Nuvolette di pensieri

Mormora l'acqua del ruscello

Non c’è più tempo

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Non è più il tempo dei tavoli di lavoro per ragionare sulla violenza, non è più sufficiente per lo meno. Abbiamo riflettuto fin troppo, ma forse non è stato condiviso e diffuso abbastanza. In realtà, nessuna azione è più sufficiente se non c’è di fatto alcuna presa di posizione da parte di chi ricopre incarichi nelle istituzioni.

Prima del flash mob in varie città italiane del 2 giugno, attendevamo che una delle Ministre rompesse il silenzio sulle violenze e sui femminicidi. Ci attendevamo dei messaggi forti e che si arrivasse a chiedere un’azione incisiva, con mezzi adeguati, per intervenire sul macigno della violenza che annienta le donne e che in molti casi gli strappa la vita.

Abbiamo lasciato passare i giorni, Laura Boldrini ha mostrato una vicinanza, ma come ho detto quel drappo rosso alla finestra si deve incarnare in un’azione tangibile di cambiamento di rotta.
Poi è arrivato un post su Facebook e una intervista della Ministra Boschi che ha la delega alle P.O. Poi ancora silenzio e la solita cronaca.

Intanto da Nord a Sud (Roma, Napoli, Palermo, Pisa, Corsico) alcuni centri antiviolenza hanno chiuso e altri stanno vivendo grosse difficoltà a portare avanti le loro attività. Intanto i fondi stentano come sempre ad arrivare e non c’è un monitoraggio adeguato, una verifica puntuale di come vengono stanziati i fondi e spesi. In una parola sola: trasparenza.
Intanto le donne continuano a perdere la vita a causa della violenza machista e ritorna lo stupro di gruppo, nuovamente definito dai genitori “una ragazzata”. Questa ragazza che ha coraggiosamente denunciato quanto le è successo e oggi si vede piovere addosso parole ignobili, di vigliacchi da tastiera.
Intanto Maria, 10 anni è stata uccisa, dopo essere stata violentata. Intanto ci si chiede se giustizia sarà fatta.
Intanto vorremmo poter riportare indietro le lancette dell’orologio per poter cambiare il destino di queste donne.

Finora le parole sono state tante. I media, nonostante gli appelli di varie donne e di associazioni come Giulia (Giornaliste Libere Autonome), hanno per lo più deformato i fatti, continuato a raccontare i femminicidi come atti causati dal troppo amore, le foto di coppie felici ha alimentato solo un’immaginario che non corrisponde alla realtà, come molte di noi continuano a ripetere. Una vetrina in cronaca, con un vuoto assordante nella pagina politica.

Non ci ascoltano e quando chiediamo dei media di qualità ci scontriamo ogni volta con questa stanca esibizione di una normalità che non è tale, perché la violenza in ogni forma non può esserlo. Non varranno gli appelli a denunciare se verrà ancora propagandato questo come amore. La narrazione è sempre deformata, sembra quasi che la violenza sia un fulmine a ciel sereno. Come se le denunce non fossero mai state presentate, come se non ci fossero mesi, anni di calvario. Sappiamo che così non è.

Questo paese ha un approccio del tutto sbagliato, perché negando le discriminazioni, le distanze che tuttora separano uomini e donne è come se si cancellasse ciò che di fatto è il substrato socio-culturale che alimenta tutta una serie di violenze sulle donne. La visione della donna, del suo ruolo, la sua oggettivazione, la sua subordinazione, i continui tentativi di riportarla sotto controllo, perché non si accetta la libertà della donna, perché non la si percepisce come essere umano pienamente titolare di diritti al pari dell’uomo, sono elementi su cui riflettere.

Il due giugno abbiamo rotto il silenzio.

Propongo di tornare a un presidio permanente settimanale, mensile, decidiamo insieme dove e come è preferibile farlo. Così in ogni città. Un presidio in ogni città. Decidiamo insieme la modalità, ma facciamoci sentire. Scuotiamo le città. Creiamo tanti presidi e manifestazioni che uniscano la penisola in questa lotta alla violenza machista. Auto organizziamoci. Chiediamo che le istituzioni intervengano. Portiamoli avanti finché non ci verranno date risposte. Replichiamoli in ogni città che sceglierà di unirsi. Dobbiamo rendere visibile che noi non siamo disposte ad accettare questa indifferenza. DOVE SIETE???

Cosa facciamo per ottemperare alla Convenzione di Istanbul , ratificata dal governo italiano? Non voglio sentire dire da nessuno che ci sono problemi più importanti e prioritari. Non possiamo continuare a rinviare gli interventi educativi e di prevenzione.

Pretendiamo risposte da chi ha le deleghe all’educazione nelle amministrazioni locali e al Ministero dell’Istruzione, con a capo Stefania Giannini. Pretendiamo pianificazioni ad hoc dai sindaci e dalle sindache, dalle Regioni.

In Regione Lombardia attendiamo i fondi 2014 del Piano nazionale antiviolenza. In Regione si trincerano dietro il patto di stabilità. Regole, solo burocrazia, intanto ne paghiamo le conseguenze.

Pretendiamo educazione di genere e al rispetto delle differenze, educazione alle relazioni nell’offerta formativa delle scuole di ogni ordine e grado. L’iter parlamentare sta iniziando, ma va seguito, indirizzato e corretto. Seguendo la linea suggerita da Graziella Priulla: “da considerare trasversale nei percorsi scolastici e nei programmi di tutte le discipline, e non confinata in uno spazio che tra l’altro rischia di fare la fine dell’educazione civica e dell’ educazione alimentare.” Qui un articolo che vi consiglio di leggere.

Ognuno nel suo ambito e ruolo si prenda le sue responsabilità e intervenga. Non c’è più tempo.

Quando tante donne e i loro bambini continuano a subire violenze, fino a vedersi sottrarre la vita, mi chiedo come si faccia a voltarsi dall’altra parte e dedicarsi ad altro. Secondo l’indagine ISTAT del 2006 il 14,3% delle donne afferma di essere stata oggetto di violenze da parte del partner o ex partner.

Come ho detto più volte, pretendiamo misure e investimenti certi e celeri, per contrastare e prevenire la violenza, non briciole di interventi e di investimenti. Il cambio culturale necessita volontà politica. Non restiamo sole! La solitudine ci frega, ci vogliono frammentate e disorientate per silenziarci o per non degnarci di risposta. A tutto questo dobbiamo opporci!

Iniziamo a lavorare insieme, coinvolgendo associazioni, gruppi, singole donne e torniamo in piazza. Organizziamoci per costruire gruppi di donne su ciascun territorio, che facciano presidi costanti e periodici…  Verso l’autunno. Qualche bel segnale c’è già, va solo amplificato. E ancora la parola d’ordine è: non importa quante siamo, manifestiamoci!

 

Ho creato un gruppo Fb da raccordo tra le varie iniziative che riusciremo a mettere in piedi in varie città, da qui all’autunno, iniziamo!

https://www.facebook.com/groups/281979335489696/

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(In)coscienza in farmacia?

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Nel cortile di Villa Visconti D’Aragona, a Sesto San Giovanni, lo scorso 23 giugno si è parlato di autodeterminazione delle donne, partendo dalla sentenza (risalente al 12 ottobre 2015, ma resa pubblica solo a fine embargo lo scorso 11 aprile) del Consiglio d’Europa su ricorso della CGIL, sulla mancata applicazione della Legge 194 in Italia. Relatrici dell’incontro: l’Assessora alla cultura e alle pari opportunità del Comune di Sesto, Rita Innocenti, Benedetta Liberali, l’avvocata che insieme a Marilisa D’Amico ha presentato e vinto il ricorso, e Elena Lattuada, segretaria generale della Cgil Lombardia.
La 194 pur essendo legge dello Stato italiano, a contenuto costituzionalmente vincolato, negli anni sta diventando sempre più un percorso ad ostacoli, rappresentati principalmente dagli alti numeri di personale medico e paramedico obiettore di coscienza.
L’avvocata Benedetta Liberali ha riassunto l’iter del ricorso europeo, evidenziando i tentativi della Ministra Lorenzin di sostenere che la sentenza non sarebbe definitiva. Cosa ovviamente non corretta e alla quale la CGIL ha risposto in maniera netta. Per fortuna ci sono professioniste che si battono da anni per i diritti delle donne. Noi attiviste dobbiamo supportarle maggiormente.

Per capire l’approccio governativo, qui un estratto delle risposte della Ministra Lorenzin. Continuiamo a sentirci dire che tutto va per il meglio e che se non vi sono segnalazioni di criticità dalle Regioni, nulla si può fare. Se i “gettonisti” si possono definire una cosa normale, non possiamo accettare tutto questo.
“Reintrodurre il giusto equilibrio tra medici obiettori e non obiettori negli ospedali, questo ora dev’essere l’obiettivo, e questo si sta sperimentando ad esempio al San Camillo di Roma, dove la scorsa settimana si è tenuto un confronto con la partecipazione, oltre che dell’avvocata Liberali anche del segretario generale della Cgil Susanna Camusso.”

In Lombardia due medici su tre sono obiettori. Le IVG non vengono insegnate nelle scuole di specializzazione, si cerca di scoraggiare e mobbizzare chi decide di non obiettare. Siamo in grave ritardo anche sugli aborti farmacologici: i tre giorni di ricovero non fanno decollare questa modalità.
“In 7 strutture pubbliche si registra un’obiezione totale, e lì non è possibile esercitare un diritto costituzionale. In altre 12 strutture l’obiezione tocca l’80- 90 per cento.”

Secondo Elena Lattuada: “Dobbiamo dunque immaginare come dare sostegno e favorire la promozione di tutte quelle possibilita’ che passano attraverso i bandi e la contrattazione che ci compete, per consentire l’applicazione della legge, costruendo alleanze tra il movimento delle donne e il personale medico, facendo anche leva sul diritto di chi non obietta a non subire svantaggi sul piano professionale. Un altro elemento è legato all’utilizzo della RU486, che renderebbe meno difficoltoso il percorso dell’interruzione di gravidanza. Dobbiamo provare, anche con forme e modalità nuove a rivendicare un principio e un diritto costituzionalmente previsto. Dobbiamo riprenderci nelle nostre mani il diritto di scegliere ricostruendo un nesso tra generazioni e tra tutti i soggetti interessati all’applicazione della 194, e su questo, non mollare la presa.”

Nel mio intervento dal pubblico, ho sottolineato come sia necessario tornare a farsi sentire in maniera forte, unitaria come donne, scendendo in piazza e sostenendo in ogni contesto e occasione iniziative come quella della CGIL, diffondendo consapevolezza tra le donne della difficile situazione in cui versa la tutela della salute sessuale e riproduttiva femminile. Ho ricordato la mancanza di attenzione sul fenomeno sommerso degli aborti clandestini: anziché procedere a indagini e verifiche, si è scelto di sanzionarli. La Ministra Lorenzin dovrebbe riuscire a guardare oltre il dato di riduzione degli aborti e chiedersi cosa ci sia dietro.
Ho ribadito l’importanza della prevenzione e del potenziamento dei servizi territoriali come il consultorio, caratterizzato da un lento e progressivo “smantellamento” delle sue funzioni originarie. Abbiamo 20 Sanità diverse, 20 Regioni con servizi sanitari differenti, con livelli diversi, che rendono i diritti ancora più incerti e di applicazione diversificata. Oltre al macroscopico problema dell’obiezione, senza prevenzione e un intervento educativo laico nelle scuole e in ogni luogo frequentato dai/dalle ragazzi/e non avremo dato una piena applicazione della 194.
Inoltre, attenzione anche all’uso delle parole. I rappresentati del Governo italiano si sono espressi in questo modo in sede europea, in occasione di una replica:
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Come non considerare decenni di giurisprudenza e soprattutto la sentenza della Cassazione del 1975.

Poi leggi che esiste anche una proposta di legge (qui e qui), presentata da Luigi Gigli, presidente del Movimento per la vita, eletto con Scelta Civica e ora approdato nel gruppo di Democrazia solidale – Centro democratico, e Mario Sberna (stessi slalom politici). Una proposta che vuole introdurre l’obiezione di coscienza anche per i farmacisti.
Nel testo della proposta si parla di: “Ogni farmacista titolare, direttore o collaboratore di farmacie, pubbliche o private” può “rifiutarsi, invocando motivi di coscienza, di vendere dispositivi, medicinali o altre sostanze che egli giudichi atti a provocare l’aborto”. Come giustamente sottolinea Lisa Canitano: “non esistono farmaci abortivi venduti in farmacia”, quindi viene da pensare che si voglia bloccare la vendita di farmaci che non sono abortivi, ma semplici contraccettivi d’emergenza, a seconda della libertà di (in)coscienza del farmacista.
Immaginiamoci in un piccolo centro, in cui c’è un’unica farmacia, immaginiamoci cosa accadrebbe nel caso in cui il farmacista dovesse essere obiettore. Già ora alcuni cercano di fare i furbi e di non rispettare la normativa su dei semplici contraccettivi quali sono le pillole del giorno dopo e dei cinque giorni dopo. Tutto questo deve finire. Il corpo delle donne non deve essere un campo di battaglia, non dobbiamo più subire. Diamoci una mossa e uniamo le forze per combattere questo medioevo di ritorno.
Per fortuna di progetti di legge che giacciono fermi ce ne sono tanti e ci auguriamo che questo resti immobile a prendere polvere. Al contempo dobbiamo chiedere con forza provvedimenti che aiutino a regolamentare una volta per tutte le quote di personale obiettore e non.
Cercasi laicità fuori e dentro le istituzioni, ovunque sia finita. Perché no, non sono tranquilla.

Anche questa è violenza contro le donne.

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In bici contro la violenza

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Rilancio questa importante iniziativa per portare attraverso l’Italia un messaggio contro la violenza sulle donne e i bambini.

Andrea Raffaelli Enzi lo scorso 21 giugno, è partito da San Donato Milanese con la sua bicicletta, per un giro d’Italia in cui porterà la voce delle donne e dei bambini che hanno subito violenza.

Durante le tappe di questo giro sosterrà la battaglia contro il femminicidio ed il figlicidio intrapresa dall’Associazione Federico nel cuore.

La prima tappa sono stati gli uffici ASL di San Donato Milanese, il luogo dove il piccolo Federico Barakat è stato ucciso a soli 8 anni per mano del padre, in un ambiente che era protetto solo nominalmente. Andrea Raffaelli in quel luogo ha portato un girasole (simbolo della campagna contro il figlicidio e dell’Associazione Federico nel cuore). Questo fiore che guarda sempre verso la luce sarà presente in ogni tappa a testimoniare l’auspicio che si possa trovare gli aiuti giusti per uscire in tempo dal tunnel buio della violenza.

“Andrea con grande entusiasmo porterà nel suo lungo viaggio a tutti un messaggio : BASTA ALLA VIOLENZA SU DONNE E BAMBINI e lascerà un girasole su ogni luogo dove è stato commesso un figlicidio e/o un femminicidio. Questa iniziativa è importante per mantenere viva l’attenzione su questi gravissimi fenomeni che attanagliano la nostra società.”

Andrea da giovane padre testimonierà che un altro tipo di cultura maschile è possibile, che la battaglia culturale contro la violenza va combattuta con ogni mezzo e costantemente. Abbiamo bisogno di non abbassare l’attenzione sulla violenza, perché si riesca a intervenire tempestivamente, perché nessuno debba più vedersi strappar via la vita. Allo stesso tempo dobbiamo chiedere che l’iter giudiziario sia in grado di accertare le responsabilità.

Antonella Penati, mamma di Federico, e noi con lei non ci arrendiamo davanti all’assoluzione in sede penale e civile di operatori e dell’ente (il Comune di San Donato Milanese), che ne aveva la tutela. Ad oggi nessun responsabile, nessun danno biologico, né morale.

È inaccettabile che nessuno sia riconosciuto responsabile di quanto accaduto. Per Federico, per Antonella e per tutte le madri e i figli chiediamo giustizia, chiediamo che si creda alle donne e che ci sia per donne e bambini la giusta protezione e tutela.

Ci auguriamo che le cose vadano meglio in ambito europeo: la Corte europea di giustizia, che ha accettato il ricorso per violazione del diritto alla vita (art 2).

Uniamoci ad Antonella, affinché le nostre voci all’unisono riescano a smuovere una situazione inaccettabile. Ascoltiamo e aiutiamo le donne e i loro bambini, SEMPRE!

 

 

Per info e per invitare Andrea a transitare da un particolare luogo scrivere all’Associazione Federico nel Cuore seguiteci su Facebook e scrivete: presidente@federiconelcuore.org – Tel. 345.0066295

Si chiede a tutti i Giornalisti e le relative testate, ai centri antiviolenza, a tutte le Associazioni sportive di aderire all’iniziativa , sostenerla e pubblicizzarla. Per adesioni prendere contatto con l’Ufficio Stampa dell’Associazione per dare risalto all’iniziativa.

WWW.FEDERICONELCUORE.COM

Vi ricordo anche la raccolta fondi per sostenere la causa a Strasburgo.

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Contro ogni tipo di disuguaglianza e discriminazione

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Ieri sono stata onorata di poter intervenire dal palco del Milano Pride 2016 ‪#‎everybodypride‬ ‪#‎NessunaEsclusione‬. Ringrazio Monica Romano per avermi invitata.

Qui il mio contributo completo, da cui ho tratto il mio breve intervento.

La lotta per i diritti non può essere a compartimenti stagni, ogni diritto è legato all’altro. La battaglia per raggiungere una società più equa e civile, in cui tutti abbiano pieni diritti e opportunità, siano liberi di scegliere chi essere, chi amare, nel pieno rispetto delle differenze non deve mai dimenticarsi di questo.

La lotta è intersezionale, significa che il cammino verso una società più coesa, solidale, paritaria prevede una lotta a ogni tipo di discriminazione e disuguaglianza.

Vorrei ricordare che il problema della violenza ha sempre le stesse matrici, di controllo, di disprezzo della libertà e delle differenze, della mancanza di rispetto, la medesima matrice culturale, patriarcale: il controllo e il dominio sui corpi e sulle persone, il tentativo di omologarle.

“Nella civiltà occidentale, gli uomini hanno continuato e continuano a incarnare il canone, il prototipo, la norma. Continuano a essere gruppo dominante, che scrive la storia e detta l’ideologia. La loro supremazia, così come la subordinazione femminile, sembra rientrare nell’ordine naturale, nell’idea di un diritto suggerito dalla natura del mondo e delle cose, universale e immutabile” (Chiara Volpato, “Psicosociologia del maschilismo”, 2013 Laterza).

Secondo la teoria che applica la categoria gramsciana di egemonia alla mascolinità elaborata da Raewyn Connel: “Una dinamica culturale che permette a un gruppo di conquistare e mantenere una posizione dominante nella vita sociale”. In pratica viene individuato un modello maschile vincente, un ideale che “nella società capitalista occidentale coincide con uomini competitivi, orientati al successo, aggressivi, cinici, anaffettivi, eterosessuali”.

Seguendo il ragionamento di Connel, si può parlare di mascolinità multiple, in quanto ogni epoca storica e ogni società elabora il proprio modello vincente. Questo naturalmente porta a una subordinazione e una marginalizzazione di tutti coloro che non rientrano nei canoni del modello maschile egemone (classi sociali subalterne, omosessuali e naturalmente donne). Connel rileva anche quella sorta di complicità maschile, che permette di mantenere lo status quo e consente anche a chi non rientra nel modello egemone di godere dei benefici della superiorità maschile. In pratica si ottiene una parte del dividendo patriarcale, la propria fetta di vantaggio ottenuto dalla subordinazione delle donne”. Questo sistema non ammette che ci sia qualcuno che lo metta in discussione. Ecco perché per alcuni il femminismo, l’emancipazione e l’autonomia delle donne sono pericolose e vanno fermate in ogni modo
Il femminismo ha segnato per le donne la riappropriazione del pensiero e della parola, a lungo strumenti della loro esclusione.
C’è chi si sente “minacciato” e indebolito da queste orde di femministe selvagge e cerca di recuperare tutti gli orpelli della mascolinità perduta: la superiorità biologica del maschio, il culto della forza, l’omotransfobia, la centralità della competizione, l’aggressività.

Il corpo delle donne continua a costituire un campo di battaglia, come Barbara Kruger, artista e fotografa americana, rappresentò nel suo manifesto del 1989.

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Il gender gap segna la misura della diseguaglianza, maggiore è questo gap maggiori saranno i livelli di violenza e di aggressione nei confronti delle donne e l’egemonia di una mascolinità violenta e dominante tenderà a schiacciare qualsiasi gruppo o persona non si conformi a questo modello.
Violenza contro le donne, femminicidi, gender gap, omotransfobia sono segnali di una cultura machista che non ammette libere scelte e l’autodeterminazione di tutt*, che perpetua un modello maschiocentrico per non far progredire la società verso un sistema più equo, solidale e civile, accogliente per tutt*. Più forte è la cultura patriarcale, maggiori saranno le sue derive violente. Contro tutto questo dobbiamo lottare, INSIEME!

 

Per un approfondimento su Chiara Volpato e Raewyn Connel vi segnalo questo mio vecchio post.

Qui l’intervento di Stella Zaltieri Pirola e Flavia Franceschini Arcilesbica Zami Milano

MI pride 2016

Foto di Alice Redaelli

MI pride 2016 bis

Foto di Alice Redaelli

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Nessuna paura

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Jo Cox era una donna e una politica coraggiosa. Aveva il coraggio di portare avanti le proprie battaglie, una dote molto rara, in un contesto dove sempre più si cerca di rischiare il meno possibile e di avere posizioni buone per tutte le stagioni.
Una laburista, una donna con profondi valori progressisti, europeista convinta. Nel suo primo discorso alla Camera dei Comuni del 3 giugno 2015 sosteneva con orgoglio come multiculturalismo e immigrazione fossero delle preziose opportunità di arricchimento per il proprio paese.

“La regione che rappresento è stata profondamente arricchita dall’immigrazione, sia che si tratti di cattolici irlandesi o di musulmani provenienti da Gujarat in India o dal Pakistan. Mentre noi celebriamo la nostra diversità, quello che mi sorprende di volta in volta quando giro in quei territori è che siamo molto più uniti e abbiamo tante cose in comune l’un l’altro, molto più di quelle che ci dividono”

Questa dovrebbe essere la bussola dell’Europa, eppure i venti reazionari, xenofobi, dei muri, delle trincee sono sempre più forti e stanno mettendo a repentaglio proprio i valori fondanti dell’UE.

Jo Cox aveva un passato da volontaria, al fianco delle vittime del Darfur, delle donne congolesi e dei profughi siriani. Conosceva quelle situazioni e quando si esponeva e agiva come politica lo faceva con cognizione di causa. Jo Cox voleva dar voce a tutto questo. Probabilmente la scelta di essere contraria alla Brexit risiedeva nella speranza, nella convinzione che l’Europa potesse e dovesse continuare a rappresentare un baluardo, un’idea di inclusione, in difesa dei deboli e della pace mondiale. Sicurezza e stabilità possono realizzarsi solo in un contesto unitario. Non è chiudendosi ognuno a casa propria che i problemi scompaiono o si risolvono, i muri servono solo ad incrementarli. Arroccarsi come propongono alcuni partiti in Europa porta solo a comunità più chiuse, incattivite, che si sentono braccate da fantasmi creati ad arte per creare tensione, paura e spingere le persone ad accettare una politica che sottrae libertà e diritti.

Questo clima è forte, lo si avverte andando in giro. Parlando con la gente nei mercati o ai giardini, con i commercianti. La paura che sento in giro è un frutto di un pregiudizio, un elemento pericolosissimo, una bomba a orologeria. In Italia, negli anni ’90 il “pericolo” da combattere e da tenere lontano era rappresentato da chi dal Sud andava al Nord e rubava il lavoro e portava delinquenza, violenza e problemi di vario genere. Ancora nel 2003, quando mi trasferii da Bari a Milano, mi trovai di fronte a questo tipo di pregiudizi. Oggi sono i migranti dall’estero. Stesse argomentazioni, niente è mutato se non chi subisce queste accuse.

I media e un certo tipo di politica hanno alimentato un clima di odio e di diffidenza, hanno costruito il fantoccio di un nemico esterno, creando una percezione alterata della realtà. Campagne d’odio, razziste hanno creato un contesto in cui molte persone finiscono col sentirsi accerchiate. E via con politiche sulla sicurezza, che non servono ad altro che ad alimentare l’intolleranza.

Una politica chiusa in sé, che basta a se stessa e che foraggia un individualismo sempre più diffuso nelle nostre comunità. Un modo di fare politica in antitesi al concetto di Politica come bene per la comunità, aperta e che sappia accogliere chi una casa, diritti e prospettive di vita non le ha più nel proprio paese. La politica dovrebbe fornire soluzioni per dare a tutti un’opportunità e una vita dignitosa.

Quando porti avanti campagne d’odio e xenofobe, quando inciti alla difesa del proprio orticello con ogni mezzo, crei mostri, mostri che arrivano a concepire azioni come quelle che hanno tolto la vita a Jo. Come se togliendole la vita si potessero al contempo cancellare le sue verità, le sue battaglie e ciò per cui lottava quotidianamente attraverso il suo impegno politico. Abbiamo un’occasione: possiamo cambiare strada e pensare che la politica sia capace di migliorare la vita delle persone, come Jo faceva. Abbiamo la possibilità di dire basta all’intolleranza e di aprire a un mondo, a un paese, a una società che rispetta e accoglie tutti, che offre una opportunità a tutti, che sia dialogante con tutti. Basterebbe ricordarsi quando stranieri e indesiderati siamo stati noi. Basterebbe ricordarsi che le divisioni non portano mai buoni frutti, solo odio, violenza e morte. Se la politica si arrende e non è in grado di parlare una lingua diversa, fondata sui valori dei diritti e dell’uguaglianza, ma si preoccupa solo di difendere la pancia dei propri bacini elettorali, ha perso. Abbiamo perso.

La politica è bene comune, non è salvaguardia di orticelli o privilegi. La politica non è una cosa semplice, implica scelte anche difficili, implica essere scomodi, controcorrente, fare azioni coraggiose ed esporsi in prima persona. Tutto il resto è solo una sua pallida imitazione, una meschina pantomima, atta solo a intercettare voti fondati su timori o ragioni egoistiche. Jo ci ha dimostrato che fare politica implica schierarsi e assumersi responsabilità in prima persona. Jo ha scelto di non seguire scorciatoie, ma di portare avanti le sue idee, senza paura, proprio per sconfiggere quel muro di gomma fatto di pregiudizi e indifferenza. Jo ha dimostrato cosa significa fare la differenza.

Una visione politica autentica di cui le saremo sempre grati. Jo che sapeva e desiderava dare voce a chi di solito non ha voce. Scegliamo da che parte stare e che tipo di futuro vogliamo costruire. Fare politica non è solo una questione di voti, come molti vorrebbero ridurla. Jo con la sua esperienza e competenza, con i suoi progetti, le sue azioni, con il suo volersi confrontare aperto ci ha testimoniato un modo di far politica alto, autentico.

La differenza c’è. Nessuna paura. Resistiamo e testimoniamo con le nostre azioni che la differenza c’è, che c’è ancora un territorio per fare politica tenendo la schiena dritta, senza scendere a compromessi e senza scegliere strade comode.

Jo Cox ci ricorda che la cultura che incita all’odio nei confronti di minoranze o di determinate categorie di persone, al rifiuto delle differenze, alla sopraffazione e all’annientamento di chi non la pensa come te, è all’origine di quanto di più devastante e pericoloso ci sia per una comunità. Quando si costruisce un muro tra Noi e gli Altri i risultati sono quelli che conosciamo. Vogliamo davvero che il nostro futuro sia dettato dai nazionalismi e dalla xenofobia? Creiamo ponti, corridoi, non trincee.

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La lotta non si ferma… continua!

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Maria Elena Boschi ci ha degnate di un mini post su Fb sui femminicidi, con calma, con molta calma, come se ci fossero questioni più urgenti. Null’altro, solo un messaggio impostato, dovuto dalle circostanze, con tanto di colpo al cuore.

 

Nessun accenno al fatto che la non-cultura del possesso e del controllo delle donne in una relazione produce violenza, un assoggettamento totale dell’oggetto di proprietà, la donna, che se manca diventa per alcuni uomini “giustificazione” di ogni azione. Siamo di fronte a uomini che ci considerano ancora incapaci di libere scelte e non titolari di tale diritto. C’è chi paternalisticamente dice di volerci proteggere, consigliare, indirizzare. Noi donne siamo pienamente in grado di dare una direzione alle nostre scelte e alle nostre vite. Ci siamo stancate di essere ostaggio di un machismo che ci annienta e ci minaccia se non obbediamo, se non siamo docili ancelle. Questo avviene dappertutto, in ogni ambito. Abbiamo le nostre idee e siamo capaci di ragionare liberamente, che piaccia o no.

Non esistiamo solo in funzione di un uomo e di quanto possiamo essere utili agli uomini. Non ci silenzierete perché per secoli si è fatto così. Non ci ridurrete a seguire padri o padrini. Se non si è compreso il concetto che siamo tutt* liber* e uguali, da rispettare sempre, bene questo è il punto su cui dobbiamo intervenire. Lo spettro del gender ci ha già fatto perdere troppo tempo per quegli interventi urgenti da fare nelle scuole di ogni ordine e grado. Le radici vanno estirpate altrimenti alimenteranno il circolo di violenza e femminicidi.

Non è più tempo di parrocchie, non può essere un contesto idoneo, basta leggere le sacre scritture e aver frequentato un po’ gli oratori. Siamo e vogliamo essere laici. Non è più tempo di commissioni di valutazione, con chi, con che tempi, con che scopi? Stiamo perdendo tempo prezioso e in questo tempo perdiamo anche donne e in alcuni casi i loro bambini. I fondi e le azioni non arrivano e mi sembra di capire che non si ha intenzione di cambiare passo. Non si chiamano nemmeno alle loro responsabilità i ministeri dell’Istruzione, della Salute e della Giustizia. La violenza non può essere affrontata a compartimenti stagni.

Finora ci hanno trattate come dei soggetti deboli, categoria assimilata in un calderone indistinguibile, volutamente io penso. Ci rappresentate e ci trattate come se fossimo un gradino sotto, invece vogliamo essere considerate esseri umani, pienamente portatrici di diritti e di tutele, come da Costituzione.

Ricordo alla ministra Boschi che a perdere la vita non sono solo “ragazze”, ma donne di ogni età. Dobbiamo intervenire per tempo sulla violenza, perché ci sono donne che passano l’intera esistenza in queste condizioni disumane. Basta temporeggiare ed essere tiepidi.
LA LOTTA NON SI FERMA, CONTINUA!

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Dall’UE un accordo quadro in materia di congedo parentale

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Lo abbiamo letto nel report del McKinsey Global Institute dal titolo The power of parity: la parità di genere potrebbe contribuire con 12 trilioni di dollari al PIL mondiale da qui al 2025, ossia l’11% in più di quanto succederebbe con uno scenario ordinario. Non si tratta solo di spingere verso la parità nel mondo del lavoro, ma di creare le condizioni perché si abbia un riequilibrio sociale uomo-donna. Per raggiungere questo obiettivo si dovrebbe investire sulle seguenti aree: istruzione, pianificazione familiare, salute materna, inclusione finanziaria, inclusione digitale e previdenza sanitaria con congedi per malattia retribuiti.

L’incremento della spesa annuale ammonterebbe a 1,5/2 trilioni di dollari entro il 2025, un aumento del 20-30% degli investimenti. Non poco, si potrebbe dire, ma si avrebbero delle ricadute ben più ampie su tutta la popolazione e sul PIL. Ce lo ripetiamo da tempo. Una litania che non si riesce a tradurre in fatti. Da qualche parte si deve iniziare a invertire la rotta.

Per colmare il gap di genere ci vuole volontà politica. Se non si colma è perché chi cerca di portare avanti politiche di parità viene marginalizzata. Perché questi temi vengono avvertiti sempre come secondari, roba da donne. Invece è roba che riguarda tutta la popolazione, l’intero Paese. Se continuo a portare avanti certe battaglie è per dare testimonianza che c’è un modo altro di intendere le priorità e risolvere i problemi. Sinché continueremo a non avere uno sguardo d’insieme sulle questioni, brancoleremo nel buio e annasperemo nel fango. Esistiamo anche noi donne e non potete relegarci sempre a fondo pagina dell’agenda politica. Non potete abbandonarci a un destino secolare, perché così è stato e sempre sarà. Noi quello spazio ce lo prendiamo e dovrete ascoltarci prima o poi. Noi continueremo a martellare sempre su certi tasti, sino ad avere le risposte che tutta la comunità di uomini e donne merita. Non si esce dal pantano a pezzi, ma tutti insieme.

 

CONTINUA A LEGGERE SU MAMMEONLINE.NET:

http://www.mammeonline.net/content/dall-UE-accordo-quadro-in-materia-di-congedo-parentale

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Testimoniare e dare corpo a un’azione differente

 

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Non si tratta solo di parità, ma di differenza. La partecipazione delle donne all’interno delle istituzioni può essere sostenuta, incoraggiata, ma la parità non è garanzia di un cambiamento significativo. Perché se dobbiamo esserci come gli uomini, ricalcare le loro orme, forse siamo sulla strada sbagliata. Siamo d’accordo su questo, vero?

Se l’esperienza della donna è nulla o appiattita su temi, soluzioni, proposte, stili, priorità maschili, dove ci stanno traghettando? L’esperienza e l’attenzione pluriennale su certi temi sono indispensabili, per sapersi orientare, scegliere i giusti metodi e le politiche più adatte. L’improvvisazione non è consigliabile. Da una donna io chiedo preparazione, tenacia e autonomia di pensiero, ovvero senso critico. Chiediamo risposte e non silenzi di fronte a questioni che ci riguardano, come la violenza contro le donne. Non è “in quanto donne”, torno a ripetere che a volte non basta essere donna per capire come vivono le donne e quali siano i loro problemi quotidiani. Altrimenti non dovremmo assistere a certe dichiarazioni, per esempio in merito alla salute sessuale e riproduttiva delle donne e sulla 194. Altrimenti non avremmo donne nelle istituzioni che di fronte agli ennesimi femminicidi non proferiscono parola. Non ci si ferma nemmeno di fronte a questo. Desumo sempre più spesso che per molte la violenza contro le donne è una faccenda di scarso valore. Continuate a fare i vostri selfie e la promozione di voi stesse, mi raccomando, non sia mai che dimostriate di avere un po’ di autonomia e di sensibilità. Continuate a fare la vostra quieta vita, pensando che la violenza sia un problema a voi estraneo. Quindi è necessario scegliere attentamente le nostre rappresentanti. Abbiamo bisogno di ben altro, di ben altre sensibilità.

Le vite delle donne non sono qualcosa di secondario, se non ci si interverrà adeguatamente, l’intera società sarà segnata da questa scelta.

Quando ci consigliano di soprassedere sui temi che sentiamo più vicini e prioritari, che così ci auto-ghettizziamo, è già un’intromissione e il segnale che stiamo percorrendo una strada sgradita a chi ci vuole mansuete. Un segnale che dovrebbe indurci a continuare su quel versante. Ma non per tutte è così. Quando parlo di differenza, parlo di un vissuto, di una riflessione, di un approfondimento, di una ricerca diversa. Un processo e un cammino che non sono tracciati da nessuna parte, ma che maturano e dovrebbero maturare con le donne stesse, in modo libero, differente appunto. Il partecipare senza tutto questo bagaglio è un partecipare che prima o poi rischierà di subire passivamente e magari anche inconsciamente il modello maschile: senza basi non saprà riconoscerlo, resistergli, proponendo un’alternativa concreta, tangibile. La presa di coscienza, insieme a una consapevolezza della necessità di esprimere altro, di trovare nuove parole e nuove espressioni politiche, nuovi metodi e nuove soluzioni realmente e autenticamente nostre, devono avvenire spontaneamente, a volte avviene per vicinanza, accostandosi a coloro che questo percorso lo hanno già avviato. A volte ci arrivi dopo ripetuti scossoni nella vita di donna. Ciò che si deve fare è invertire la tendenza per le generazioni che verranno.

Hanno ammazzato l’idea di conflitto positivo, l’idea di lotta sana e rigenerativa per non abbandonare a priori l’idea di un mutamento possibile, ci hanno fatto credere che l’unica via fosse quella segnata, ancora una volta dagli uomini. Ci hanno illuso di poter esserci, quasi sempre raccomandandoci di essere “brave” nel senso di mansuete, di seguire i consigli e di esserci in vece di qualcun altro. Burattine neanche tanto inconsapevoli, perché non credo che non ci si possa accorgere di essere semplicemente questo. Pallide imitazioni di una rappresentanza delle istanze delle donne piena. Le eccezioni ci sono certo, ma sono ancora troppo rare. Dov’è la nostra voce autentica? Quella che da sempre hanno cercato di soffocare?

Rispondo a Alessandro Bertante, che ha tracciato un ritratto vero di Milano e di ciò che è movimento o meglio del movimento che dovrebbe esserci. La mia generazione è quella del grunge, degli anni ’90, di coloro che hanno attraversato il berlusconismo e si sono ritrovati ad essere i primi precari, tramortiti, impegnati a sopravvivere, accartocciati sui propri problemi, in un contesto sempre più individualizzato, sempre più chiuso. La mancanza della dimensione collettiva, da vivere e dalla quale leggere i fatti e per trovare soluzioni, è tutta qui. C’è chi ci definisce la generazione perduta, eppure una manciata di noi è ancora qui che resiste e ci crede. Danno per scontato che siamo tutti ormai assuefatti e rassegnati. Non è caricatura se mettiamo a disposizione il terremoto che ha frantumato le nostre esistenze e cerchiamo di invertire la rotta. Io porto con me questo vissuto e non è roba posticcia. Metto a disposizione me stessa, sono scomoda e pago in prima persona, se c’è da manifestare io ci sono, perché tuttora penso che non si possa lasciare il campo al vuoto, all’indifferenza, all’individualismo, all’opportunismo, al clientelismo, al familismo.

La mia testimonianza politica lotta contro tutto questo, ma sono consapevole che se resta isolata, non ci si schioda dal pantano. Sono cresciuta pensando che non si potesse restare indifferenti, che vivere aveva senso solo se fossi restata coerente, ma non per mera testa dura (che tra l’altro ho) o in modo sterile, ma perché convinta pienamente che l’omologazione sarebbe stata la forma di autolesionismo più nociva. Mi rendo conto che bisognerebbe osare di più, che spesso siamo innocue, l’ho rilevato più volte, ma quando manca la dimensione collettiva, tutto è molto più annacquato.

Finché non riusciremo a tornare lì, resteremo innocue, finché non rinunceremo a quelle briciole di parità che ci fanno sentire dentro il sistema e che ci rendono inefficaci e mansuete, non produrremo DIFFERENZA e non sentiremo nemmeno la spinta a tornare a lottare per contrastare un pericoloso arretramento in tema di diritti. Pensiamo solo a quanto la dimensione individualista ha minato il movimento delle donne.

Lo slittamento verso l’io, verso un ego avulso dal contesto, depositario di una delle tante verità è tipico delle nostre società postmoderne. Il partire da noi stesse deve avere uno sbocco in una dimensione collettiva, con uno sguardo ampio sui problemi, sulla società, sull’economia, sui diritti, sul mondo del lavoro e del welfare, altrimenti non ha senso e non matura nulla per il mondo in cui tutte noi viviamo.

Se ognuna guarda unicamente alla propria libertà, cessando di ascoltare le altre, compirà un cammino a metà. Il pericolo di nuove servitù mascherate da libertà è dietro l’angolo. Alcune di noi si sono dimenticate che la dimensione collettiva è l’unica che ci permette un confronto ed è in grado di liberare le nostre riflessioni, le nostre letture del mondo attraverso lenti nuove.

Non dobbiamo illuderci di bastare a noi stesse, la dimensione collettiva è necessaria. Il confronto tra noi lascia emergere le incongruenze, gli errori, i punti su cui concentrarci, ci rende vigili, aperte verso l’esterno e non chiuse in noi stesse. Non tutte le scelte sono libere in assoluto, non basta affermare qualcosa perché essa sia esattamente così come l’abbiamo affermata. Spesso ci sono sfumature che il concetto di scelta rischia di coprire, di celare a uno sguardo superficiale. Infine, non dobbiamo dimenticarci di porre al centro delle nostre analisi anche le questioni socio-economiche, perché se perdiamo l’abitudine di raffrontare le nostre riflessioni al contesto in cui ci muoviamo e in cui viviamo, rischiamo di perderci alcuni pezzi del puzzle, correndo il rischio di essere facilmente strumentalizzate, ricondotte a soluzioni preconfezionate da altri.

Non si può prescindere da una critica severa al sistema economico-produttivo capitalista e liberista, funzionale alla sopravvivenza del patriarcato. Tutto viene facilmente “ripulito”, “rimarchiato”, “riletto” per renderci addomesticate e addomesticabili, innocue e felici di essere “ancelle” sempre di quel potere che non è mutato, ha solo reso più impalpabili i suoi strumenti. Per questo in molte sono pronte a sostenere che la parità è raggiunta e che non c’è più bisogno di femminismo. Questa deriva è il risultato di un certo tipo di femminismo che ha annacquato tutto nella libertà di scelta individuale e fine a se stessa. Non si tratta di scegliere un femminismo ortodosso o “adeguato”, meno “libero”, ma di conciliare un punto di vista personale, con un contesto in cui non si può fare a meno di tener presenti i fattori della collettività, le variabili socio-economiche. La mia libera scelta non può diventare vessillo per un modo di agire svincolato dalle regole, altrimenti sotto la bandiera del femminismo potrebbero passare nuove forme di sfruttamento e di servitù, mascherate da libertà personali. Occorre ri-codificare il mondo in cui viviamo, rendendolo anche a misura di donna. Vogliamo renderci strumenti di operazioni commerciali, di miti costruiti dal patriarcato per imbrigliarci e indottrinarci? La dimensione collettiva del movimento ci aiuta a non isolarci nel nostro egoistico e parziale punto di vista, ci porta a considerare il cambiamento necessario come un percorso di tutte. Non dobbiamo farci usare e dividere perché di questo passo finiremo schiave di un modello economico che già da tempo investe le relazioni tra le persone.

Tornando al tema della partecipazione delle donne nelle istituzioni, per me non può mancare quanto sinora rimarcato. Dobbiamo chiamare le cose con il loro nome, tornando a nominare e a evidenziare che il patriarcato nelle sue mille forme non è mai morto, anzi è vivo e vegeto ed è purtroppo introiettato nella vita e nella mentalità di tante donne.

Le differenze economiche e sociali dobbiamo guardarle dritto in faccia, la situazione di emarginazione e di lesione dei diritti in cui vivono tante tantissime donne non può essere buttata in un calderone unico, abbandonata alla buona volontà (mai scontata) di una politica che continua ad avere un approccio neutro e che non riesce ad ascoltare adeguatamente le donne. Io quelle voci le ascolto da sempre e sono loro il motivo della mia militanza, del mio attivismo in ogni occasione e in ogni luogo, in ogni contesto, porto avanti le loro istanze. Porto con me i loro volti che dicono a volte più delle parole. Sono loro che mi danno il coraggio, che mi rigenerano ed è per loro che non mi fermo. In ogni mia azione politica è come se le portassi con me, come se ci tenessimo per mano. Perché è la solitudine che va sconfitta. Non ho rendite di posizione da difendere. Rivendico la necessità di una cura, di un’attenzione adeguata e dotata della giusta sensibilità su lavoro, salute, servizi pubblici, diritti fondamentali che siano affrontati finalmente con un’ottica di genere. Torniamo a chiedere interventi permanenti, strutturali, che non siano privilegio di pochi e che non siano oboli una tantum. Non ci accontentiamo. Rimuoviamo gli ostacoli di ordine economico e sociale che azzoppano i nostri diritti di cittadine, come sancisce la nostra Carta. Potremo partecipare pienamente solo se ci accorgeremo di questo. Resilienti, mai rassegnate. Perché le prime a pagare siamo sempre noi donne e quando il welfare familiare finirà o sarà prosciugato, non avremo vie d’uscita, dovremo inevitabilmente fare i conti con il fatto che non siamo state in grado, al momento giusto, di incidere sulle decisioni e sulle politiche di questo Paese, forse perché molte di noi hanno preferito difendere il proprio orticello, seguendo i suggerimenti di padri o padrini. Non potremo lamentarci se avremo privilegiato altre questioni e avremo messo da parte l’idea di una politica capace di interpretare anche le esigenze delle donne. Svegliamoci, non smetterò mai di ripeterlo! L’accesso è bloccato? Sblocchiamolo insieme, ma con regole e linguaggi diversi. Sinora abbiamo replicato. Promettiamoci un futuro diverso, differente. Torniamo a mobilitarci in piazza periodicamente per i nostri diritti! Non c’è altro modo. Il fallimento è non tentare. Il fallimento è non ascoltarci.

La politica mancante di voci autenticamente femminili non è mai un bene.

Il voto delle donne ha compiuto 70 anni. Onoriamolo sempre.

 

Suggerimenti di lettura:

https://simonasforza.wordpress.com/2015/12/20/capitalismo-e-oppressione-delle-donne/

https://simonasforza.wordpress.com/2016/01/15/autonomia-redistribuzione-parita-di-genere/

https://simonasforza.wordpress.com/2015/03/29/classe-e-patriarcato-due-variabili-per-il-controllo/

https://simonasforza.wordpress.com/2016/05/27/piacere-o-dire-la-verita/

https://simonasforza.wordpress.com/2014/07/03/le-donne-e-le-classi/

http://www.mammeonline.net/content/dall-UE-accordo-quadro-in-materia-di-congedo-parentale

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Chi Colpisce Una Donna, Colpisce Tutte Noi

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Come nasce? Il 30 maggio alle 14,23 scrivo sulla mia bacheca di Facebook un post a proposito di Sara Di Pietrantonio, ma in generale su una situazione di violenze di fronte alle quali non era possibile continuare a restare in silenzio. Soprattutto in riferimento alle istituzioni e a chi ha il potere di incidere nella realtà attraverso provvedimenti volti a sradicare la cultura alla base della violenza.

post iniziale

Ci siamo ritrovate in un piccolo gruppo a ragionare su cosa fare e il flash mob, l’idea di scendere in piazza e trovarsi per prendere parola su questo tema è nata spontanea. Abbiamo deciso di creare un evento Facebook per veicolare meglio la mobilitazione. Ho scritto un appello e l’adesione delle varie città, da nord a sud, è arrivato spontaneo.

appello evento

Ripreso poi in questo post.

È bastato semplicemente pensare che fosse possibile mobilitarsi per farlo. Senza grandi organizzazioni, senza titubanze, un fiume in piena tramite un semplice passaparola, fino ad arrivare al 2 giugno.

Era quello che avevamo auspicato nascesse quando lanciammo Noi non ci stiamo (qui e qui).

 

I risultati ieri in tutta Italia sono stati molto importanti. Guardate un po’ qui:

https://www.facebook.com/events/278672372469897/

Vorrei che non si perdesse il forte significato politico contenuto nell’appello di mobilitazione nelle piazze, riportato nell’evento Chi colpisce una donna, colpisce tutte noi. La concomitanza con il 2 giugno e il 70mo del voto alle donne servono a ricordarci che le nostre istanze sono politiche, chiamano in causa le istituzioni di ogni livello (locale e nazionale) e non siamo disposte a ridurre il femminicidio e la violenza contro le donne a fatti privati o a questioni emergenziali. Dobbiamo portare questi temi nella pagina politica. Non vogliamo pannicelli caldi. Non possiamo dimenticare che ci sono le vite delle donne di mezzo. Ecco perché ritengo prioritario il presidio nelle piazze, con i messaggi che sono stati manifestati. Non fermiamo la richiesta di un lavoro politico collettivo. Ieri abbiamo fatto qualcosa che va ben al di là di un drappo rosso, l’unico elemento riportato dai media mainstream, che hanno di fatto compiuto una censura del resto. Abbiamo compiuto il passaggio da una dimensione privata a una pubblica. Abbiamo superato solitudine e individualismo. Siamo tornate a una dimensione collettiva. Siamo tornate a confrontarci: ieri le riflessioni si sono soffermate sulla violenza in tutte le sue forme, toccando anche gli ambiti del lavoro e della salute. Abbiamo reso visibile in tanti luoghi pubblici il fatto che pretendiamo pieno rispetto dei nostri diritti da parte di chi ci governa. Un cambio significativo di rotta e di approccio. Abbiamo recuperato coraggio e forza. Un primo importante e complesso passo. Su questa strada dobbiamo insistere e martellare sino a che non avremo raggiunto gli obiettivi. Non perdiamoli mai di vista. Non dobbiamo restare all’ultima pagina dell’agenda politica. Ieri in piazza si avvertiva questo tipo di necessità e di modalità di lotta. In prima persona, senza deleghe ad altri.

Apriamoci, partecipiamo, facciamo sentire la nostra voce. Ha ragione Cristina Obber: “nonostante fossimo un centinaio c’era una bella energia, c’erano la rabbia e il dolore per Sara, voglia di stare insieme ed ascoltarsi, voglia di impegnarsi, rivedersi. e questo alla fine è ciò che conta.”

Un grazie immenso a tutte e a tutti, insieme possiamo fare tanto! Continuiamo a lottare insieme. Dobbiamo continuare… tra le donne ho avvertito un enorme bisogno di confronto e di tornare a sentirsi parte attiva di un cambiamento, parte di un gruppo. Facciamo rete, incontriamoci periodicamente. Facciamo diventare questo momento un appuntamento fisso, un presidio periodico per trovarci e confrontarci, per sollecitare una risposta dalle istituzioni, per chiedere che ci sia un intervento serio sulla violenza contro le donne e interventi per migliorare media ed educazione.

Anche il sottotitolo della vignetta di Stefania Spanò (che è stata uno dei fili conduttori dei flash mob nei vari centri italiani) era in linea con una rivendicazione politica forte.

“Perchè ora abbiamo la parola per dirlo, ma facciamo poco per evitarlo: ‪#‎femminicidio‬.”

 

Perché quindi non organizzare un presidio a cadenza fissa (settimanale?), un appuntamento per rendere permanente la nostra rivendicazione, per iniziare a creare una base di lotta e di dialogo tra di noi? Incontriamoci e progettiamo un lavoro sistematico di rivendicazione, su più binari, da quello virtuale a quello reale, locale e nazionale, dobbiamo interrompere il silenzio istituzionale e bloccare ogni forma di strumentalizzazione (non accettiamo che sostenitori dell’inesistente PAS si possano considerare interlocutori in tema di violenza di genere). Come ho detto più volte, pretendiamo misure e investimenti certi e celeri, per contrastare e prevenire la violenza, non briciole di interventi. Il cambio culturale necessita volontà politica. Non restiamo sole!

 

 

Qualche video da Milano: qui tutti gli interventi

 

Grazie a Eleonora Cirant per questo bel video:

7 commenti »

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