraph qui) che questo sia un “lavoro come un altro”. Sex work come lavoro, con contratti, benefits, tutele sul posto di lavoro e nessuno stigma, che i sostenitori della legalizzazione spesso rilevano come il danno peggiore per coloro che si prostituiscono.

L’esperimento tedesco non è andato come previsto: le donne (spesso migranti alla ricerca di veloci guadagni per poi andar via dal paese di nuovo) non hanno registrato benefici, e i bordelli sorti non volevano garantire i contratti o prendersi il rischio delle altre responsabilità. Invece i proprietari dei bordelli sembrano più dei padroni di casa, riscuotono una sorta di tassa/caparra per poter far accedere gli uomini e per far lavorare le donne, ciò significa che una donna inizierà a guadagnare per sé solo dopo il secondo o terzo cliente. E cosa deve fare per ottenere quel denaro? Questa settimana, il documentario The Mega Brothel trasmesso da Channel 4 (qui), è andato a visitare la filiale di Stoccarda della catena Paradise (sì, in Germania ci sono catene di bordelli, come i fast food o i negozi di abbigliamento) e ha intervistato le donne, i clienti e il proprietario del bordello.

Se voi coltivate qualche aspettativa che il Paradise possa rappresentare una scena da Eden della sessualità liberata, sarebbe meglio che vi arrendeste subito. All’inizio, uno dei clienti ha spiegato la sua filosofia agli intervistatori. “Il sesso è un servizio,” ha detto, “Se tu vuoi ottenere del buon sesso, devi pagare abbastanza per esso.” (L’idea che il “buon sesso” possa includere il rispetto, l’intimità o il mutuo consenso non gli passa per la testa: è semplicemente un servizio, una prestazione tra uomo e donna, come se si trattasse della lavanderia o delle pulizie domestiche)  L’intervistatore domanda: “Che effetto ha questo sulle ragazze?” e il cliente sembra sinceramente perplesso. Dopo un attimo di silenzio, ammette: “Non so, non ci ho mai pensato”.
Sembra che un sacco di uomini non pensino a ciò che stanno facendo alle donne che pagano per fare sesso. Quando Josie, che lavora come prostituta al Paradise, mostra il contenuto della sua borsa alle telecamere, offre un inventario triste di dolore – vissuto, previsto ed evitato. “Ho un vibratore.. uno piccolo perché a volte i clienti sono un po’ aggressivi, un po’ rudi”, spiega. Una confezione di medicinali, anestetici genitali: “è come una piccola assicurazione se il dolore diventa troppo forte”, spiega.
Che tipo di “lavoro” può essere questo, per cui le donne devono assumere anestetici per sopportare la penetrazione da parte di uomini che nemmeno pensano che la persona che hanno davanti sia capace di sentimenti? Certo non si tratta del tipo di lavoro per cui le donne sono rispettate per farlo. Michael Beretin, il responsabile del marketing del Paradise, parla delle donne con il massimo disprezzo: “Queste persone sono totalmente fottute, un gruppo di persone senza funzione. Poche di loro hanno ancora un briciolo di anima… è molto triste ma è quello che sono.” (Questa strana contabilità dell’essenza umana mi ricorda una risposta di una tenutaria di un bordello in Nevada a Louis Theroux, nel 2003, contenuta nel documentario Louis and the Brothel: “Una ragazza è brava in ciò che fa se ogni volta lascia un pezzettino della sua anima.”) La teoria secondo cui la stigmatizzazione scomparirebbe con la legittimazione (del lavoro di prostituta, ndr) si rivela pura fantasia, scompare quando si scontra con la realtà dei fatti.
In Germania ci sono ancora magnaccia (i “loverboys” che manipolano le donne nei bordelli e gli rubano i guadagni). Ci sono ancora i trafficanti, che cercano di piazzare i loro prodotti umani nei Paradise. C’è ancora odio nei confronti delle donne. E fondamentalmente, c’è ancora la prassi brutale che le donne vengono scopate per soldi, scopate che fanno male, come se non si sentissero a casa nel proprio corpo. La prostituzione è violenza contro le donne, inflitta dagli uomini. La violenza di essere malmenata con un vibratore, è inferiore alla violenza di essere soffocata, ma anche il fatto di dover fare un confronto è nauseante. Non esiste nessuna “sicurezza” qui – quando i corpi delle donne sono aperti per l’uso maschile, stiamo semplicemente discutendo il confine tra “terrorizzata” e “morta”. La prostituzione non è semplicemente un lavoro con qualche sfortunato, ma inevitabile (maschio, violento) pericolo, che può essere migliorato: è un’istituzione che insiste sulla disumanizzazione delle donne, lo strappar via l’anima per renderle più facili da scopare, da usare, da uccidere. Sotto il cielo o sotto un soffitto, le cose non cambiano. Nessuno sospettava di Steve Wright. Era un cliente abituale. Sono gli “abituali” il problema.

 

Appuntamenti sul tema:

Mercoledì 18 febbraio 2015 – Dalle ore 17,30 alle ore 20,00
Presso la sede della Caritas Ambrosiana in via S. Bernardino 4, Milano

si svolgerà il seminario: “Tratta e prostituzione. Corpi in vendita: il denaro, il grande mediatore” (qui i dettagli).

 

Approfondimenti:

Gli intoccabili diritti del c…o: la Consigliera di Parità (!) del governo difende i quartieri a luci rosse

http://infosullaprostituzione.blogspot.it/2014/05/lesperimento-fallito-della-prostituzione.html

Autodeterminazione è forse il “sogno vecchio e moderno dell’autonomia del sé?” Conversando “a partire da altre a partire da noi”

http://infosullaprostituzione.blogspot.it/2015/02/cosa-accade-nei-paesi-dove-esistono-le.html

http://roma.repubblica.it/cronaca/2015/02/09/news/prostituzione-106916632/?ref=HREC1-4

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Femminismo necessario

© GABRIELLA GIANDELLI

© GABRIELLA GIANDELLI

 

Desidero condividere con voi la traduzione apparsa su Internazionale del 28 novembre 2014, di un articolo di Chimamanda Ngozi Adichie, parte di We should all be feminists (qui).

Nel suo racconto, ci sono passaggi, esperienze che ogni donna, anche se in contesti diversi, in situazioni diverse, con modalità diverse, si è trovata a vivere. In ogni aspetto della vita ci scontriamo con qualche episodio di discriminazione per il nostro essere semplicemente delle donne. Quando c’è da scegliere, nella maggior parte dei casi si tratterà di un uomo. L’esperienza e l’affidabilità sembrano essere due qualità e caratteristiche intrinseche del maschio, mentre le donne devono dimostrarlo. È in questa parola “dimostrazione” che si racchiude il senso di tutto. Dimostrare di essere adeguata in ogni circostanza, in ogni ruolo e in ogni contesto. Dimostrare di essere adeguata significa, in gergo maschile, essere docile, mansueta, ragionevole e seguire i “consigli” degli uomini, non essere troppo dura, sempre un passo indietro all’uomo. Se non sei allineabile vuol dire che non sei adatta. Ti chiedono di piegarti  e di restare sottomessa. La nostra ricerca di un’approvazione e di un’accettazione a volte assume aspetti paradossali, come il caso della donna nubile, narrato da Chimamanda, che quando va a una conferenza si mette un finto anello nuziale al dito per ottenere rispetto dai colleghi. Subiamo questo tipo di condizionamenti ogni giorno, conviviamo immerse in una violenza psicologica profonda e innegabile. Soggette a una infinità di regole di condotta e di ruoli che ci ingabbiano. Il più delle volte ci capita di sentirci come le pedine di una Dama, spostate qua e là da una volontà aliena, che decide per noi, pronta a usarci e a sostituirci all’occorrenza. Mi direte che capita anche agli uomini, ma per le donne assume dimensioni e caratteristiche totalmente peculiari. Questo accade perché spesso non è contemplato che una donna possa avere un punto di vista differente, utile e originale e nel caso dovesse averlo è sempre meglio schiacciarlo, inglobarlo e neutralizzarlo. Non si sa mai. Così, ti accorgi che ciò che dici ha sempre un valore minore. Non vi è mai capitato di notare le reazioni dopo aver affermato qualcosa, che dopo due minuti viene ripetuta da un uomo? L’effetto di solito è che lui ha ragione (con applausi anche da parte delle donne), ha detto una cosa saggia, mentre la medesima cosa detta da te non ha sortito lo stesso effetto. Mi direte che conta il modo in cui dici una cosa. Vi assicuro che non è sempre così. Mi è stato anche detto che il fatto che io sia una donna mi fa “naturalmente partire svantaggiata”, meglio che per me parli un uomo.. sai com’è, invece di pretendere rispetto, in qualsiasi contesto, cercare di cambiare qualche insana abitudine misogina, meglio non insistere e affidarsi alla rappresentanza maschile.

Non si tratta di episodi sporadici, ma di una realtà quotidiana.
Per alcune, accorgersi di certi aspetti ha significato una presa di coscienza di sé, una ricerca e l’emergere di una serie di interrogativi. Questo cammino è il cammino di una femminista, esplicitato o che giace sotto le ceneri. La non esplicitazione del proprio essere femminista risiede in quel fardello che si porta dietro la parola “femminista”. Fardello diffusissimo anche tra le donne. Anche mia madre fa fatica a masticare questa parola, per lei, come per altre donne, piena di connotazioni negative. Questo scritto ci aiuta a riflettere. A volte siamo dure, quando ci esprimiamo, sembra emergere rabbia, come dice Chimamanda, ma questa è mista a passione. Ma come potremmo fare altrimenti per farci sentire? Perché no, non stiamo meglio. Le cose sono migliorate solo leggermente per noi donne, c’è una montagna ancora da scalare. Occorre ribadire mille volte lo stesso concetto per essere ascoltate, ancora altre mille per farci capire e un milione per giungere a un qualche risultato. Opera faticosa ma necessaria. A chi sostiene che ci sono ben altri problemi, più importanti per l’umanità, io rispondo che non siamo soggetti di serie B e che migliori condizioni per le donne, significano un miglioramento per tutti. Essere femminista significa sottolineare le peculiarità delle questioni che riguardano le donne. Negare il dato di genere porta a rendere opachi i problemi, difficilmente riconoscibili e distinguibili. Occorre evidenziare come i problemi delle donne assumono un profilo specifico. Abbiamo anche speranza, la coltiviamo con la nostra azione quotidiana, anche quando restiamo sole nelle nostre micro lotte quotidiane. Anche quando la mancanza di rispetto è una costante, noi non molliamo. Partendo da una diversa educazione dei bambini di oggi, che saranno uomini domani. Scardinando consuetudini e pregiudizi ogni volta che ne abbiamo l’occasione, approfittando di ogni momento per diffondere consapevolezza e coscienza di sé per tutte le donne del mondo. Soprattutto noi femministe non sprechiamo energie preziose in singolar/plural tenzoni. 

 

Okoloma era uno dei miei più cari amici d’infanzia. Abitava nella mia stessa strada e si prendeva cura di me come un fratello grande. Se mi piaceva un ragazzo, chiedevo a Okoloma che ne pensava. Okoloma era spiritoso e intelligente e portava gli stivali da cowboy a punta. È morto nel dicembre del 2005 in un incidente aereo nel sud della Nigeria. Faccio ancora fatica a esprimere a parole cosa ho provato allora. Okoloma era qualcuno con cui potevo discutere, ridere, parlare davvero.
È anche la prima persona che mi ha detto che ero femminista.
Avrò avuto quattordici anni. Eravamo a casa sua e discutevamo, sfoderando entrambi le mezze nozioni apprese dalle nostre letture. Non ricordo di cosa stavamo discutendo. Ma ricordo che mentre snocciolavo i miei argomenti, Okoloma mi guardò e disse: “Sei proprio una femminista”.
Non era un complimento. Lo intuii dal tono, lo stesso con cui uno direbbe: “Quindi difendi il terrorismo”.
Non sapevo l’esatto significato della parola femminista. E non volevo che Okoloma sapesse che non lo sapevo. Così ripresi la discussione facendo finta di niente, e ripromettendomi di cercare la parola nel vocabolario non appena fossi tornata a casa.
Ora andiamo avanti di qualche anno.
Nel 2003 ho scritto un romanzo intitolato L’ibisco viola. Parla di un uomo che, tra le altre cose, picchia la moglie, e che non fa una bella fine. Mentre promuovevo il libro in Nigeria, un giornalista – un signore gentile e benintenzionato – mi ha voluto dare un consiglio (come saprete i nigeriani sono sempre pronti a dare consigli non richiesti).
Mi ha detto che secondo molte persone il mio era un romanzo femminista, e il suo consiglio – parlava scuotendo la testa con aria triste – era di non dichiararmi mai femminista, perché le femministe non trovano marito e sono infelici.
Così ho deciso di dichiararmi femminista felice.
Poi una professoressa universitaria nigeriana mi ha detto che il femminismo non faceva parte della nostra cultura, che il femminismo non era africano, e che mi dichiaravo femminista solo perché ero stata influenzata dai libri occidentali (cosa che mi ha fatto sorridere, perché molte delle mie prime letture sono state decisamente poco femministe: credo di aver letto ogni volume della serie di romanzi rosa Mills & Boon prima dei miei sedici anni. E ogni volta che provo a leggere i cosiddetti classici del femminismo, mi annoio e faccio fatica a finirli).
Detto ciò, dato che il femminismo non era africano, ho deciso di dichiararmi una femminista felice africana.
Poi un/a caro/a amico/a mi ha detto che dichiararmi femminista voleva dire che odiavo gli uomini. Così ho deciso di dichiararmi femminista felice africana che non odia gli uomini. A un certo punto ero diventata una femminista felice africana che non odia gli uomini e che ama mettere il rossetto e i tacchi alti per sé e non per gli uomini.
Naturalmente è anche un po’ uno scherzo, ma dimostra che la parola “femminista” si porta dietro un bagaglio negativo notevole: odi gli uomini, odi i reggiseni, odi la cultura africana, pensi che le donne dovrebbero sempre essere ai posti di comando, non ti trucchi, non ti depili, sei sempre arrabbiata, non hai senso dell’umorismo, non usi il deodorante.
Ora ecco un episodio della mia infanzia: quando ero alle elementari a Nsukka, una città universitaria nel sudest della Nigeria, la mia insegnante ci fece fare un compito all’inizio dell’anno, dicendo che la persona con il voto più alto sarebbe diventata capoclasse. Diventare capoclasse era una cosa importante. Il capoclasse scriveva ogni giorno i nomi degli alunni chiassosi, di per sé un esercizio di potere già abbastanza inebriante, e in più la maestra ti dava una canna da tenere in mano mentre pattugliavi la classe. Naturalmente non avevi il diritto di usare la canna. Ma ai miei occhi di novenne era comunque una prospettiva eccitante. Volevo davvero tanto diventare capoclasse. E presi il voto più alto. Poi, con mia grande sorpresa, la maestra disse che il capoclasse doveva essere un maschio. Si era dimenticata di precisarlo. Lo aveva dato per scontato. Il secondo voto più alto lo aveva preso un bambino. E lui diventò il nuovo capoclasse. La cosa interessante è che il bambino in questione era un’anima mite e per nulla attratta dall’idea di pattugliare la classe con una canna in mano. Mentre io non sognavo altro.
Ma io ero una femmina e lui un maschio, e così fu lui a diventare capoclasse.
Non ho mai dimenticato quell’episodio.
Se facciamo continuamente una cosa, diventa normale. Se vediamo continuamente una cosa, diventa normale. Se solo i maschi diventano capoclasse, a un certo punto finiamo per pensare, anche se inconsciamente, che il capoclasse deve per forza essere un maschio. Se continuiamo a vedere solo uomini a capo delle grandi aziende, comincia a sembrarci naturale che solo gli uomini possano guidare le grandi aziende.
Faccio spesso l’errore di credere che se una cosa e ovvia per me, lo sia per chiunque altro. Prendiamo l’esempio del mio caro amico Louis, un uomo brillante e di sinistra. In passato e capitato che mi dicesse: “Non capisco cosa intendi quando sostieni che le donne vivono una realtà diversa e più difficile. Forse era cosi in passato, ma oggi no. Oggi le donne non hanno problemi”.
Non capivo come non capisse quello che a me sembrava cosi evidente.

 

CHIMAMANDA

 

Amo tornare a casa in Nigeria e trascorrere gran parte del mio tempo a Lagos, il centro urbano e commerciale più grande del paese. A volte, quando la sera l’aria rinfresca e il ritmo della città rallenta, esco in compagnia per andare a mangiare o a bere. Una volta io e Louis siamo usciti con alcuni amici.
C’e una meravigliosa costante a Lagos: dei gruppetti di energici ragazzotti che ciondolano davanti ad alcuni locali e, in modo molto teatrale, ti aiutano a parcheggiare. Lagos e una metropoli di quasi venti milioni di abitanti, con più energia di Londra e più spirito imprenditoriale di New York, cosi le persone escogitano i modi più diversi per guadagnarsi da vivere. Come succede in molte grandi città, parcheggiare la sera può essere un’impresa, e il lavoro di questi ragazzi consiste nel trovarti un posto o, quando il posto c’è, nel guidarti nella manovra gesticolando, e prometterti di tenere d’occhio la macchina fino al tuo ritorno. Quella sera sono stata colpita dalle doti istrioniche dell’uomo che ci aveva trovato il posto e cosi, prima di allontanarmi, ho deciso di dargli una mancia. Ho aperto la borsa, ho infilato la mano per prendere i soldi e li ho dati all’uomo. E lui, quell’uomo grato e felice, ha preso i soldi dalla mia mano, poi si e girato verso Louis e ha detto: “Grazie, signore!”. Louis mi ha guardato, sorpreso, e ha chiesto: “Perché ha ringraziato me? Non sono stato io a dargli la mancia”. Poi ho visto dalla sua espressione che aveva capito. Quell’uomo credeva che se avevo dei soldi dovevano venire da Louis. Perché Louis e un uomo.
Uomini e donne sono diversi. Abbiamo ormoni diversi, organi sessuali diversi e capacita biologiche diverse (le donne possono avere figli, gli uomini no). Gli uomini hanno più testosterone e sono generalmente più forti delle donne. Le donne sono leggermente più numerose degli uomini (il 52 per cento della popolazione mondiale e femminile), ma la maggior parte dei posti di potere e di prestigio e occupata da uomini. Wangari Maathai, attivista keniana e Nobel per la pace morta nel 2011, l’ha sintetizzato perfettamente cosi: più sali e meno donne trovi.
Alle elezioni statunitensi del 2012 si e sentito spesso parlare della legge Lilly Ledbetter. Dietro questo nome pieno di belle allitterazioni c’e il seguente fatto: negli Stati Uniti se un uomo e una donna fanno lo stesso lavoro e hanno le stesse qualifiche, l’uomo sarà pagato di più perché è un uomo.
Quindi gli uomini governano, nel vero senso della parola, il mondo. Questo poteva avere senso mille anni fa, quando gli esseri umani vivevano in un mondo in cui la forza fisica era la qualità più importante per sopravvivere. La persona fisicamente più forte aveva più probabilità di diventare il capo. E gli uomini di solito sono fisicamente più forti (naturalmente esistono molte eccezioni). Oggi viviamo in un mondo profondamente diverso. La persona più qualificata per comandare non è quella più forte. È la più intelligente, la più perspicace, la più creativa, la più innovativa. E non esistono ormoni per queste qualità. Un uomo ha le stesse probabilità di una donna di essere intelligente, innovativo, creativo.

Ci siamo evoluti. Ma le nostre idee sul genere non si sono molto evolute.
Qualche tempo fa sono entrata in uno dei migliori alberghi della Nigeria e una guardia all’ingresso mi ha fermata per farmi delle domande irritanti: come si chiamava la persona che aspettavo? In che stanza stava? Conoscevo questa persona? Potevo dimostrare di essere un’ospite dell’albergo mostrandogli la mia chiave? Tutto questo perché il presupposto automatico è che se una donna nigeriana entra in un albergo da sola, è una lavoratrice del sesso. Una donna nigeriana sola non può assolutamente essere un’ospite che si paga la propria stanza. Se un uomo entra nello stesso albergo, non viene fermato. Si presuppone che sia lì per un motivo legittimo (a proposito, perché questi alberghi non si concentrano sulla domanda di lavoratrici del sesso invece che su quella che può sembrare l’offerta?).
A Lagos ci sono vari locali e bar rispettabili dove non posso andare sola. Se sei una donna sola, non ti fanno entrare e basta. Devi essere accompagnata da un uomo. Ho amici maschi che arrivano davanti a un locale soli e finiscono per entrare a braccetto con una perfetta sconosciuta, perché quella completa sconosciuta, una donna sola, non ha avuto altra scelta che chiedergli aiuto per entrare nel locale.
Ogni volta che entro in un ristorante nigeriano con un uomo, il cameriere mi ignora e saluta l’uomo. I camerieri sono i prodotti di una società che ha insegnato loro che gli uomini sono più importanti delle donne. So che non intendono fare del male, ma un conto è capire una cosa razionalmente, un altro è percepirla attraverso le emozioni. Ogni volta che mi ignorano, mi sento invisibile. Mi sento sconvolta. Vorrei dirgli che sono un essere umano quanto lo è l’uomo, che merito lo stesso riconoscimento. Sono piccole cose, ma a volte sono quelle che fanno più male.
Di recente ho scritto un articolo su cosa vuol dire essere una giovane donna a Lagos. Un conoscente mi ha detto che era un articolo pieno di rabbia, e che non avrei dovuto metterci tanta rabbia. Ma non mi sono affatto pentita. Certo che era pieno di rabbia. Il genere, per come funziona oggi, è una grave ingiustizia. Io sono arrabbiata. Dovremmo tutti essere arrabbiati. La rabbia ha sempre avuto la capacità di provocare cambiamenti positivi. Oltre a provare rabbia ho speranza, perché credo profondamente nella capacità degli esseri umani di migliorare.
Ma torniamo alla rabbia. Ho sentito dal tono della sua voce che il conoscente mi stava mettendo in guardia, e che il suo commento era tanto sull’articolo quanto sul mio carattere. La rabbia, diceva quel tono, non si addice a una donna. Se sei una donna, non ci si aspetta che tu esprima rabbia, perché la rabbia è minacciosa. Ho un’amica, negli Stati Uniti, che ha preso il posto di un dipendente uomo. Il suo predecessore era considerato una persona tosta e ambiziosa. Era un tipo diretto, determinato e particolarmente rigido nella gestione delle presenze dei dipendenti. La mia amica ha preso il suo posto, sapendo di essere altrettanto tosta, ma forse un po’ più flessibile: a volte, mi ha detto, questo dirigente non si rendeva conto che le persone, compresa lei, avevano una famiglia. Qualche settimana dopo l’inizio del nuovo lavoro, la mia amica ha rimproverato un dipendente che aveva falsificato il registro delle presenze, proprio come avrebbe fatto il suo predecessore. A quel punto il dipendente si è rivolto alla direzione lamentandosi del suo modo di fare. Ha detto che era aggressiva e che era difficile lavorare con lei. Altri colleghi gli hanno dato ragione. Uno di loro ha detto che si aspettavano che desse un “tocco femminile” al suo lavoro, ma che non era successo. A nessuno è venuto in mente che stava facendo esattamente la stessa cosa per la quale un uomo era stato apprezzato.
Ho un’altra amica, anche lei statunitense, che ha un lavoro molto ben retribuito nel campo della pubblicità. Nella sua squadra oltre a lei c’è un’altra donna. Un giorno, a una riunione, si è sentita disprezzata dal suo capo, che ha ignorato alcune sue osservazioni per poi fare i complimenti a un uomo che aveva detto quasi la stessa cosa. La mia amica sarebbe voluta intervenire, affrontando il suo capo. Non l’ha fatto. Dopo la riunione è andata in bagno ed è scoppiata a piangere, poi mi ha chiamato per sfogarsi. Non aveva reagito per paura di sembrare aggressiva. Si è tenuta dentro il risentimento.
Quello che mi colpisce – nel suo caso come in quello di molte altre amiche negli Stati Uniti – è quanto sia importante per queste donne sapere di piacere agli altri. Sono cresciute sentendosi dire che piacere è molto importante, e che questo essere piacevoli è una cosa ben precisa. E questa cosa non prevede la possibilità di esprimere rabbia o di essere aggressive o di dissentire con troppa forza.
Passiamo troppo tempo a insegnare alle ragazze a preoccuparsi di cosa pensano i ragazzi. Mentre il contrario non succede. Non insegniamo ai ragazzi a sforzarsi di piacere. Passiamo troppo tempo a dire alle ragazze che non possono essere arrabbiate o aggressive o toste, e come se non bastasse poi ci giriamo dall’altra parte ed elogiamo gli uomini che si comportano nello stesso modo. In tutto il mondo troviamo articoli e libri che spiegano alle donne cosa fare, come essere e come non essere per attirare o soddisfare gli uomini. Mentre ci sono poche guide che spiegano agli uomini come soddisfare le donne.

A Lagos insegno in un laboratorio di scrittura e una delle partecipanti mi ha raccontato che un amico le aveva detto di non dar retta ai miei “discorsi da femminista”, altrimenti avrebbe assorbito delle idee che potevano rovinare il suo matrimonio. Nella nostra società questa minaccia – la fine di un matrimonio, il rischio di non sposarsi mai – è usata molto più facilmente contro una donna che non contro un uomo.

Il genere conta in tutto il mondo. E oggi vorrei che tutti cominciassimo a sognare e a progettare un mondo diverso. Un mondo più giusto. Un mondo di uomini e donne più felici e più fedeli a se stessi. E cominciamo da qui: dobbiamo cambiare quello che insegniamo alle nostre figlie. Dobbiamo anche cambiare quello che insegniamo ai nostri figli.

Facciamo un torto ai maschi educandoli come li educhiamo. Soffochiamo la loro umanità. Gli offriamo una definizione della virilità molto ristretta. La virilità è una gabbia piccola e rigida dentro cui rinchiudiamo i maschi. Gli insegniamo ad aver paura della paura, della debolezza, della vulnerabilità. Gli insegniamo a mascherare chi sono davvero, perché devono essere uomini duri.
Alle scuole medie un ragazzo e una ragazza escono entrambi con la loro paghetta da adolescenti. Ma ci si aspetta che sia il ragazzo a pagare, sempre, per dimostrare la sua virilità (e poi ci chiediamo perché i maschi sono più inclini a rubare soldi ai genitori). Cosa succederebbe se ai maschi e alle femmine insegnassimo a non collegare la virilità ai soldi? Se invece di dare per scontato che “il maschio deve pagare” pensassero “paga chi ha di più”? Naturalmente, grazie al loro vantaggio storico, oggi sono soprattutto gli uomini ad avere di più. Ma se cominciamo a educare i nostri figli in modo diverso, tra cinquant’anni, tra cent’anni, gli uomini non si sentiranno più obbligati a dimostrare la loro virilità con mezzi materiali.
Ma la cosa peggiore che facciamo ai maschi – spingendoli a credere di dover essere duri – è che li rendiamo estremamente fragili. Più un uomo si sente costretto a essere un duro e più la sua autostima sarà fragile. E poi facciamo un torto ben più grave alle femmine, perché gli insegniamo a prendersi cura dell’ego fragile dei maschi.

Insegniamo alle femmine a restringersi, a farsi piccole. Diciamo alle femmine: puoi essere ambiziosa, ma non troppo. Devi puntare ad avere successo, ma non troppo, altrimenti minaccerai l’uomo. Se nella coppia guadagni di più, fai finta che non sia così, soprattutto in pubblico, altrimenti per lui sarà come sentirsi evirato.
E se invece rimettessimo in discussione questa premessa?
Perché il successo di una donna dovrebbe essere una minaccia per l’uomo? Un conoscente nigeriano una volta mi ha chiesto se non avevo paura di intimidire gli uomini. Non era un mio timore, anzi non ci avevo mai pensato, perché un uomo intimidito da me è esattamente il tipo di uomo che non mi interessa.
La domanda mi ha comunque colpito. Poiché sono una donna, ci si aspetta che io aspiri al matrimonio. Ci si aspetta che io faccia delle scelte di vita tenendo sempre a mente che il matrimonio è la cosa più importante.
Il matrimonio può essere una cosa bella, una fonte di gioia, di amore e di sostegno reciproco. Ma perché insegniamo alle femmine a desiderare il matrimonio e non insegniamo la stessa cosa ai maschi? Conosco una donna nigeriana che ha deciso di vendere la sua casa perché non voleva intimidire un uomo che forse aveva intenzione di sposarla. Conosco una donna non sposata, in Nigeria, che quando va alle conferenze si mette una fede perché vuole che i colleghi – dice lei – “le mostrino rispetto”. La cosa triste è che una fede nuziale la farà effettivamente sembrare subito più rispettabile, mentre se non la portasse sarebbe facilmente ignorata, e lei è in un ambiente di lavoro moderno.
Conosco ragazze che subiscono pressioni così forti sul matrimonio – da parte della famiglia, degli amici, perfino al lavoro – che finiscono per fare scelte terribili.
La nostra società insegna a una donna che se a una certa età non è ancora sposata, questo è un grave fallimento personale. Mentre se un uomo è celibe a una certa età è perché non ha ancora fatto la sua scelta.
Le donne possono rifiutare tutto questo. È facile a dirsi. Ma la realtà è più difficile, più complessa. Siamo tutti esseri sociali. Interiorizziamo idee che derivano dalla nostra società. Lo dimostra anche il nostro linguaggio. Per parlare del matrimonio usiamo spesso il linguaggio della proprietà, non quello della collaborazione. Usiamo la parola “rispetto” per indicare ciò che la donna deve mostrare all’uomo, ma meno spesso per indicare il contrario. Uomini e donne sposati diranno: “L’ho fatto per quieto vivere”. Quando lo dice un uomo, di solito si riferisce a qualcosa che non dovrebbe comunque fare.
Una cosa che racconta agli amici in tono orgogliosamente esasperato, considerandola una conferma della sua virilità: “Oh, mia moglie dice che non posso andare per locali tutte le sere, così ora, per quieto vivere, esco solo il fine settimana”.
Quando le donne dicono “l’ho fatto per quieto vivere”, di solito è perché hanno rinunciato a un lavoro, a un traguardo professionale, a un sogno. Insegniamo alle femmine che in un rapporto è più facile che sia la donna ad accettare un compromesso. Insegniamo alle ragazze a considerarsi in competizione tra loro, non per uno stesso lavoro o per uno stesso risultato, ma per l’attenzione degli uomini.
Insegniamo alle ragazze che non possono essere esseri sessuali come i ragazzi. Se abbiamo dei figli, non ci dà fastidio sapere delle loro fidanzate. Ma i fidanzati delle nostre figlie? Per carità! Poi naturalmente quando arriva il momento del matrimonio ci aspettiamo che portino a casa l’uomo perfetto.
Sorvegliamo le ragazze. Le portiamo alle stelle se sono vergini ma non portiamo alle stelle i ragazzi se sono vergini (e quindi mi chiedo quale sia la soluzione, dato che la perdita di verginità di solito coinvolge due persone di genere diverso).
Qualche tempo fa una giovane donna è stata vittima di uno stupro di gruppo in un’università nigeriana, e la reazione di molti giovani nigeriani, sia ragazzi sia ragazze, è stata più o meno questa: sì, lo stupro è una cosa sbagliata, ma cosa ci faceva una ragazza in una stanza da sola con quattro ragazzi?
Cerchiamo, se possibile, di mettere da parte l’orribile disumanità di questa reazione. A questi nigeriani è stato insegnato che la donna è per definizione colpevole.
E gli è stato insegnato ad aspettarsi così poco dagli uomini che la visione dell’uomo come creatura selvaggia priva di autocontrollo per loro è tutto sommato accettabile. Insegniamo alle ragazze a vergognarsi. Incrocia le gambe. Copriti. Le facciamo sentire in colpa per il solo fatto di essere nate femmine. E così le ragazze diventano donne incapaci di dire che provano desiderio. Donne che si trattengono. Che non possono dire quello che pensano davvero. Che hanno fatto della simulazione una forma d’arte. Conosco una donna che odia le faccende domestiche, ma fa finta di amarle perché le è stato insegnato che la “donna da sposare” deve essere – per usare un’espressione nigeriana – “senza pretese”. Poi si è sposata. E la famiglia del marito ha cominciato a lamentarsi di lei perché era cambiata. In realtà non era cambiata. Si era solo stancata di fingere di essere ciò che non era.
Il problema del genere è che prescrive come dovremmo essere invece di riconoscere come siamo. Immaginate quanto saremmo più felici, quanto ci sentiremmo più liberi di essere chi siamo veramente, senza il peso delle aspettative legate al genere. I maschi e le femmine sono indiscutibilmente diversi sul piano biologico, ma la vita in società accentua le differenze. E poi avvia un processo che si auto-rafforza. Prendiamo l’esempio della cucina. Oggi è spesso più facile che siano le donne a fare le faccende di casa: cucinare e pulire. Ma qual è il motivo? È perché le donne nascono con il gene della cucina o perché negli anni la società le ha portate a credere che spetta a loro cucinare? Stavo per rispondere che forse le donne nascono con il gene della cucina, quando mi sono ricordata che quasi tutti i cuochi famosi del mondo – che ricevono il titolo spettacolare di chef – sono uomini. Ricordo quando guardavo mia nonna, una donna brillante, e mi chiedevo cosa sarebbe diventata se da giovane avesse avuto le stesse opportunità di un uomo. Oggi una donna ha più opportunità di quante ne avesse mia nonna ai suoi tempi, e questo perché sono cambiate le leggi e le politiche, che sono molto importanti.
Ma ciò che conta di più è il nostro atteggiamento, la nostra mentalità. E se, educando i nostri figli, ci concentrassimo sulle capacità invece che sul genere? Sugli interessi invece che sul genere?
Conosco una famiglia con un figlio e una figlia. Hanno un anno di differenza e sono tutti e due bravissimi
a scuola. Quando il maschio ha fame, i genitori dicono alla figlia: “Vai a fare dei noodle per tuo fratello”.
Alla ragazza non piace preparare i noodle, ma è una ragazza e deve farlo. E se i genitori avessero insegnato a entrambi figli a cucinare i noodle? Tra l’altro saper cucinare è una competenza pratica molto utile per un ragazzo. Ho sempre trovato assurdo delegare ad altri una cosa fondamentale come la capacità di nutrirsi.
Conosco una donna che ha gli stessi titoli di studio e lo stesso lavoro del marito. Quando tornano a casa, è lei a occuparsi di gran parte delle faccende domestiche, e questo accade spesso, ma la cosa che mi ha colpito è che quando lui cambia il pannolino al bambino lei lo ringrazia. E se invece le sembrasse normale e naturale vedere il marito occuparsi anche lui del figlio? Sto cercando di disimparare molte lezioni sul genere che ho interiorizzato crescendo. Ma a volte mi sento ancora vulnerabile di fronte alle aspettative legate al genere.
La prima volta che ho tenuto una lezione di scrittura in un’università ero preoccupata. Non per la materia: ero ben preparata e insegnavo una cosa che amavo. Ero preoccupata perché non sapevo come vestirmi. Volevo essere presa sul serio. Sapevo che, in quanto donna, avrei automaticamente dovuto dimostrare quanto valevo. E temevo che, sembrando troppo femminile, non sarei stata presa sul serio. Avrei tanto voluto mettere il lucidalabbra e la gonna corta, ma ho preferito non farlo. Ho messo un tailleur molto serio, molto mascolino e molto brutto. La triste verità è che, quando dobbiamo giudicare le apparenze, prendiamo gli uomini come termine di paragone. Molti di noi pensano che meno una donna si mostra femminile e più ha probabilità di essere presa sul serio. Un uomo che va a un incontro di lavoro non si chiede se sarà preso sul serio in base a come è vestito, una donna sì. Vorrei non aver indossato quel brutto tailleur quel giorno. Se avessi avuto la fiducia in me stessa che ho adesso, i miei studenti avrebbero potuto imparare ancora di più. Perché io sarei stata più sicura, più pienamente e autenticamente me stessa. Ho deciso di non scusarmi più per la mia femminilità. E voglio essere rispettata in quanto femmina. Perché me lo merito. Amo la politica, la storia e le belle discussioni.
Mi piacciono le cose femminili. E sono felice che mi piacciano. Mi piacciono i tacchi alti e mi piace provare rossetti nuovi. Mi piace ricevere complimenti da uomini e donne (anche se a essere sincera preferisco riceverli da donne eleganti), ma spesso indosso abiti che gli uomini non apprezzano o non “capiscono”. Li indosso perché mi piacciono e perché mi fanno sentire bene. Lo sguardo maschile influenza solo casualmente le mie scelte di vita. Non è facile parlare di genere. È un argomento che
crea disagio, a volte perfino irritazione. Tanto gli uomini quanto le donne sono restii a parlare di genere, o si affrettano a liquidare il problema. Pensare di cambiare lo status quo è sempre una prospettiva scomoda.
Alcune persone chiedono: “Perché la parola ‘femminista’? Perché non dici semplicemente che credi nei diritti umani, o una cosa del genere?”. Perché non sarebbe onesto. Il femminismo ovviamente fa parte dei diritti umani, ma scegliere di usare un’espressione generica come “diritti umani” vuol dire negare la specificità del problema di genere. Vorrebbe dire far dimenticare che le donne sono state escluse da questi diritti per secoli. Vorrebbe dire negare che il problema di genere colpisce le donne, la condizione dell’essere umano donna, e non gli esseri umani in generale. Per secoli il mondo ha diviso gli esseri umani in due per poi escludere e opprimere uno dei due gruppi. È giusto che la soluzione al problema riconosca questo fatto. Alcuni uomini si sentono minacciati dall’idea del femminismo. Credo sia dovuto all’insicurezza provocata dalla loro educazione, per cui la loro autostima diminuisce se non sono loro a comandare “naturalmente” in quanto uomini.
Altri uomini potrebbero ribattere: “Ok, è interessante, ma io non ragiono così. Io al genere non ci penso proprio”. Forse è vero. E questo fa parte del problema: il fatto che molti uomini non riflettano o non notino il genere. Che molti uomini dicano, come il mio amico Louis, che forse in passato la situazione era peggiore ma che ora è tutto risolto. E che molti uomini non facciano nulla per cambiare la situazione. Se sei un uomo, entri in un ristorante e il cameriere saluta solo te, dovrebbe venirti in mente di chiedergli: “Perché non ha salutato anche lei?”. Gli uomini devono prendere la parola in tutte queste situazioni apparentemente poco gravi. Poiché il genere è un argomento scomodo, ci sono molti modi per evitare di parlarne. Alcune persone tirano fuori la biologia evolutiva e le scimmie, facendo l’esempio delle femmine che si inchinano ai maschi. Ma il fatto è questo: noi non siamo scimmie. Le scimmie vivono sugli alberi e mangiano lombrichi. Noi no. Alcune persone diranno: “Anche gli uomini poveri se la passano male”. Ed è vero.
Ma non è di questo che stiamo parlando. Il genere e la classe sono due cose diverse. Un uomo povero ha comunque i vantaggi di essere uomo, anche se non ha quelli di essere benestante. Parlando con alcuni uomini neri, ho capito molto dei sistemi oppressivi e di quanto non siano riconosciuti dagli altri sistemi oppressivi. Un giorno stavo parlando di genere quando un uomo mi ha detto: “Perché parli di te in quanto donna? E non in quanto essere umano?”. Questo tipo di domanda permette di liquidare la particolare esperienza di una persona. Sono un essere umano, certo, ma ci sono alcune cose che mi succedono perché sono una donna. Tra l’altro quella stessa persona parlava spesso della propria esperienza di uomo nero. E avrei probabilmente dovuto chiedergli: “Perché non parli della tua esperienza di uomo o essere umano? Perché di uomo nero?”.
Qui, dunque, parliamo di genere. Alcune persone diranno: “Oh, ma sono le donne ad avere il vero potere: il bottom power”, cioè il potere del fondoschiena, un modo di dire nigeriano per indicare una donna che usa la propria sessualità per ottenere qualcosa da un uomo. Ma il bottom power non è potere, perché la donna con quel potere non è afatto potente. Ha solo una via di accesso al potere di qualcun altro. E che succede se l’uomo è di cattivo umore o malato o momentaneamente impotente? Alcune persone diranno che la donna si sottomette all’uomo perché fa parte della nostra cultura. Ma la cultura cambia senza sosta. Ho due nipoti gemelle, due belle ragazze di quindici anni. Se fossero nate un secolo fa, sarebbero state portate via e uccise. Perché un secolo fa la cultura igbo considerava la nascita di gemelli un cattivo presagio. Oggi tutti gli igbo trovano quella pratica inconcepibile. A che serve la cultura? In in dei conti lo scopo di una cultura è di assicurare la protezione e la continuità di un popolo. Nella mia famiglia sono la figlia che più si interessa alla nostra storia, alle terre dei nostri antenati, alla nostra tradizione. I miei fratelli non hanno lo stesso interesse. Ma io rimango comunque fuori dalle loro discussioni perché la cultura igbo privilegia gli uomini, e solo i membri maschi della famiglia estesa possono partecipare alle riunioni in cui si prendono le grandi decisioni familiari. Quindi pur essendo la persona che se ne interessa di più, non posso partecipare. Non posso dire ufficialmente la mia. Perché sono una donna. La cultura non fa le persone. Sono le persone che fanno la cultura. Se è vero che la piena umanità delle donne non fa parte della nostra cultura, allora possiamo e dobbiamo far sì che lo diventi.
Penso molto spesso al mio amico Okoloma. Prego perché lui e le altre vittime dell’incidente aereo di Sosoliso riposino in pace. Okoloma sarà sempre ricordato da chi lo ha amato. E aveva ragione quel giorno, tanti anni fa, quando mi diede della femminista. Io sono una femminista. Quando, tanti anni fa, cercai la parola nel vocabolario, trovai: “femminista: persona che crede nell’eguaglianza sociale, politica ed economica dei sessi”. La mia bisnonna, a quanto mi hanno raccontato, era una femminista. Fuggì dalla casa di un uomo che non voleva sposare e sposò l’uomo che aveva scelto. Si oppose, protestò, disse ciò che pensava quando le sembrò che la stessero privando della sua terra perché era una donna. Non conosceva la parola “femminista”. Ma non vuol dire che non lo fosse. Dovremmo essere più numerosi
a rivendicare questa parola. Il miglior esempio di femminismo che conosco è mio fratello Kene, che è anche un ragazzo buono, bello e molto virile. La mia definizione di femminista è questa: un uomo o una donna che dice sì, oggi esiste un problema legato al genere e dobbiamo risolverlo, dobbiamo fare meglio. Tutti noi, donne e uomini, dobbiamo fare meglio.

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C’è posta dall’Europa

Malin Björk

Malin Björk

 

Qualche giorno fa si è tenuta l’iniziativa europea #AllOfUs, di cui avevo parlato in questo post.

Avevo la necessità di approfondire alcune tematiche. Poi, lo sapete, per me le fonti sono importanti, direi fondamentali.

Poiché le notizie dei media nostrani (e non solo) scarseggiano, ho deciso di scrivere un’email a Malin Björk, l’eurodeputata svedese promotrice dell’iniziativa.

Risposta ricevuta in meno di 24 ore 🙂

Thank you Nadine Krysostan and Malin Björk!!

 

Dear Simona,

On behalf of MEP Malin Björk, I would like to thank you for your e-mail and questions.

Please find attached the sources to our documents.

Officially until now we have the five MEP´s, but this will increase and we will keep you updated.

I would also suggest that you contact EPF if you would need more info in this field.

 

Nadine Krysostan, Senior Advocacy Officer

European Parliamentary Forum on Population and Development (EPF)

 

Ecco le fonti:

EPF IB – SRHR in Humanitarian Crises

EPF IB SRHR-the basics_June 2013

 

Fonti da Marie Ramot, Parliamentary Adviser – FEMM & IMCO – Offices of MEPs Marc Tarabella and Marie Arena (12.02.2015):

These facts can be found on WHO topical page on unsafe abortions:

http://www.who.int/reproductivehealth/topics/unsafe_abortion/magnitude/en/

and also on Guttmacher Institute website on abortion:

http://www.guttmacher.org/media/presskits/abortion-WW/statsandfacts.html

 

Aggiornamenti:

Mi è giunta un’altra email. A quanto pare i firmatari sarebbero i seguenti:

– Marie Arena

– Ernest Urtasun

– Sophie Int’Veld

– Malin Björk

– Hugues Bayet

– Sylvie Guillaume

– Iratxe Garcia Perez

– Elena Gentile

– Elly Schlein

– Mary Honeyball

– Inmaculada Rodríguez-Piñero Fernández

– Jonás Fernández

 

Qui un articolo sulla conferenza stampa tenutasi a Roma il 20 febbraio, organizzata da LAIGA e Vita di Donna sulla Relazione Tarabella. Qui una dichiarazione in video di Silvana Agatone e Lisa Canitano (Vita di Donna) che insieme a Giovanna Scassellati spiegano le ragioni delle loro preoccupazioni in vista del voto il prossimo 9 marzo sul testo Tarabella.

 

Per altre news.. stay tuned!

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In sorellanza

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Oggi accolgo e diffondo l’appello di Resistenza Femminista. Tra l’ipotesi di una zona a luci rosse a Roma e DDL Spilabotte, stiamo correndo il serio rischio di tornare indietro di decenni e di considerare la prostituzione un lavoro. In questo blog ho più volte cercato di spiegare perché non lo è e non lo potrà mai essere.

Non occorrono altre parole. Solo #diffondiamo il più possibile e organizziamoci, in sorellanza!

 

Potete aiutarci a diffondere il messaggio al maggior numero di persone e di ONG possibile?
Abbiamo bisogno di supporto internazionale contro due proposte normative orribili e inumane che riguardano l’Italia: l’apertura di un Quartiere a Luci Rosse nella città di Roma e il recente Disegno di Legge “Spilabotte”. Abbiamo scritto un’analisi di questa proposta di legge.
Nello stesso tempo, il Sindaco di Roma Ignazio Marino, col sostegno fornito a un recente progetto normativo del IX municipio di Roma, noto come “progetto Michela” ed elaborato dal presidente Andrea Santoro (PD), che prevede l’apertura di un Quartiere a Luci Rosse nella città di Roma, sta trattando le donne in prostituzione come immondizia, sta aiutando gli sfruttatori, i trafficanti e le mafie a sfruttare donne e ragazze lontano dagli occhi dei rispettabili cittadini. Noi diciamo NO a questa intollerabile violazione dei diritti umani. NO all’ipocrisia dei nostri politici che proteggono il loro diritto di comprare i corpi delle donne. Noi prendiamo posizione per il diritto di tutte le donne e le ragazze sessualmente sfruttate di essere aiutate a uscire dalla prostituzione (lavoro, istruzione, assistenza sanitaria, e la possibilità di vivere nel nostro paese se sono donne immigrate) invece di essere rinchiuse in un ghetto come donne di seconda categoria, che possono essere picchiate, stuprate e uccise senza nessuna conseguenza per sfruttatori e clienti.
La prostituzione non qualcosa con cui si possa essere tolleranti, non è una questione di “decoro” (una parola chiave della proposta di legge), ma è un sistema patriarcale di sfruttamento, è violenza contro le donne. Vi preghiamo di aiutarci a combattere il “progetto Michela”.
Per sostenerci, potete inviare un’e-mail con il vostro nome (e organizzazione) a resistenzafemminista@inventati.org
Vogliamo incontrare presto il Sindaco di Roma. Abbiamo bisogno di quante più firme possibile.Se volete, siete pregate di aggiungere i vostri commenti contro l’apertura di un Quartiere a Luci Rosse a Roma e contro il disegno di legge “Spilabotte”.
Grazie per il vostro sostegno. In sorellanza,
Resistenza Femmista

 

Could you please help us to spread a message to as many people/NGOs as possible?
We need international support against two horribly inhuman italian law proposals: the opening of a Red Light District in the City of Rome and the recent “Spilabotte” law proposal. We have written an analysis of the latest law proposal.
The Mayor of Rome Ignazio Marino supporting a recent local ordinance known as “progetto Michela” developed by Andrea Santoro (PD, Democratic Party) of opening a Red Light District in the City of Rome is treating prostituted women like rubbish, helping pimps, traffickers and mafia to exploit women and girls far from the eyes of the respectable citizens.

We say NO to this unbearable violation of human rights.
NO to the hypocrisy of our politicians who are protecting their rights to buy women’s bodies.
We stand up for the rights of all the sexually exploited women and girls to be helped to exit prostitution (job, education, health care and the possibility of living in our country if they are immigrant women) instead of being trapped in a ghetto as second class women who can be beaten, raped and killed without any consequences for pimps and johns.
Prostitution is not something to be tolerant with, it is not a question of decency (“decoro” in Italian, a key word of the law proposal) it is a patriarchal system of exploitation, it is violence against women.
Please help us to fight against “progetto Michela”. We will meet the mayor of Rome soon. We need as much signatures as possible.

To sign it, please send an email with your name (and organization) to:  resistenzafemminista@inventati.org

Please if you like add your comments against the opening of a Red Light District in Rome and the “Spilabotte” law proposal.
Thank you for all your support.
In sisterhood,
Resistenza Femminista, Italy

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La prostituzione è una forma di violenza

La prostitución no es un trabajo, es violencia

 

Si tratta della battaglia quotidiana di Rosen Hicher, ex prostituta, che oggi lotta proprio per questo: affinché la prostituzione venga riconosciuta come una forma di violenza. Vi propongo la mia traduzione di una intervista concessa a Zulma RamírezSol Camacho Olga L. González (membri del gruppo Aquelarre, qui il loro blog) e pubblicata su El Espectador lo scorso 3 gennaio (qui l’originale). Per riflettere un po’ anche qui in Italia…

 

Rosen Hicher

Rosen Hicher

 

Rosen Hicher è diventata un simbolo in Francia. Dopo aver trascorso più di venti anni nel mondo della prostituzione, dopo una presa di coscienza difficile e graduale, ora combatte apertamente affinché la prostituzione venga considerata una forma di violenza.

Recentemente ha fatto una marcia di 800 km. Perché?
Ho iniziato la mia marcia il 2 settembre, partendo dall’ultimo posto in cui mi sono prostituita e ho visitato tutti i luoghi e le città in cui mi prostituivo, fino ad arrivare al primo posto, al primo cliente, perché è colui che ci trasforma in una prostituta. Dal momento in cui hai avuto un cliente, diventi prostituta per tutta la vita.
Durante i 22 anni passati nella prostituzione, non capivo che venivo violentata, essendo immersa nella violenza, perché ogni cliente è una violenza, gli permettiamo che ci violi. Giunse il momento in cui mi diventò insopportabile sentir dire che come donne “in questo modo abbiamo una forma di sussistenza, per vivere e mangiare”.
La mia marcia è stata anche un modo per aprire il dibattito e affinché anche altre donne si mobilitino e raccontino la verità. Vorrei che altre prostitute ci raccontino le loro esperienze, perché ascoltiamo sempre le stesse voci, le medesime persone che ci dicono che prostituirsi è una buona cosa. Quando si è dentro, non si è coscienti di ciò che si sta vivendo.

Ha trovato sostenitori?
Ho incontrato voci che mi hanno sostenuta, altre prostitute che si univano al mio cammino. Sono certamente rimasta sorpresa di ricevere tante telefonate di donne che mi dicevano “ sì, la prostituzione è una forma di violenza, ma come possiamo fare per uscirne? La soluzione non consiste nel dare diritti alle prostitute, dobbiamo trovare il modo per farle uscire dalla prostituzione.

Se non le crea fastidio, potrebbe raccontarci come è entrata nella prostituzione?
Ho iniziato a marzo del 1988. Avevo appena perso il mio lavoro e guardando gli annunci ho trovato un’offerta di lavoro in un bar, dove mi presentai. Era come rifare qualcosa che avevo sempre vissuto, qualcosa che non mi era totalmente sconosciuto. La prima prostituta che incontrai mi disse: “Sembra che tu abbia fatto questo per tutta la vita”. Perché davo questa impressione? Fino ad allora avevo lavorato nel campo dell’elettronica, ero una moglie e una madre di famiglia! Quella frase mi è risuonata in testa ogni giorno, per 22 anni. Così ho iniziato a scavare nel mio passato e mi sono resa conto che, in effetti, avevo vissuto in quella situazione per tutta la vita: fui violentata a soli 16 anni da un amico di mio padre; vivevo con un padre alcolizzato, è come se fossi stata predisposta a diventare una prostituta fin dalla più tenera età. Quando sono entrata nel mondo della prostituzione, non mi era sconosciuta, dal momento che la violenza era qualcosa che avevo già vissuto e che consideravo come un trattamento naturale e questo è molto grave perché non c’è niente di naturale nel vendersi.

Ritiene che questo sia un percorso comune?
In 22 anni ho incontrato molte prostitute. Quando ho iniziato a contattare le associazioni mi sono resa conto che conoscevano altre donne, e quello che mi hanno raccontato mi ha ricordato ciò che mi dicevano altre compagne sulla loro vita: quasi tutte erano vittime di stupro, di abusi, di violenza domestica e familiare, di violenza e alcolismo dei padri; questo tipo di testimonianze riguarda il 98% delle prostitute.

In che momento ha capito che la prostituzione è una violenza?
Ho sempre saputo che fosse qualcosa di anormale, che prostituirsi non fosse normale. Mi era necessario capire come ero caduta nella prostituzione per poter riconoscere che si trattava davvero di una violenza e così trovare un modo per uscirne. A quei tempi vivevo con un uomo molto violento, vivevo due situazioni di violenza: la violenza domestica e la prostituzione.
In quel periodo era più facile prostituirmi che subire la violenza domestica, inflittami da un uomo (mio marito, ndr) che amavo appassionatamente e che mi aveva chiesto di scegliere (tra lui e la prostituzione, ndr), mi separai da mio marito e questo mi liberò la mente. Questi fatti accaddero nel 1998, dopo 11 anni nella prostituzione. Poi ho lentamente compreso che vivevo ancora nella violenza, ma ho dovuto capire che la violenza quotidiana era la prostituzione e che dovevo darci un taglio. Avevo già eliminato una violenza (mio marito, ndr) e ora mi restava l’altra.

E quanto ci ha messo a farlo?
Dieci anni. È stato tutto un percorso ad ostacoli, perché non solo ho dovuto comprendere come ero finita a prostituirmi, che mi aveva portato a ciò, ma ho anche dovuto affrontare il problema di come avrei potuto vivere senza prostituirmi, senza il denaro della prostituzione. Il denaro diventa una droga, è l’unica cosa che ti spinge a continuare. Mi ci sono voluti circa 6 o 7 anni per capire le ragioni della mia caduta nel mondo della prostituzione e il resto del tempo l’ho impiegato a capire come potevo uscirne. Questo è accaduto all’improvviso. Per me fu come una cura, una presa di coscienza della violenza che vivevo sul mio corpo, che avevo sperimentato nella mia vita di donna, che avevo vissuto nella mia carne… perché non è facile, e a un certo punto fu come se mi si accese una piccola luce che mi fece dire: “Mai più!” e questa fu la decisione definitiva.

Ha mai avuto la sensazione, quando era nella prostituzione, che i rapporti fossero consensuali?
Quando ero dentro, sì ero consenziente, per me era parte della mia libertà, dei diritti di una donna che può disporre come vuole del proprio corpo, erano fatti miei e di nessun altro e non capivo perché volessero proibirmi di prostituirmi.
Una volta fuori, ci rendiamo conto che abbiamo veramente bisogno di protezione. Abbiamo bisogno di essere informate e protette, dobbiamo arrivare a capire che si tratta di un abuso grave, sono violenze. Una volta fuori, accade quella che io chiamo una rivelazione.

In che senso si sentiva libera?
Era il mio corpo, e il mio corpo faceva ciò che voleva. Ma una cosa è certa: se stavo facendo quello che volevo con il mio corpo, gli uomini che venivano a comprarmi non avrebbero dovuto fare quello che volevano con il mio corpo. Ciò può essere una libertà per una donna, ma gli uomini non dovrebbero avere la libertà di acquistare il corpo di una donna.

Ritiene sia possibile uscire dalla prostituzione?
Io ce l’ho fatta, quindi è possibile. Si tratta di un processo lungo, dobbiamo responsabilizzare le donne per farcela. Questo rappresenta molto per molte donne. Esse devono essere in grado di essere consapevoli del fatto che, quando sono entrate nella prostituzione erano state vittime di violenza, in modo da curare prima queste violenze e poi le altre, per guarire dalla violenza contro le donne che deriva dalla pratica della prostituzione.

Cosa può fare lo Stato?
Lo Stato può fare molto, iniziando a proibire l’acquisto: la donna non è in vendita, un corpo non si può comprare; devono essere messe in campo una serie di risorse, di formazione, di sostegno e di aiuto. È essenziale che gli operatori siano consapevoli che la donna prostituta è vittima in ogni senso della parola “violenza”, che prima deve avere il tempo per riposarsi, che ha bisogno di un periodo, io pensoche ne ha bisogno, penso che abbia bisogno di stare da sola per un po’. E poi consentire a queste donne di vivere in un modo diverso, dotarle di mezzi per vivere, perché uscire dalla prostituzione genera molta paura.

Ha ricevuto aiuto da parte delle associazioni?
Mi sono informata in molte associazioni e dopo ho fatto un grosso lavoro personale per capire le mie ragioni e per riflettere su come avrei potuto uscirne e per sapere come avrei potuto sopravvivere dopo. E poi è successo tutto in tempi relativamente brevi, da un giorno all’altro.

Ora le leggiamo alcune frasi di una femminista colombiana, Mar Candela. Lei sostiene: “La prostituzione è un lavoro dignitoso come qualsiasi altro”.

Cosa ne pensa?
Per prima cosa non si tratta di un lavoro. Nella prostituzione non esiste alcuna dignità, nessuno ci rispetta, tutte nascondiamo la nostra attività, perché non è una cosa degna, non sarà mai un lavoro.

Candela afferma anche che: “La prostituzione è l’esercizio della nostra sessualità”.

L’esercizio della nostra sessualità? Intende dire quella degli uomini? La prostituta non ha sessualità, la prostituta subisce. Lei accetta solo perché ci sono i soldi, altrimenti non lo farebbe.

Mar Candela sostiene che non esiste un collegamento tra la tratta di esseri umani e la prostituzione.

C’è un gran numero di persone vittime di tratta. Per questo io spesso dico: se importano donne dall’estero è perché c’è domanda. E se c’è domanda è perché la prostituzione è ancora consentita. Il giorno in cui non ci sarà più domanda, cesserà la vendita e l’importazione di donne. Un cliente vuole oggi una donna bianca, domani una di colore, dopo una asiatica e per rinnovare l’offerta devono andare a cercare altre donne sempre più lontano. E queste donne sono spesso costrette a subire promesse del tipo: “Diventerai una modella, avrai un lavoro come cameriera, ecc.”, e invece diventano prostitute.

Mar Candela, inoltre sostiene che “Oggi le puttane decidono!”

Devo dire una cosa: la prostituzione oggi è identica a quella di ieri. Siamo qui per soddisfare i desideri sessuali dei nostri uomini. Quando un cliente arriva con un biglietto da 100 euro e ci chiede di essere sodomizzate, sesso orale o di picchiarci, accettiamo, ma non lo vorremmo. Non si sceglie il cliente, sono loro che scelgono noi. Non ho mai scelto i miei clienti, è sempre stato il cliente a scegliermi, è sempre lui che sceglie e che chiede. Non si può dire “no”, perché se dici “no”, non hai soldi. Se dicessimo no a qualcuno, dovremmo dire no a tutti. Perché, infatti, nel momento in cui abbiamo detto no a un cliente, è perché abbiamo iniziato a capire che ciò che chiede non è normale… e che tutte le cose che ci chiedono i clienti sono anormali! Ci sono passata anche io, ho incominciato a dire no a qualcuno, ci ho messo 2 o 3 anni, ma dopo tre anni ho incominciato a dire no a tutti. È il processo di presa di coscienza della situazione di dominio in cui si vive, ed è l’inizio della guarigione.

In Europa, il 50% delle donne che si prostituiscono sono immigrate, conosci qualcosa a proposito di queste donne?
Ho iniziato a prostituirmi nel 1988. A quei tempi l’80% delle prostitute era francese, il 20% immigrate. Quando ho lasciato la prostituzione nel 2009, il 90% delle donne erano straniere e il 10% di francesi. Molte donne arrivano in Francia dalla Nigeria. Donne che non hanno mai avuto un’identità, bambine nate senza identità.
Ci sono un sacco di giovani donne dell’Est che rimangono nel mondo della prostituzione perché gli hanno rapito i figli o perché hanno minacciato le loro famiglie, perché gli hanno tolto i documenti e li hanno sostituiti con documenti falsi, questo accade in Francia e dappertutto. Nonostante ciò si condanna la prostituta, anziché aiutarla. Nel mio paese si dice che sia una vittima, però è una vittima che viene condannata.

 

 

Deseo expresar mi solidaridad con Aquelarre en Colombia, sobre su campaña para explicar porqué el proyecto de ley 79 es nocivo para las mujeres y para la sociedad.

Simona

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Idee di donne nella crisi

trottola-del-tocati

 

Qualche giorno fa avevo letto un articolo di Giovanna Badalassi sul mensile Noi Donne (qui), in merito a welfare, donne e lavoro‬.
Il testo ci sprona a leggere il reale contingente, i dati, i fenomeni, senza necessariamente passare per soluzioni e chiavi di lettura del passato, da non rinnegare a priori, ma da re-inventare. È un invito a cambiare l’approccio nelle politiche, per un nuovo saper fare politica. Solo un lavoro a 360° che includa diverse chiavi di lettura, ci può aiutare a leggere la complessità dei fenomeni sociali ed economici contemporanei.

“Lo sviluppo degli avvenimenti impone che le donne si impegnino su politiche a tutto campo, che ragionino anche di economia, sviluppo economico, di innovazione, politiche industriali, ambiente, contribuendo alla ricostruzione del benessere per tutti.”

L’impegno a cui siamo chiamate noi donne è un’attività che non collima con la semplice “presa del potere” fine a se stesso, bensì implica la messa in campo capacità nuove e sgombre da questioni di accaparramento di posizioni istituzionali e di potere. Ciò che è urgente è ben altro. È il nostro saper mettere in rete le idee e le soluzioni innovative e il nostro saper far rete.

“Capire, ad esempio, la portata e l’importanza di leggere l’economia e i conti pubblici in ottica di genere, avere le competenze per farlo ed elaborare proposte e politiche conseguenti. Saper leggere in ottica di genere un piano regolatore comunale, l’impatto occupazionale dei piani delle grandi opere e dei lavori pubblici, le scelte di politica fiscale, industriale e ambientale”.

Palese che non ci siano più risorse da investire e che non si possa contare su aumenti di spesa. Forse occorrerebbe ripensare a strategie e soluzioni, che non vadano a discriminare o a penalizzare nessuno, ma che sappiano guardare in faccia la realtà.

“il dato tutto italiano è l’abbandono del lavoro delle mamme alla nascita del primo figlio: lo fa quasi un terzo delle donne occupate, secondo i dati diffusi dall’Istat e dall’Isfol”.

Questo un punto cruciale, che ripeto non viene risolto con più nidi (questo è solo un pannicello caldo adoperato dai politici quando fanno i loro monologhi e show elettorali), ma con una seria e democratica (non solo per i soliti fortunati) flessibilità lavorativa, declinata al maschile e al femminile. Una rivoluzione culturale e mentale nel rapporto tra lavoratori e lavoratrici e datori di lavoro. Finora si è contato troppo e quasi esclusivamente su nonni e tate. Ma essere genitori dovrebbe essere una cosa diversa.
Se il lavoro, come mi ha detto di recente una mia coetanea, è come l’aria, forse sarebbe anche giunto il momento di rendere quest’aria più respirabile, per uomini e donne, per non trovarci impaludate sempre nel medesimo “equivoco” (per non dire gabbia) per cui sono le donne che si devono assumere da sole i compiti di gestione di casa, famiglia e figli. Forse sarebbe anche giunto il momento di ragionare su quale sia il giusto equilibrio tra lavoro e vita privata, e di cosa ne rimane di quest’ultima. Noi donne, al pari degli uomini, abbiamo finito con l’investire tutto il nostro essere nel lavoro, dandogli un valore smisurato e inconsapevolmente ne siamo divenuti strumenti, defraudati del senso della misura. Pensavamo di ricavare dei benefici immediati e tangibili dalla nostra partecipazione al lavoro. Forse per un periodo  stato davvero così. Oggi possiamo affermare che è stato totalmente un successo? E se non lo è stato, cosa non ha girato nel verso giusto?
Se poi il lavoro scarseggia, non si può parlare e martellare a vanvera, facendo passare le donne come un mucchio di svogliate scansafatiche. Nessun incentivo tiene se c’è poco lavoro e i servizi sono rari o inesistenti. Il non lavoro ha molti perché, forse chi ha il compito di fare le leggi dovrebbe informarsi a riguardo, senza procedere per pregiudizi.
Infine, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare dei decreti attuativi del Jobs Act (qui un articolo su La Voce):

“Se nel complesso sono indicazioni positive a sostegno della maternità e del lavoro delle donne, restano aperti due aspetti. Il primo è che per ora si tratta di una delega e solo i decreti attuativi stabiliranno se gli obiettivi si tradurranno in prassi. Il secondo riguarda la clausola secondo cui ogni intervento dovrà essere realizzato senza ulteriori spese a carico dello Stato. Il rischio è che per quanto significative o condivisibili possano essere le politiche, la loro realizzazione dipenderà dall’effettivo reperimento di risorse economiche. E finora il nostro paese non è riuscito a considerare queste misure come prioritarie per lo sviluppo, e quindi in cima all’agenda politica. Un cambio di passo è quanto mai necessario”.

Abbiamo sotto i nostri occhi il risultato drammatico di un sistema lavoro-vita privata arcaico, immobile, granitico come quello che ci riporta Maria Rossi (qui), nella sua analisi del lavoro Dieci domande su un mercato del lavoro in crisi, di Emilio Reyneri e Federica Pintaldi. Un sistema lavorativo che premia il maschio, che attraverso il matrimonio riesce a garantirsi una serie di “servizi” di assistenza e di cura che gli permettono di concentrarsi sul lavoro e di essere anche più appetibile sulla piazza lavorativa. C’è una pericolosa frattura che ci spinge ancora verso il basso: necessità di tempo parziale per far fronte ai carichi familiari e salari che discriminano per genere. Se poi sei precaria, sei spacciata.
Cosa è stato fatto per realizzare i principi contenuti nella Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (1979, qui il testo), ad opera dell’Onu? Ha la mia stessa età e i suoi auspici sono ancora quasi tutti rimasti sulla carta. La realtà ha subito per alcuni aspetti dei drammatici passi indietro.
Nel testo di Maria Rossi leggiamo:

“In Italia il tempo consacrato dalle donne al lavoro familiare è il più alto in assoluto nell’Unione Europea e quello che vi dedicano gli uomini il più basso (dati Eurostat del 2006). Allo stesso tempo il tasso di occupazione femminile è il meno elevato . I due dati sono strettamente correlati, naturalmente. Altrettanto evidente appare la connessione tra l’assetto familistico del mercato del lavoro e quello del welfare, impostato sulla rigida divisione dei ruoli di genere. Gli uomini provvedono al mantenimento della famiglia, le donne sono delegate (e relegate) allo svolgimento del lavoro domestico e di cura. A loro continua ad essere affidata l’assistenza degli anziani non autosufficienti, degli infermi e dei bambini, considerata la drammatica carenza dei servizi pubblici. E’ necessario pertanto destrutturare l’intero sistema imperniato sul principio della divisione sessuale del lavoro se si vuole riequilibrare il rapporto fra uomini e donne.”

Vorrei qui commentare le proposte formulate da Maria Rossi nel suo post.

Punto 1. “Per evitare la discriminazione delle donne, dei migranti e dei giovani sul mercato del lavoro, si dovrebbe ripristinare l’obbligo della richiesta numerica nelle assunzioni, abrogato nel 1987 e sostituito dalla chiamata nominativa. Il sistema è stato poi completamente liberalizzato nel 1996. I datori di lavoro, che intendono assumere personale, dovrebbero cioè rivolgersi obbligatoriamente ai Centri per l’impiego e presentare una “richiesta di avviamento al lavoro”, nella quale andrebbero inseriti soltanto dati relativi al numero dei dipendenti richiesti e alla qualifica che devono possedere. Gli aspiranti lavoratori verrebbero inclusi in un’unica graduatoria, non differenziata, cioè, per genere e per nazionalità. Il sistema violerebbe le norme sulla libera concorrenza? Embé! Infrangiamole! Il principio della non discriminazione è più importante del rispetto delle regole del mercato”.

Sarebbe auspicabile quanto scrivi, soprattutto andrebbe assicurata la trasparenza nel mercato del lavoro, un reale funzionamento dei centri per l’impiego, a cui si è privilegiata una gestione privatistica della collocazione lavorativa. In un contesto di lavoro scarso, si è affermato un accesso al lavoro sempre più per reti e sulla base di relazioni personali. Questa è un’abitudine storica italiana, ma con la contrazione dei posti disponibili, la situazione si è aggravata. I risultati non sono sempre stati a vantaggio di una migliore qualità del lavoro, anzi. Per non parlare poi di certi metodi di reclutamento di personale che hanno interessato anche il pubblico. Forse la prima richiesta dovrebbe essere maggior trasparenza e un taglio drastico ai metodi di reclutamento familistico.

Punto 2. “Si dovrebbe procedere alla riduzione massiccia dell’orario di lavoro a parità di salario. Ciò consentirebbe di ridistribuire su una più ampia platea di soggetti gli impieghi disponibili. Questa misura dovrebbe essere affiancata dalla promozione di un processo di socializzazione e da un mutamento culturale tale da produrre lo smantellamento dei ruoli di genere. Gli uomini sarebbero così indotti a svolgere le stesse mansioni domestiche e di cura delle donne. La riduzione dell’orario di lavoro si tradurrebbe pertanto in una più equa ripartizione non solo degli impieghi produttivi, ma anche di quelli riproduttivi e in una più ampia disponibilità di tempo libero, soprattutto per le donne. La produzione dovrebbe essere cioè riprogettata e adattata a lavoratori e a lavoratrici che si assumono in ugual misura responsabilità di cura”.

Sarebbe auspicabile, sarebbe un’inversione culturale rivoluzionaria. Penso che questo potrebbe accadere solo in un sistema con una forte dirigenza statale, in un contesto statale che ri-assuma su di sé un forte ruolo di indirizzo economico, esattamente il contrario della deriva liberale in atto da qualche decennio. Un differente utilizzo del tempo lavorativo, ormai dilatato in modo abnorme (spesso senza ricavarne benefici in termini remunerativi), lasciando spazio al tempo per la vita, consentirebbe di sviluppare attività sociali, comunitarie e partecipative, indispensabili per sfuggire a un’alienazione da lavoro che oggi ancora esiste, solo assume forme più subdole e meno riconoscibili. Saremmo dei cittadini/e meno passivi/e.

Punto 3. “Si dovrebbe diminuire in modo significativo anche l’età pensionabile”.

Questo prevederebbe l’approntamento di una copertura di spesa, attuabile solo se per esempio si intraprendesse una seria lotta all’evasione fiscale. Non mi sembra che ultimamente si vada in questa direzione, purtroppo. C’è da fare un bel lavoro “a monte”.

Punto 4. “L’intera normativa sul lavoro che in questi due decenni ha introdotto la precarietà ed ha sottratto diritti alle lavoratrici e ai lavoratori dovrebbe essere abrogata, a partire dalla legge Poletti che ha sancito la totale liberalizzazione del contratto a termine e dal Jobs Act (legge delega 10 dicembre 2014 n. 183 e relativi decreti attuativi sui licenziamenti).

Si dovrebbe introdurre un reddito di esistenza universale e incondizionato, esteso agli immigrati. La sua erogazione potrebbe configurarsi come un potenziale contropotere, che incrinerebbe le condizioni di forte subordinazione dei precari. Garantire infatti un reddito stabile e continuativo a prescindere dalla prestazione lavorativa significherebbe ridurre il grado di ricattabilità dei singoli lavoratori/trici e incrementare il loro potere contrattuale. Significherebbe anche affermare il diritto di scegliere l’attività lavorativa e di riappropriarsi della quota di ricchezza sociale che si è contribuito a creare per il fatto stesso di esistere e di esercitare costantemente le proprie capacità di apprendimento e come remunerazione del lavoro produttivo di valori d’uso. La disponibilità di un reddito costituirebbe, soprattutto, uno strumento importante per l’esercizio dell’autodeterminazione, in particolare per le donne, in maggioranza prive di un’occupazione retribuita, consentirebbe alle vittime di sfuggire più agevolmente alla violenza dei partner e alle mogli prive di lavoro di separarsi più facilmente dai compagni nel caso in cui il matrimonio o la convivenza fossero diventati fonte di infelicità.

Si dovrebbe però scongiurare il fatto che l’introduzione di tale misura si risolva in una rinuncia da parte delle donne ad esercitare un’attività extradomestica che ritengono gratificante per evitare la fatica del doppio lavoro e in un disimpegno ancora maggiore degli uomini nello svolgimento delle incombenze domestiche e nell’assistenza a bambini, anziani, infermi. Ne deriverebbe il rafforzamento dei tradizionali ruoli di genere e, forse, un ulteriore ridimensionamento dello stato sociale.

Si dovrebbe soprattutto evitare che i datori di lavoro accentuino la loro predilezione per gli uomini nelle assunzioni, consolidando e irrobustendo la struttura familistica e patriarcale dell’organizzazione produttiva.

Per sfuggire a queste conseguenze è fondamentale, a mio avviso, affiancare a questo provvedimento la riduzione dell’orario di lavoro e innescare un processo di decostruzione dei generi e delle funzioni ad essi attribuite”.

Ripeto quanto ho detto al punto 2. Condivido le tue considerazioni su reddito di esistenza universale e incondizionato. Sarebbe da invertire l’attuale sistema che vede lo stato ritirarsi, disimpegnarsi, legittimare una gestione privata di molti aspetti delle nostre vite, in un sistema lavoro che decentra le regole e i diritti, che privilegia la contrattazione decentrata, a livello di fabbrica o peggio ancora ad personam, a discapito di quella centralizzata. In questo contesto, si comprende quanto siano diventate aleatorie le regole all’interno del mercato del lavoro. La tendenza attuale va verso una pericolosa nebulizzazione dei diritti.

Punto 5. “Si potrebbe eventualmente prendere in considerazione la creazione diretta da parte dello Stato o dell’Unione Europea di nuova occupazione qualificata, socialmente utile ed ecocompatibile e si dovrebbe procedere alla riconversione secondo tali principi dell’intera economia”.

Concordo, ci dovrebbe essere un nuovo impegno dal centro.

Punto 6. “Si dovrebbe introdurre un salario minimo europeo e pretendere il superamento del blocco dei contratti nella pubblica amministrazione contro il quale i sindacati hanno già depositato un ricorso al Tribunale di Roma, sollevando la questione di legittimità costituzionale”.

C’è bisogno di più Europa, ma realmente “socialista” e unitaria.

Punto 7. “Ritengo poi indispensabile estendere e riconfigurare il welfare state, o meglio, organizzare un commonfare imperniato sulla cooperazione sociale nella gestione dei beni comuni”.

Concordo. Qui la mia opinione sul commonfare.

Punto 8. “Ciò comporta preliminarmente l’abrogazione della norma sul pareggio di bilancio inserita nella Costituzione dal Parlamento italiano nel 2012 e la disapplicazione dei trattati europei di impianto neoliberista, a partire da quello sulla stabilità, coordinamento e governance nell’Unione economica e monetaria, noto come fiscal compact, che prevede fra l’altro l’obbligo per i Paesi con un debito pubblico superiore al 60% del PIL di rientrare entro tale soglia nel giro di 20 anni ad un ritmo pari ad un ventesimo dell’eccedenza in ciascuna annualità e il dovere di avere un deficit pubblico strutturale non superiore allo 0,5% del PIL. Si dovrebbero altresì modificare le disposizioni che regolamentano il funzionamento della Banca d’Italia, obbligandola ad acquistare i titoli di Stato rimasti invenduti. Ne deriverebbe il calo degli interessi su BOT e CCT e, dunque, la riduzione del debito pubblico e la salvaguardia dell’Italia da ulteriori manovre speculative. In assenza di questi provvedimenti, assisteremo – temo – ad un’ulteriore contrazione della spesa pubblica e all’accelerazione del processo di privatizzazione e di smantellamento del welfare state. Altro che espansione!
Si dovrebbe poi procedere alla ristrutturazione del debito pubblico e proclamare il diritto all’insolvenza”.

Speriamo nelle capacità del nuovo governo greco per trovare la chiave di un cambiamento di ottica e di mentalità.

Punto 9. “Si potrebbe, come proposto dagli intellettuali neo-operaisti, istituire una “moneta del comune” intesa come riconoscimento e remunerazione del lavoro vivo incorporato nelle attività di riproduzione e come potere d’acquisto da spendere nei servizi sociali (sanità, istruzione, cura…, ma anche trasporti) offerti all’interno di un circuito di valorizzazione consacrato alla produzione di valori d’uso e non di scambio.

Su questo punto non saprei come procedere per una concreta attuazione. Ma penso che ci voglia un cambiamento nella nostra percezione del lavoro, dei beni e dei servizi.

Punto 10. “Le politiche di welfare dovrebbero includere anche l’estensione della durata del congedo di paternità per nascita di un figlio. Il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro dovrebbe essere di pari durata di quello di maternità o, almeno, di tre mesi da fruire dopo il parto della partner. Il padre del bambino, proprio come la madre, dovrebbe percepire un’indennità sostitutiva di importo pari a quello della retribuzione. Il congedo parentale (facoltativo) dovrebbe essere fruito da entrambi i partner e comportare la corresponsione di un’indennità pari o di poco inferiore all’importo della retribuzione. Finché verrà retribuito al 30% del salario, ne fruiranno solo le madri, che, com’è noto, percepiscono di solito una remunerazione inferiore a quella dei compagni”.

Su questo aspetto, tra gli altri, si concentra la relazione Tarabella.

Punto 11 “Si potrebbero sperimentare forme di socializzazione del lavoro domestico e di cura che coinvolgano anche gli uomini e nuove modalità abitative che incentivino la cooperazione nell’attività di riproduzione”.

Da attuare senza che vi sia sopraffazione da parte di coloro che hanno magari uno status economico-sociale più elevato. Ho ascoltato un’esperienza di questo tipo, con più nuclei familiari uniti in una specie di comune (in questo caso di stampo cattolico), ma mi è sembrato che alcuni lavori e oneri di cura e di assistenza ricadessero in qualche modo su alcune famiglie in particolare. Dobbiamo evitare che si creino fenomeni di servitù volontaria.
Inoltre si dovrebbe passare da una mentalità individualistica a una maggiormente collettiva.

Punto 12. “Si dovrebbero promuovere forme di autorganizzazione e di autogestione”.

Un esempio: la Ri-Maflow.

Punto 13. “Si dovrebbe abrogare la legge Bossi-Fini che, collegando la concessione del permesso di soggiorno al possesso di un contratto di lavoro, obbliga gli stranieri ad accettare qualsiasi impiego ed impone loro l’assoggettamento alle peggiori forme di sfruttamento. Si dovrebbe applicare il principio della libera circolazione di tutti in qualsiasi parte del mondo e quello dello ius soli per i figli degli immigrati nati nel nostro Paese”.

Condivido!

Punto 14. “I titoli di studio conseguiti dai migranti nel loro Stato dovrebbero essere riconosciuti in Italia”.

Condivido!

Punto 15. Agli immigrati dovrebbe essere garantito il godimento di tutti i diritti sociali assicurati ai cittadini italiani.

Condivido!
Per gli ultimi tre punti, in primo luogo dovremmo porre fine alle barriere, alle propagande che contrappongono Noi/Loro, a una trincea a difesa di separazioni assolutamente indegne di un paese e di una Europa civile e democratica.

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Figli dell’epoca

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Per riflettere su cosa sia “politico”, ho scelto questa poesia di Wisława Szymborska.

 

Siamo figli dell’epoca,

l’epoca è politica.

 

Tutte le tue, nostre, vostre

faccende diurne, notturne

sono faccende politiche.

 

Che ti piaccia o no,

i tuoi geni hanno un passato politico,

la tua pelle una sfumatura politica,

i tuoi occhi un aspetto politico.

 

Ciò di cui parli ha una risonanza,

ciò di cui taci ha una valenza

in un modo o nell’altro politica.

 

Perfino per campi, per boschi

fai passi politici

su uno sfondo politico.

 

Anche le poesie apolitiche sono politiche,

e in alto brilla la luna,

cosa non più lunare.

Essere o non essere, questo è il problema.

Quale problema, rispondi sul tema.

Problema politico.

 

Non devi neppure essere una creatura umana

per acquistare un significato politico.

Basta che tu sia petrolio,

mangime arricchito o materiale riciclabile.

 

O anche tavolo delle trattative, sulla cui forma

si è disputato per mesi:

se negoziare sulla vita e la morte

intorno a uno rotondo o quadrato.

 

Intanto la gente moriva,

gli animali crepavano,

le case bruciavano

e i campi inselvatichivano

come in epoche remote

e meno politiche.

 

L’immersione nel politico a volte ci impedisce di vederne i contorni, che sono immensi, indefinibili, ma che a volte ci sfuggono, ne perdiamo memoria e ce ne distacchiamo. Il politico è una dimensione di vita e di azione, che non ammette ragionamenti a compartimenti stagni; ma tutto si interseca e assume valenze diverse a seconda degli incroci. Oggi in molti confondono la Politica con il politico, la prima associata a una sorta di ragnatela relazionale e elettorale che tutto ingloba, che ogni discorso cancella e schiaccia. Chi intende la dimensione politica come una sorta di eterno accordo sottobanco, di scambi più o meno vantaggiosi, occupa tutto il suo tempo nel soppesare questi fattori, che non danno sostanza, ma allontanano dall’obiettivo dell’agire politico, che non ha l’effetto di un boomerang a proprio vantaggio, ma deve volare alto come un aquilone e possibilmente tentare di abbracciare tutta la collettività. Politico non è ragionare sul tondo o sul quadrato, ma saper guardare attraverso un filtro più ampio la realtà contingente, amplificando e proiettando nel futuro il nostro ragionamento e il nostro sforzo quotidiano. Essere colmi di politico vuol dire avere voglia di mettersi al servizio della collettività, leggere i fatti, parlare con gli altri empaticamente, relazionarsi ma non certo nella perenne aspirazione alla vittoria. L’obiettivo non è la vittoria, elettorale o contingente sull’avversario, ma quello che è il tuo progetto politico. Per non assistere ancora al mondo che va in frantumi e brucia per l’indifferenza e l’egoismo (dis)-umano.

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Femminismo e Corano: la lotta delle donne musulmane

Feminismo islámico fonte Web Islam

Feminismo islámico fonte Web Islam

 

Mi rendo conto che sto entrando in un argomento complesso e molto delicato, ma vorrei sottoporre alla vostra attenzione un’analisi di Ana María Gutiérrez Ibacache, apparsa su Politica Critica a marzo 2014 (qui). Mi è sembrato interessante tradurlo, perché è ricco di spunti e di riferimenti bibliografici su un tema semi-sconosciuto. Si tratta di un approfondimento necessario e importante se vogliamo ragionare con una mente sgombra da pregiudizi e avvicinarci a comprendere le mille sfaccettature di un mondo culturale assai complesso.

 

Nell’immaginario comune, “occidentale” se vogliamo collocarci, le donne nel mondo islamico sono considerate come limitate socialmente a causa della loro religione e della loro cultura, che le confinerebbero in uno spazio principalmente privato. Ma per alcune di esse potrebbe essere invece un espediente per partecipare, lottare e integrarsi in un contesto pubblico. Vediamo come.

Il ruolo svolto dalle donne nell’islam è controverso, e questo avviene su tutte le questioni che concernono la religione e la cultura musulmane dal punto di vista occidentale. Pertanto, le visioni che si hanno della donna nella società appaiono contrapposte, sia nel mondo occidentale che musulmano.
Dal punto di vista occidentale, la donna nella società musulmana è priva dei suoi diritti fondamentali, politici e sociali a causa di un trattamento discriminatorio, di uno stato di inferiorità, di una sottomissione all’uomo e alla vita familiare, che la privano della possibilità di partecipare alle attività in spazi pubblici, tutte cose motivate dalla religione e dalle tradizioni. In contrapposizione, per il mondo musulmano e soprattutto per l’islamismo radicale, la donna è l’elemento generatore della famiglia. La famiglia, a sua volta, è la base della società, l’origine dei valori e la sua forza è l’unico modo per garantire una società fondata sui principi morali. Pertanto, la donna è una garanzia della purezza della società, da questo deriva la necessità di punire o isolare chi viola questa “purezza”.
Entrambe le culture, sia quella occidentale che quella musulmana, possono estremizzare le loro argomentazioni le une contro le altre, che non sono sempre legate alla difesa dei diritti delle donne, ma con lotte di carattere politico, economico, sociale e culturale. Per questo molte volte l’opinione meno conosciuta è proprio quella della donna musulmana.

Qualche anno fa, nel campo della difesa dei diritti delle donne nella cultura musulmana, ha incominciato a diffondersi con forza un nuovo movimento, il femminismo islamico che difende la piena parità tra uomini e donne partendo dagli insegnamenti del Corano. Questi movimenti femministi riconoscono il testo sacro come liberatore, ma anche che al momento non è così. Pertanto, non è il Corano, che ha generato la discriminazione delle donne, ma c’è stata una rottura della tradizione e una distorsione dei suoi insegnamenti che ha portato all’attuale struttura patriarcale nella maggior parte degli Stati musulmani, come spiega la giornalista Ana Fernández Vidal.
Il femminismo può essere una possibilità per l’integrazione delle donne musulmane nella società, in condizioni di parità?
Contestualizzando il rapporto tra femminismo e islam, si deve prima capire che il femminismo è tutta teoria, pensiero e pratica sociale, politica e giuridica che mira a rendere evidente e a rimuovere l’oppressione subita dalle donne e a garantire la piena ed effettiva uguaglianza di tutti gli esseri umani. In altre parole, si tratta di un movimento eterogeneo, composto di una pluralità di approcci e proposte (De las Heras, 2008).
“L’emancipazione della donna non può essere raggiunta in un ambito strettamente religioso”.
Così il femminismo islamico, in quanto tale, trae le sue origini nel femminismo laico, rappresentato da musulmane e cristiane. Queste femministe si sono diffuse in diversi stati per tutto il XX secolo, sia prima, che durante e dopo l’occupazione coloniale, in un contesto di modernizzazione e di nascita dei movimenti islamici riformisti. Il femminismo laico è un discorso e una pratica create da donne provenienti da diverse comunità religiose, dei paesi arabi del Mediterraneo meridionale, che desideravano istituire uno stato nazionale di cittadini uguali tra loro, in cui stato e religione fossero separati. Queste femministe e le loro organizzazioni avevano come obiettivo quello di garantire che le nuove istituzioni statali fossero egalitarie tra i generi, non solo in teoria, ma anche nella pratica. Volevano anche riformare le “leggi religiose in materia di diritti della persona”, tra questi, i codici musulmani e cristiani dei diritti della persona, elaborati dagli stati. Per questo attaccano l’islam come religione patriarcale che ha storicamente danneggiato le donne. Pur riconoscendo il miglioramento che rappresentava l’islam, al momento, ritengono che siccome tutte le religioni monoteiste hanno una essenza patriarcale, l’emancipazione della donna non può avvenire all’interno di un ambito strettamente religioso (Badran, 2008).

 

Afghanistan 1970

Afghanistan 1970

 

Tuttavia, il processo di modernizzazione e i problemi economici, o i conflitti sociali e culturali e tutto ciò che ne derivò, non incontrarono un canale di espressione adeguato, né una soluzione sociale e politica. Vi fu poi una rivitalizzazione dell’islam, che si tradusse in una rinnovata importanza dell’islam fondamentalista, a scapito dell’islam progressista, confidando nella religione per risolvere tutti i problemi sociali e politici, e insieme restaurare i dogmi. Inoltre, si tratta di un modo per reagire volto a proteggere la cultura, dalla minaccia rappresentata dalla società liberale occidentale in ambito economico, politico e sociale, che portano con sé capitalismo, democrazia e dissolutezza morale. Le donne hanno visto i propri diritti, in quelle società in cui si era raggiunto un maggiore livello di partecipazione, sempre più ridotti e si sono ritrovate nuovamente confinate nella vita privata, familiare, si sono ritrovate fuori dallo spazio pubblico che avevano conquistato.
In questo contesto nasce il femminismo islamico, come un movimento di protesta basato sul Corano, che rivendica la possibilità di raggiungere la parità di diritti tra uomo e donna sotto il segno dell’islam. Sono soprattutto donne che non vogliono abbandonare la propria religione e rifiutano il machismo e il sessismo imperanti nella maggior parte delle società musulmane. I principali approcci di questo tipo di femminismo sono (Prado, 2008):
– è un movimento che fonda le sue basi nel Corano e nello spirito egualitario dell’Islam: il Corano è una parte fondamentale per ottenere dei risultati per quanto concerne le richieste di una maggiore uguaglianza e viene portato avanti da donne dotate di conoscenze linguistiche e teoriche necessarie per sfidare le interpretazioni patriarcali e offrono letture alternative del Corano, volte a raggiungere la parità dei diritti.; e al tempo stesso come mezzo per confutare gli stereotipi occidentali e il fondamentalismo religioso. L’ijtihad – lo sforzo interpretativo – è molto importante a questo punto in quanto alla base delle richieste del femminismo islamico, nella misura in cui qualsiasi musulmano può interpretare il Corano ed è una lettura valida, dato che il testo fondamentale lo permette.
La posizione e il ruolo attualmente occupato dalle donne nella società musulmana proviene da una interpretazione della sharia o legge islamica, risalente al IX e X secolo e la ha imposta come verità inamovibile, a cui tutti i musulmani devono obbedire. Da questa interpretazione sono derivate una serie di trattamenti discriminatori e vessatori nei confronti delle donne, come le punizioni corporali, la violenza domestica, la poligamia, i codici di abbigliamento e la famiglia che limita la libertà delle donne.
– Posto che si deve effettuare una lettura analitica del Corano e che la giurisprudenza islamica classica non è una interpretazione oggettiva dei principi del Corano, ma relativa a un determinato periodo storico, e realizzata da un punto di vista patriarcale e autoritario, con un concetto di società estremamente gerarchico. Postulato anche che il vero islam contiene elementi importanti per la liberazione, quali la parità e l’assenza di gerarchie religiose, e propone di recuperare questi elementi come mezzo di emancipazione sociale. Questo implica la necessità di riformare tutte quelle leggi discriminatorie contro le donne sia per quanto riguarda le minoranze religiose, razziali e sessuali. Se la sharia prevede anche solo una minima discriminazione, da una prospettiva femminista, questa dovrebbe essere respinta. Al contrario, se la sharia implica una possibile applicazione del messaggio coranico di giustizia sociale e di uguaglianza di tutti gli esseri umani, allora è lecito difendere il diritto dei musulmani ad essere disciplinati dalla legge della sharia.
– Secondo questa visione, l’islam non sarebbe una religione patriarcale. Tutti gli esseri umani hanno pari dignità indipendentemente dal sesso; la discriminazione di genere dovrebbe essere combattuta e completamente sradicata; e una corretta interpretazione dei testi sacri e della tradizione giuridica costituiscono una importante sfida al patriarcato in un contesto islamico.
– Infine, il femminismo islamico promuove la partecipazione delle donne all’interno degli organi decisionali. Rivendica il diritto di proprietà, alla libertà individuale e all’indipendenza economica, basandosi sulla tradizione islamica. Richiede l’accesso alla moschea come un diritto delle donne musulmane.

Pro e contro
Si può vedere che, effettivamente, il femminismo islamico rivendica la difesa dei diritti delle donne e l’uguaglianza di genere nella società, così come il femminismo cerca di fare in tutto il mondo. Tuttavia, mentre la religione che il femminismo occidentale sperimenta è vista come uno dei principali fattori di oppressione delle donne, per il femminismo islamico diventa lo strumento attraverso il quale le donne possono lottare per la parità o in questo caso per una integrazione più giusta nella società, considerando il contesto religioso e culturale di questo tipo di società. Questo fatto, fa sì che per i movimenti femministi più radicali questo non possa essere un “reale femminismo”, lo invalida come tale.
Ragionando sui pro, se la religione è la causa per cui (le donne) sono state oppresse, discriminate e destinate a un ruolo inferiore rispetto agli uomini, l’unico modo per cambiare la loro posizione nella società è quello di modificare l’interpretazione (dei testi sacri) che è stata imposta da una società patriarcale. Pertanto, il femminismo deve adattarsi ai contesti politici, economici e culturali di ogni società, perché altrimenti le donne musulmane non avrebbero nell’islam un valido strumento per difendere i propri diritti. Per quanto riguarda queste donne, un femminismo che non trova la sua giustificazione all’interno dell’islam, è destinato a un rifiuto da parte del resto della società e sarebbe pertanto controproducente.

 

 

Maggiori informazioni e fonti:

Qui una recensione di Féminismes islamiques (La Fabrique, 2012), su InGenere, a cura di  Renata Pepicelli.

Qui  Femminismi musulmani. Un incontro sul Gender Jihad
“Femminismi musulmani. Un incontro sul Gender Jihad” a cura di Ada Assirelli, Marisa Iannucci, Marina Mannucci e Maria Paola Patuelli

DE MIGUEL ÁLVAREZ, Ana. “El proceso de redefinición de la violencia contra las mujeres: de drama personal a problema político” en Revista de Filosofía, Nº 42, 2007, pp. 71-82.

AMORÓS, Celia. Tiempo de feminismo. Sobre feminismo, proyecto ilustrado y posmodernidad. España: ed. Cátedra, 2000.

BADRAN, Margot. “El feminismo islámico en el nuevo Mediterráneo” en NOMANI Q., Asra Q: La emergencia del feminismo islámico. Oozebap, 2008.

BADRI, Balghis. “Feminismo musulmán en Sudán: un repaso” en NOMANI Q., Asra Q: La emergencia del feminismo islámico. Oozebap, 2008.

DE LAS HERAS AGUILERA, Samara. “Una aproximación a las teorías feministas” en Revista de Filosofía, Derecho y Política, Nº9, Enero 2009.

ELORZA, Antonio y BALLESTER, Mateo. “Islam y democracia” en Letras Libres, 2008.

GUERRA PALMERO, María José. “¿Servirá el multiculturalismo para revigorizar al patriarcado? Una apuesta por el feminismo global” en Leviatán Nº 80, Verano 2000.

“Feminismo e islamismo en Egipto: en busca de nuevos paradigmas” en Nodo50, 02/12/2004.

PRADO, Abdennur. “La emergencia del feminismo islámico” en NOMANI Q., Asra Q: La emergencia del feminismo islámico. Oozebap, 2008.

RAMÍREZ, Ángeles. “Libres, fuertes y mujeres: diversidad, formación y prácticas de los feminismos islámicos” en Feminismos en la Antropología: nuevas propuestas críticas. 2007.

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