Nuvolette di pensieri

Mormora l'acqua del ruscello

Tra oggi e domani

capodanno

Tra oggi e domani passa un istante e questo frammento, questa scheggia di tempo non può significare molto. Segna un confine mentale che vale solo per noi umani, per noi piccoli primati sempre più avvinghiati allo scorrere del tempo, avidi di scoprire cosa ci riserverà il futuro. Tutte queste immaginarie briciole di passaggi “senza fine e senza inizio” ci aiutano a rimarginare le ferite o almeno ci illudono di poterlo fare. C’è un’unica certezza: il bagaglio di ricordi e di vita si appesantisce e ci cambia ogni anno di più, nel bene e nel male. Ci sono degli spartiacque a volte più rilevanti di altri. E quello che posso augurarmi è un’unica cosa: la salute. Speriamo che lassù mi sentano.

futuro

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La geopolitica scientifica per imparare a progettare il futuro

Prendo come spunto l’ottimo pezzo scritto dall’esperto di geopolitica Daniele Scalea. Ne condivido in pieno il pensiero, ma vorrei aggiungere un passaggio che manca. Quando si parla di classe politica miope e poco lungimirante, più interessata a concentrarsi sull’hic et nunc che al futuro più remoto, occorre precisare che in molti casi si tratta di posizioni determinate da una scarsa propensione alla cultura in generale. La caratura di alcuni personaggi non lascia intravedere granché. Non riesco proprio ad immaginarmi alcuni esponenti politici intenti in letture in grado di accrescere le loro conoscenze e ampliare le loro vedute. Nemmeno i loro spin doctor mi sembrano in grado di scalfire le loro menti, altrimenti i risultati non sarebbero così mediocri e farraginosi. Spesso manca una visione globale dei problemi. Se ci sono ancora tante spinte autarchiche, se si sente ancora parlare di chiusura a riccio in funzione antiglobalizzazione, se si diffondono posizioni reazionarie e nostalgiche, se i nostri politici partoriscono leggi anacronistiche e indegne di uno stato democratico progredito, diventa difficile auspicare che una parte di una siffatta classe dirigente possa coltivare una sensibilità idonea a cogliere in modo adeguato le sfide della globalizzazione. Non credo che molti politici siano in grado di soffermarsi sulla posizione geografica in cui si trova incuneata la nostra penisola e sappiano darne una chiave di lettura secondo logiche più complesse. Saper cogliere il frutto degli intrecci delle “relazioni tra società umane all’interno degli spazi e in un’ottica di lungo periodo” implica una capacità di studio permanente, di uno spirito dedito all’apprendimento continuo, che non sia imbalsamata in un gomitolo infeltrito di teorie immobili e ammuffite. Il pensiero politico è fermo se ripetiamo passivamente schemi e strumenti elaborati altrove, in altri contesti socio-economici e in altri tempi storici. Siamo bloccati se non siamo in grado nemmeno di capire dove (in termini non solo geografici) ci troviamo ora, da dove proveniamo e dove intendiamo andare non solo domani: dovremmo essere in grado di proiettarci al giorno in cui i nostri figli avranno la nostra età. Siamo nelle sabbie mobili, perché siamo chiusi nel nostro antro. Siamo immobili in attesa non si sa di cosa. In questo anche l’UE ha dimostrato i suoi limiti e la sua timidezza nell’ampliare l’orizzonte del dibattito e della ricerca di soluzioni. Questo, mi dispiace, denota una forte lacuna di cultura politica.

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SEMPLICEMENTE BUON NATALE!

Che la gioia di un sorriso raggiunga e riscaldi tutti i cuori!
Simona

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I diritti dei lavoratori al macero

In questo pezzo uscito sull’Observer del Guardian, si parla di lavoro ai tempi delle multinazionali come Amazon. Si parla di erosione di due secoli di diritti, di elusione fiscale, di condizioni di lavoro massacranti e di paghe talmente misere che in pratica richiedono l’intervento di sussidi pubblici continui. Il futuro non potrà essere migliore se decideremo di mettere da parte qualsiasi forma di buon senso e la stessa dignità umana, in cambio di un lavoro sempre più da schiavi.

Tutti i movimenti globali oggi vertono su questo punto nevralgico dell’evoluzione del modello capitalistico: “La dignità è la radice emotiva che unisce tutte queste proteste nate in contesti diversi e con diverse rivendicazioni”, come sostiene Manuel Castells in questo articolo.

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Arrivederci Presseurop!

Presseurop

A partire dal 20 dicembre 2013, chiude, speriamo solo temporaneamente, la finestra multilingue sulla stampa europea: PRESSEUROP.

Un importante esperimento editoriale iniziato nel 2009 e che oggi sembra cadere vittima dei tagli imposti dall’UE, che a quanto pare non è più interessata a finanziare il progetto. Una ulteriore perdita per il giornalismo e l’informazione.

Speriamo che si tratti di un arrivederci..

Facciamo sentire la nostra voce!

Ho firmato la petizione “To @VivianeRedingEU: Save @Presseurop!” su Change.org.

È importante. Puoi firmarla anche tu? Qui c’è il link.

Grazie!

Simona

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L’arduo mestiere del genitore. Seduta di autoanalisi, autoguidata.

Fare i genitori è un compito complesso, delicato, arduo e costellato di errori, che spesso attraversano le generazioni e si perpetuano identici di padre in figlio. Ci sono genitori che non perdono occasione di lodare e di magnificare le gesta dei propri figli, come esistono altri che non fanno altro che opprimere, denigrare, offuscare in ogni modo l’autostima dei figli. Gli eccessi, si sa, sono entrambi dannosi, ma nel secondo caso si rischia di generare individui insicuri, che si sentono sempre sotto giudizio, che vivono sempre sotto attacco e sono abituati unicamente a sentirsi inadeguati, fuori luogo, insomma delle merdacce per dirla alla Fantozzi. I danni, come dicevo, si possono replicare all’infinito, di generazione in generazione: i figli possono riprodurre il metodo educativo sui propri figli e qualora non lo facciano, ci penseranno i nonni a trasmettere delle immagini fuorvianti ai nipoti. Ci sono genitori che sviliscono i propri figli a vita e continuano a farlo anche davanti ai nipoti, il che finché sono piccoli non produce danno, se non l’ennesimo schiaffo di umiliazione a danno dei figli. I problemi sorgono quando i nipoti crescono e fanno fatica a capire come mai i nonni hanno una così scarsa considerazione dell’operato di un genitore. Sarebbe opportuno prendere le distanze il prima possibile e troncare sul nascere certi comportamenti, parlandone e cercando una mediazione. Se ciò non dovesse essere sufficiente, sarebbe meglio troncare ogni relazione. Ne parlo, perché ne so qualcosa e mi trovo ancora nella prima fase. Il senso di inadeguatezza è sempre stato presente in me, ma non pensavo derivasse dall’esterno. Solo di recente ho compreso che si è trattato di un lavoro che parte da lontano e si è sedimentato in anni di educazione all’annientamento. La frase ricorrente dopo ogni mia piccola conquista era: “ne devi mangiare ancora di pane duro”. Un modo per non farmi riposare sugli allori, che nascondeva uno svilimento di ogni mio sforzo. Non ho mai sentito altro. Le uniche figure che mi hanno fatto sentire amata per quello che ero sono stati i miei nonni materni, che purtroppo ho perso troppo presto. Mi sono nutrita del loro amore incondizionato e sono riuscita a sopravvivere e a crescere meno arida. Loro erano capaci di guardare oltre la mia corazza. Per fortuna, a un certo punto l’influsso dei miei genitori si è ridotto. Partiamo dall’inizio. Mio padre ha schiacciato mia madre dal primo istante. Mia madre ha, a suo dire, cercato di resistere e poi si è arresa. Ultimamente a questo appiattimento si è aggiunta una nuova prassi: la difesa a oltranza di mio padre, pur di mantenere la pace familiare, che poi coincide semplicemente nel far fare a mio padre ciò che vuole e permettergli di disporre degli altri come solo un sultano può fare. Naturalmente ogni opposizione diventa da stigmatizzare e da distruggere. Con gli anni ho capito che in fondo, se una persona finisce con l’appoggiare certi atteggiamenti è perché le va bene così; se si accetta un modo di fare, senza opporsi o cambiare strada, è perché, in fondo, si è uguali. Non puoi mandare giù il boccone amaro all’infinito. Per cui ho capito che la longevità del matrimonio dei miei genitori si basa sul fatto che sono in realtà identici. Le numerose pantomime di separazione non erano serie. Se decidi di accettare certi comportamenti, sei connivente e in fondo ti sta bene. Il lamento di mia madre è solo un paravento, una facciata da mantenere. Pensavo che non fosse una calcolatrice, invece a quanto pare lo è. Ogni cosa dev’essere al suo posto, altrimenti si scatena l’inferno, salvo poi fare la vittima di tutto. Quando si tratta di dire che sono una schifezza e una nullità è al fianco di mio padre, sempre. I suoi tentativi di mantenere un po’ di autonomia sono stati rari. Credo che l’unica cosa che le interessi sia mantenere la facciata di armonia, al primo posto c’è ciò che gli altri pensano della sua famiglia: poca sostanza, molta estetica da famiglia del mulino bianco. Ho passato tutta la prima parte della mia vita a cercare di accontentare i miei, di essere brava, di fare i salti mortali per compiacerli. Poi ho smesso, perché ho capito che era una missione impossibile e che sprecavo solo tempo ed energie. Ho provato ad affrancarmi dall’idea che mi avevano instillato in testa, che fossi un’incapace cronica. Forse, questo mi è servito, perché ho deciso di fare tutto da sola, senza appoggiarmi mai a nessuno. Lo devi a te stessa, altrimenti, rischi di rimanere inchiodata lì,  dove vorrebbero che tu fossi. Così nello studio e nel lavoro, sono sempre giunta alla meta con le mie forze. Ho compreso quanto fosse falsa quell’immagine di incapace. Ho lottato per sbarazzarmi delle varie etichette che mi sono state attribuite, perché non volevo allinearmi, non volevo obbedire ciecamente alla linea impartita da mio padre. Oggi, i miei ci riprovano con mia figlia, non perdono occasione per denigrare il mio ruolo di genitore, mi smentiscono e fanno tutto il contrario di ciò che io vorrei. Finora,  non è successo nulla, mia figlia è troppo piccola per capire, ma siamo al confine ed ho paura che ci possano essere danni seri. Il mio rancore svanisce presto e mi ritrovo a dirmi che non posso troncare ogni contatto, che non posso arrogarmi il diritto di troncare la relazione nonni-nipote. Ma ho paura. La stessa paura che mi assaliva in passato e che a volte riaffiora, quella di sentirmi una merdaccia e di perdere la stima, in questo caso di mia figlia. Mio padre già critica il fatto che mia figlia sia troppo attaccata a me, ma lei ha meno di due anni, quale sarebbe la normalità? Quella ex bambina fragile e insicura è ancora lì, dentro di me, con il suo senso di inadeguatezza. Oggi, rivedo alcune cose della mia infanzia, con un’ottica diversa. Mio padre era spesso assente e quando c’era bisognava stare attenti a non farlo arrabbiare, pena l’inizio di una delle sue “spedizioni punitive”, che consistevano in una sua fuga a casa dei genitori, oppure in un mutismo lungo anche due settimane. Una specie di sospensione di ogni sua ‘incombenza’ familiare. Potete ben immaginare il clima. Durante la mia infanzia ho assistito ad ogni genere di lite. A volte pensavo che fosse colpa mia. Mia madre giocava raramente con me, era sempre troppo occupata a fare altro. Infatti, ricorda poco o niente della mia infanzia. Allora, io la capivo e cercavo di non farle pesare troppo questa assenza, giocavo da sola, facevo i compiti da sola, chiedevo poco o niente. Ultimamente, ho capito che era un’assenza involontaria solo a metà: anche oggi, sostiene di voler trascorrere un po’ di tempo con la nipote, ma ha sempre qualcos’altro da fare, per cui anche adesso la vedi in difficoltà quando deve trascorrere anche solo 5 minuti con la nipote. Saranno solo mie congetture? Quel che è certo è che non voglio che mia figlia ricordi la mia assenza. A volte penso che dovrei risolvere questi problemi che mi porto dentro, perché potrei condizionare il mio futuro e la vita di mia figlia. Ma, l’unica strada è quella di iniziare a perdonare e a perdonarsi soprattutto. Devo scrollarmi di dosso il peso del fallimento totale che mi è stato appiccicato addosso. Forse sono ipersensibile, ma le parole a lungo andare scavano a fondo, quello che ti è stato tolto non torna più, i buchi nell’anima non si riparano facilmente.

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Lasciamo ai bambini scegliere come e quanto giocare

Incredibile, a Natale si riapre il dibattito sui giocattoli, sul gioco dei bambini e via discorrendo.

Oggi ho letto ben due articoli sull’argomento gioco.

Il primo, uscito sull’Huffington Post, verte sui giocattoli sessisti: qui. Sinceramente la trovo una polemica sterile e pretestuosa. Porto il mio caso personale ad esempio. Da piccola, ricordo che all’asilo, veniva applicata ancora una rigida divisione di genere per i giocattoli. In pratica, era sconsigliato il gioco con le macchinine, i pupazzetti degli indiani o giocattoli di uso prevalentemente maschile. Questo per me era un supplizio, anche perché ero costretta a trascorrere gran parte del tempo a disegnare e a colorare (cosa in cui ero e sono rimasta negata, nonostante mi applicassi e mi sforzassi di migliorare). Il mio rammarico era questa linea di confine, che le mie maestre avevano segnato. Sarebbe stato meglio lasciarmi la possibilità di scegliere. Ma non per questo disdegnavo i giochi da bambina, infatti, adoravo le bambole, stirare, cucinare. Insomma, il mio gioco è stato un modo per prepararmi alla vita adulta, ad imitare i grandi, ad essere autonoma e autosufficiente da adulta. Tutto questo gioco di simulazione, mi ha consentito poi, quando sono diventata puù grandicella, di passare dal gioco al vero e proprio “fare”. Quando sono andata via di casa a 23 anni, per lavorare a Milano, a 1000 km da casa, non ho subito nessun trauma, perché ero in grado di cavarmela da sola. Il gioco è stata una componente essenziale della mia crescita e non mi sono mai sentita discriminata se ricevevo in regalo un gioco da bambina. I bambini devono essere lasciati liberi di scegliere come giocare, devono poter sperimentare autonomamente. Questo non significa lasciarli giocare da soli sempre, ma accompagnarli nelle scoperte e guidarli in modo soft, perché non è il giocattolo, l’oggetto in sè, che fa crescere: l’interazione e il confronto con gli altri, che siano coetanei o adulti, sono i combustibili indispensabili affinché scatti la scintilla che porta ad apprendere qualcosa. Con mia figlia lascio che lei si accosti ai giochi in modo spontaneo, glieli propongo, le faccio capire grosso modo il senso e poi la lascio andare in avanscoperta da sola. Devo dire che le piacciono i Lego, come le pentoline o le macchinine. Lei adora imitarmi e fa tutto con una naturalezza incredibile. La vedi pulire e cucinare come una piccola donna di 80 cm. Nessuno le ha mai “suggerito” nulla, ha fatto tutto naturalmente, istintivamente. Non posso mica impedirle di giocare a cucinare perché poi potrebbe crescere con il tarlo della casalinga! Ho scoperto che ci sono dei comportamenti spontanei, che non possono cadere sotto la scure di educatori che hanno paura che vengano inculcati valori sessisti. Quindi bando ai bacchettoni e lasciamo che i nostri bimbi sperimentino tutto, in totale libertà e scevri da ogni pregiudizio di sorta. Lasciamo spazio alla loro immaginazione!

Il secondo di Peter Gray, uscito sul magazine Aeon, è illuminante, perché finalmente qualcuno si pone il problema di come la nostra società ha “ingabbiato” i nostri figli in una serie di attività, che li allontanano sempre più dal gioco, che invece è molto molto importante.

Buona lettura!

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Tutto e niente. Il cambiamento e la transizione a patto di..

Crisi, recessione, economie ferme, aumento del divario tra ricchi e poveri, malcontento diffuso con un’annessa sfiducia nei confronti della classe dirigente. Sono temi che ristagnano nei dibattiti di tutti i giorni, ma che stentano a trovare una soluzione. Se si osservano questi problemi da un macro-punto di vista, si potrebbe trovare nelle distorsioni insite nel capitalismo la causa comune. Il capitalismo genera ricchezza e benessere, ma senza gli opportuni aggiustamenti da parte dello stato, si corre il rischio che si creino sacche di persone molto benestanti e masse di gente che a mala pena sopravvive. La distorsione è data da una fede esasperata nelle presunte capacità del mercato di trovare dei meccanismi di auto-aggiustamento. La scelta di affidare il sistema mondo a questo modello di sviluppo è stato un gioco d’azzardo calcolato e meticolosamente coltivato ad arte. Nulla si perpetua per caso. Il modello capitalistico globalizzato ha espanso e diffuso le sue distorsioni, i suoi tarli e ritengo che la strada imboccata sia in parte un processo irreversibile. Vogliamo beni senza limiti, a prezzi sempre più stracciati, welfare, stili di vita al di sopra delle nostre disponibilità, tutto a portata di mano, non importa a quale prezzo. Ce ne freghiamo di pensare quando andiamo a votare, salvo poi denigrare la classe dirigente. Poi ci lamentiamo, piangiamo e ce la prendiamo sempre con gli altri. Ci facciamo manipolare dai populismi che cavalcano il malcontento e la crisi. Ci facciamo infarcire di una informazione sempre più di parte e che ci lascia più aridi e delusi di prima. Siamo passivi e lamentosi. La nostra incoerenza ci rende difficilmente difendibili. A questo si aggiunge una prassi diffusa: una passione per la difesa del nostro status quo, del nostro orticello, di una sciocca rappresentazione ‘nazionale’ dello spazio europeo. I problemi che affliggono l’Occidente non sono da affrontare a livello di singolo stato o a zone. Occorre uscire da logiche unilaterali e di singoli capitani coraggiosi. Le variabili economiche e le dinamiche in gioco sono talmente complesse e interconnesse che occorre instaurare un nuovo corso unitario. Le soluzioni devono essere omogenee e non possono venire da semplici programmi nazionali, qualora se ne abbia si abbia il coraggio di riformare seriamente. L’ampio respiro dev’essere la regola delle politiche per risolvere i problemi cruciali del nostro immondo modello di sviluppo e di falso benessere a buon mercato. Il cambiamento deve passare attraverso una mutazione di abitudini poco virtuose ed egoistiche. La soluzione non potrà essere indolore e non dovrà proteggere benevolmente coloro che hanno prodotto solo danni e che hanno mangiato abbondantemente, ingurgitando avidamente ciò che sarebbe stato utile redistribuire. La mancanza di un efficace sistema di redistribuzione e di riequilibrio delle risorse, delle forze e dei poteri ha prodotto il disastro attuale. Così non può andare. Non ne usciamo senza un cambio radicale di mentalità, di abitudini e di modus vivendi. Vogliamo il cambiamento, ma senza smuovere veramente niente a fondo. Così non funzionerà mai.

Consigli di lettura:

  • Caroline De Gruyter, NRC Handelsblad: Problemi comuni, da Internazionale n° 1031 qui

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La prima percezione che si autoavvera

Senza parole. La Madia qui alla sua prima uscita da neoresponsabile del lavoro del PD.

Scusate, ma ci sono delle cose che per me restano senza una spiegazione plausibile.

 

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La cultura di sinistra non è morta

Carlo Patrignani ci regala un altro incisivo post, che ci porta a riflettere ancora una volta sull’abc della cultura di sinistra, che non è morta, ma che chiede di tornare protagonista, pena lo sconvolgimento dell’organismo società. Ci sono dei valori che sono connaturati all’uomo, per riconoscere e per salvaguardare i quali ci sono voluti secoli di battaglie. Perdere per strada questi principi significa smarrire l’identità e il senso in toto.

“C’é piu’ cultura di sinistra, e socialista in particolare, nel Paese di quel che riluce e ‘crede’ il nuovo Pd del ribelle Matteo Renzi, lanciato verso una modernità asfittica, superficiale, e senza rapporto con la realtà umana”.

“Ci sono, eccome, valori: liberta’, uguaglianza, giustizia sociale, laicita’, che quando e se minacciati, mobilitano, generano la ‘ribellione’ non violenta delle persone”.

“E, in fondo, e’ acquisito il superamento marxista della soddisfazione dei bisogni, cui una certa sinistra era avvinghiata, rispetto a chi invece fece della conquista dell’aborto, come del divorzio, e dell’art.18 dello Statuto; della scuola dell’obbligo e della sanita’ pubblica e delle 150 ore di formazione continua, che non diedero vantaggi economici ma beni immateriali più preziosi, una battaglia, socialista, di liberta’, uguaglianza, giustizia sociale e laicità“.

Trovo molto interessante il richiamo di Patrignani alla posizione di Gramsci in merito alla povertà e all’opportunità dell’elemosina: “L’elemosina e’ un dovere cristiano e implica l’esistenza della povertà”. Il cambiamento perciò passa attraverso il superamento di questa pratica, l’unica strada per la guarigione dalla miseria. Ci sono delle conquiste che danno dei vantaggi più duraturi e cospicui di quanto può avvenire con la soddisfazione del bisogni immediati.

Anche l’editoriale di De Mauro su Internazionale di questa settimana cita Gramsci.

“Trascurare e peggio disprezzare i movimenti così detti ‘spontanei’, cioè rinunziare a dar loro una direzione consapevole, ad elevarli ad un pianosuperiore inserendoli nella politica, può avere spesso conseguenze molto serie e gravi. Avviene quasi sempre che a un movimento ‘spontaneo’ delle classi subalterne si accompagna un movimento reazionario della destra della classe dominante, per motivi concomitanti”..

Il pericolo di non saper legger la realtà e i fatti può portare anche a conseguenze molto gravi.

Se “asfaltiamo”, rottamiano e basta,  spesso corriamo il rischio di non adoperare la giusta intelligenza per non smarrire la rotta e le conquiste fatte.

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Volemose bene

Alcuni hanno inaugurato una nuova era, definendola pax renziana. Io la vedo più come un “volemose bene” e mettiamoci una bella pietra sopra, chiudiamo tutte le polemiche e le questioni spinose e indigeste a chiave in una scatola e sotterriamola bene. Con buona pace di tutte le richieste di chiarezza. Eh no! Questo sarebbe come una porta in faccia al buon senso. Dopo la distribuzione di incarichi e il restyling del sito del Pd, che ora sembra diventato in tutto e per tutto il partito di uno solo, si apre la fase in cui il nostro segretario dovrà muovere le sue pedine e svelare i suoi piani. Altrimenti, ci saremmo tenuti la transizione di Epifani a oltranza. Ma si sa, ormai le arti di rinviare e di temporeggiare sono diventate la norma.

Ho rimuginato un po’ sulle primarie e ho deciso di scriverci ancora su stanotte, in preda a una tosse secca che non mi consente di dormire. Forse è il mio malessere che mi spinge a scrivere ancora su questo tema. Ho compreso che di errori veri e propri non ce ne sono stati, se non una ingenuità di fondo e una estrema fiducia nella capacità di ragionamento dell’elettore medio della sinistra. Ho scoperto che coloro che erano sempre stati avvezzi a ragionare e a scegliere consapevolmente e sulla base di criteri oggettivamente convincenti sarebbero giunti comunque alla conclusione di votare per Civati. Convincere gli altri, si è rivelata un’impresa spesso deludente. La cosa sconvolgente era sentirmi dire che tanto avrebbe vinto Renzi e che il mio impegno era vano. Sapevo di essere quella delle cause perse, ma questo non voler proprio neanche provarci mi lasciava basita, soprattutto se il mio interlocutore era giovane. Ormai ci siamo talmente abituati a seguire la strada battuta e a non seguire più le idee che noi riteniamo valide, ma quelle che gli altri ci portano a pensare tali, che non ci imbarchiamo se non siamo sicuri di essere sul cavallo vincente. Poi mi si deve spiegare cosa mai ci fosse in palio? Sì, lo so, io ragiono da pedina di scarso valore, sono la scheggia che pretende di scalfire anni e anni di prassi consolidata di politica imbolsita e inpoltronita. Poi ci sono coloro che non sarebbero mai venuti a votare, delusi e recalcitranti a qualsiasi chiamata alla partecipazione. Costoro li capivo e li capisco ancora di più oggi, che vedo mettere una bella roccia sul bisogno di chiarire alcuni punti cruciali della nostra storia recente. Il nuovo segretario ha avuto la meglio in questo deserto ‘affettivo’ e culturale. Ho capito che le cose si devono costruire nel tempo e insieme, come ha fatto Pippo, ma che non è sufficiente. Ci sono fattori che esulano i contenuti e la solidità di un progetto. Ci sono macchine politiche che si muovono su terreni che assomigliano più a una campagna di marketing che a un partito. Noi civatiani siamo stati esclusi dai mezzi di comunicazione consueti, in cui si sono annidati questi strumenti di pubblicità di cui parlavo. Chi è abituato a non mangiarsi la pappa pronta, precotta e predigerita, sta altrove e si informa. Non da ultimo, le primarie aperte hanno fatto confluire alle urne sia coloro che erano veramente interessati, sia coloro che erano completamente avulsi e che magari non erano nemmeno degli elettori Pd. Non so, ma continuo ad essere perplessa sull’opportunità di questa apertura per l’elezione di un segretario. Ma oramai ci siamo e dobbiamo archiviare l’esperienza. Noi civatiani abbiamo peccato di orgoglio per un grande progetto, che era ed è una delle cose più belle e importanti che la sinistra ha saputo produrre negli ultimi anni. L’orgoglio ci ha annebbiato la vista su ciò che poteva essere compreso dall’elettore medio e ciò che lo avrebbe potuto solleticare. Siamo stati troppo concreti, puntuali, capillari nei temi trattati e nelle proposte. Non abbiamo venduto fumo, ma, come ho detto più volte, 20 anni di Berlusconi hanno lasciato il segno: la gente si aspetta lo show e la battuta facile. Frasi semplici, di facile consumo e digestione. Una politica fast food, per vincere. Vincere, ma per fare cosa? A questo punto vedremo come andrà. Renzi deve mettersi al servizio del PD e non farne un partito al suo servizio. Noi civatiani siamo ancora qui, con la stessa energia e vigileremo. Pippo alla fine della campagna aveva i segni della stanchezza e del suo impegno sul volto, questo mi ha portato a riflettere sulla passione politica pura. Provate a osservare le immagini di fine campagna di Renzi.. Lo so, sono dettagli, ma dicono molte cose.

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Il bilancio del PISA

Tanti, troppi dati, classifiche e dibattiti sui livelli di istruzione raggiunti e conseguiti dai vari Paesi. Una specie di concorso di bellezza per modelli spesso molto differenti, pronti a contendersi lo scettro del migliore. Sono da poco stati resi noti i dati del PISA 2012 (Programme for International Student Assessment, ovvero il programma che si propone di valutare gli standard di istruzione degli allievi di tutto il mondo) e sono iniziate le solite danze.

Per approfondimenti segnalo le analisi di Eurotopics (e qui) e di Le Monde qui e qui.

Quando si parla di istruzione non possono esistere le ricette perfette, valide in ogni luogo e in ogni tempo. Piuttosto, occorrerebbe riferirsi alle peculiarità del contesto socio-culturale in cui è incastonato quel dato modello, che può anche dover essere differente istituto per istituto. Un alunno non è un meccanismo perfetto, ma un piccolo tesoro di variabili incastonato in un ingranaggio che spesso può subire dei bruschi stop, degli intoppi da parte di fattori esterni imponderabili, provenienti da quel contesto esterno di cui parlavo. È inutile cercare di replicare metodi, strumenti ‘esotici’ che hanno avuto successo altrove. Occorre che una classe dirigente, degna di questo nome, elabori il suo progetto di istruzione. Trovo calzante l’analisi che fa Tullio De Mauro qui. Per i risultati, non dobbiamo aspettarci tempi brevi, si tratta di cammini che spesso coinvolgono più di una generazione. Ma occorre partire, senza indugiare troppo o lasciar marcire ciò che resta di buono delle nostre infrastrutture per la creazione di saperi. Per iniziare, recuperiamo i saper fare, accanto ai saperi teorici. Rendiamo i sistemi scolastici più aperti, più dinamici e meno spocchiosi.

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Nuovo corso o restaurazione renzi-guidata?

Vorrei tanto che fosse veramente l’alba di un nuovo corso. Sinceramente, a pelle, ho visto riproposte le stesse logiche di sempre. Una spartizione (tranne rari casi) in chiave di restaurazione renzi-guidata per non dare troppo nell’occhio. Tanti ricchi premi per aver ben servito la causa. Ci sono molti importanti spunti “ispirati” dal programma di Civati, ma la sostanza la si vedrà solo tra qualche tempo. Soprattutto, si vedrà se il nuovo manterrà lo smalto e non perderà per strada idee e buoni propositi. Quello che più mi preoccupa è l’ennesima rincorsa degli altri, questa volta nei confronti di Grillo. Un lessico e dei toni in linea con l’arruffapopolo, uno stile che serve ad ammaliare un pubblico che potrebbe essere tranquillamente berlusconiano. Ammainata la bandiera contro Silvo, oggi ci ritroviamo con le stesse dinamiche di gioco.

Trovo molto lucida l’analisi di Davide Serafin.

Al di là delle questioni di quello che sarà o potrà essere, per le quali ci vorrebbe la sfera di cristallo, mi preme soffermarmi su un altro aspetto: come ne escono le donne? Sulla base dei numeri, si direbbe bene. Dovremmo gioire solo sulla base di questioni matematiche? Io ho trovato la riproposizione di logiche che io chiamerei cotillon per un “giusto servigio” al capo. Mi sbaglierò, ma a me pare in gran parte questo. Poi non ci lamentiamo dei nostri ruoli subalterni e perennemente riconoscenti al sommo uomo di turno. I nomi sembrano funzionali a un riconoscimento di un lavoro di sostegno incondizionato. Qualcuno mi può dire perchè? Alcuni nomi della nuova direzione, sia uomini che donne, fanno venire al pelle d’oca. Ci sono donne, nella nuova direzione nazionale del PD, che avrebbero potuto tranquillamente farsi strada per le proprie competenze, senza elemosinare niente. Eppure, salgono sul carro del sicuro (?) vincitore per giungere a destinazione. Il problema non è seguire Renzi, ma non accorgersi che forse il carro non porterà mai a compimento le promesse che più ci riguardano da vicino. Sino a quando non vedrò i fatti, rimarrò di questa idea. Il cambiamento era altrove e molte donne, per puro opportunismo personale, non lo hanno capito. Io continuerò a mantenere uno sguardo critico e a non accontentarmi delle promesse. Sarò una fuori dal tempo e dalle logiche correnti, ma a me piace essere così. Le mie idee non sono in vendita e non sono compatibili con il servilismo dilagante. Io scelgo, non seguo ad occhi chiusi o a scatola chiusa. Continuerò il mio lavoro nel mio circolo PD con l’entusiasmo di chi può dire di non essere aggiogabile.

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Ancora sul lavoro, senza diritti

Avevo già scritto in merito allo sfruttamento del lavoro da parte dell’industria tessile occidentale. Giovanni De Mauro ne parla nel suo editoriale di questa settimana su Internazionale. I diritti calpestati sotto i nostri occhi, a due passi da casa nostra.

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I numeri non bastano

I numeri a volte non bastano a rappresentare e a interpretare la realtà. Tito Boeri, sempre molto attento, in questo articolo scivola un po’, dimostrando di avere una visione parziale del problema ‘occupazione femminile’. Lasciando perdere la questione minoritaria del numero di donne nei livelli dirigenziali, mi preme soffermarmi sulle soluzioni che Boeri propone per incrementare le percentuali di donne che lavorano: una su tutte, cancellare le detrazioni fiscali per i carichi familiari con esclusione dei figli. L’economista Boeri ragiona in termini astratti ed evidentemente non conosce i reali motivi per cui una donna ‘sceglie’ (più o meno felicemente) di non lavorare. Se in Italia ci fossero degli incentivi reali per le donne a lavorare e il sistema di welfare fosse più efficiente e capillare, la situazione non sarebbe così tragica. Soprattutto, molte donne non lascerebbero il lavoro dopo il primo figlio o per seguire un familiare bisognoso di assistenza. Perché, di questo parliamo. Con retribuzioni basse (in media inferiori a quelle maschili), lavoro precario (ammesso che lo si abbia), orari di lavoro impossibili, accesso al part-time semi inesistente, spesso non ci sono alternative e quelle cifre irrisorie che vengono destinate per i carichi familiari servono quantomeno a lenire delle scelte che semplici non sono. Le donne che non lavorano non sono più pigre di altre, ognuna porta con sé una storia, una necessità, il più delle volte non dettata da una scelta egoistica, ma da circostanze in cui non si hanno alternative. Stiamo attenti a parlare, perché poi gli effetti li vivono sulla propria pelle coloro che sono dei pilastri viventi di welfare fai da te. Gli incentivi di cui parla Boeri vanno bene se il mercato del lavoro e il sistema Paese funzionano a dovere. Ma prima, guardiamoci attorno: siamo veramente pronti? E non venite a parlarmi di incrementare il numero di asili nido, perché dimostrereste di voler vedere solo la punta dell’iceberg.

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Il futuro parte dal presente

Ieri rileggevo questa analisi del giornalista danese Mads Frese apparsa su Internazionale n° 1029, poco prima della vittoria di Renzi alle Primarie del PD.

Emblematico il passaggio: “Invece è arrivato il momento di svegliarsi e guardarsi intorno per capire com’è ridotto il paese. Anche se si preferisce guardare al futuro, un progetto di cambiamento può convincere solo se parte da una rilettura del passato più recente. Altrimenti tutto si risolve nella semplice rimozione della situazione attuale”.

Ecco, questo è il nocciolo degli errori sin qui commessi dalla sinistra: scavalcare i passaggi che avrebbero previsto un’analisi, un’autocritica, una comoprensione del contesto. Abbiamo cercato di fare un esercizio di prospettiva sbilanciandoci in avanti, ma senza chairire il punto di partenza, come se si volesse fare un’analisi e comprensione del testo di un libro ancora non scritto, a priori.

Oggi mi imbatto in questa intervista al sempre lucido, ma ahimè dimenticato, Achille Occhetto e trovo conferma su alcune delle mie perplessità. Non ci dovrebbero essere dubbi e tentennamenti sui valori connaturati a un partito che si definisce di sinistra:

“Uguaglianza, solidarietà, capacità di stare sempre e comunque con i più deboli, il pacifismo spesso abbandonato stando dalla parte di guerre ingiuste, la non violenza. Valori che vanno incarnati in programmi di governo”.

Invece si rincorre una politica vecchia di oltre un decennio, il capitalismo dal volto umano di Blair, che ha contribuito a generare alcuni germi della crisi attuale.  Si cavalca la solita onda del cambiamento indolore, ma senza aver presente cosa è diventata l’Italia oggi e di come occorra prima intervenire su alcune delle più accese distorsioni economico-sociali, prima di riuscire a posare le fondamenta di un futuro sano ed organico. Senza questi passaggi preliminari, costruiremo di nuovo sulle sabbie mobili e il nostro progetto di sinistra si consumerà in un fallimento.

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Metabolizzare il cambiamento: fase 1 (oppure del post-disorientamento)

Dopo una prima fase di disorientamento, credo di essere giunta al principio di un lento e lungo periodo che dovrò dedicare a metabolizzare il cambiamento di status sociale: da mamma in carriera (o meglio superlavoratrice mamma) a casalinga. In questi ultimi tempi mi sono arrivati degli epiteti non proprio incoraggianti: pensionata, fallita, debole e c’è chi mi ha detto anche che non ho mai combinato niente di buono nella mia vita e che l’unica eccezione è mia figlia (per ora, se non rovinerò anche lei). Non male vero? A questo punto sembrerebbe che la mia scelta difficile, presa dopo un anno terribile, in cui ho passato dei periodi infernali, cercando di mettere insieme una bimba di un anno e i miei orari di lavoro infernali, sia stata l’ennesima riprova della mia inefficienza e della mia profonda incapacità a tutto tondo. Sono uscita dal tessuto produttivo e per questo mi merito l’ostracismo, la denigrazione e la lapidazione verbale ed emotiva. A volte, quando dico che ho lasciato il mio lavoro a tempo indeterminato per dedicarmi a mia figlia e alla mia famiglia, le persone sbarrano gli occhi e mi prendono per matta. Forse un po’ lo sono, ma giuro che è tutto molto sensato. Coloro che mi hanno detto che sono una che non combina niente di buono, sono anche coloro che non hanno mai digerito e accettato il fatto che dopo la laurea mi sia cercata da sola un lavoro, sia andata a vivere a Milano e che ora abbia formato una famiglia a 1000 km da dove sono nata. Questo atteggiamento è molto diffuso e alcuni genitori preferirebbero tenersi i figli disoccupati e in casa fino a 40 anni.

Oggi, posso dire, che non rimpiango granché della mia vita precedente, in cui passavo le giornate a barcamenarmi per rendere possibile l’impossibile. Oggi mi è capitato di leggere questo pezzo e mi sono accorta che non sono poi tanto strana e che forse dovremmo essere più libere di scegliere il modello di vita che più ci aggrada, senza strane etichette o pregiudizi che ci rendono schiave passive di un sistema che aspira all’entropia e non alla felicità.

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Il Rana Plaza, qualche mese dopo..

Ecco il nulla di fatto, qualche mese dopo la tragedia al Rana Plaza, in un articolo di Jason Motlagh, uscito su The Nation.

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Il populismo che congela e critica l’Europa (ma la sfrutta)

Non ci sono dubbi, il vecchio carattere reazionario dell’Europa prebellica non solo non muore mai, ma riemerge con prepotenza. In ogni Paese europeo, senza distinzioni di ricchezza, si hanno rigurgiti nostalgici di vario genere da parte di formazioni spesso molto eterogenee, ma che hanno un unico comun denominatore: attingere alla pancia di una piccola borghesia delusa e impoverita dalla crisi, solleticandone gli istinti meno nobili. La ricetta è sempre la stessa: chiusura a riccio entro i confini nazionali, xenofobia, autarchia, critica dell’UE ecc. Salvo poi voler partecipare alle elezioni europee per poter usufruire della legittimazione e dei benefici economici delle formazioni politiche che siederanno in Parlamento. Lo spiega benissimo José Ignacio Torreblanca: Le tante anime del populismo europeo.

La questione non è da sottovalutare, se poi accadono fatti tragici come questo: La morte del rapper greco.

La crisi e le misure di austerità portano anche questi regalini.. E la Germania non può più continuare a fare la maestrina: Il successo tedesco

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La scuola in cerca di un pigmalione

Tullio De Mauro, ex ministro dell’Istruzione, sempre attento alle dinamiche dell’apprendimento nazionali e internazionali, torna a sottolineare la crucialità e l’importanza di un’educazione scolastica adeguata: Cercasi principe.

Ne voglio citare un passo significativo:

“Negli anni seguenti è emerso sempre più nettamente il nodo centrale: non si riesce a mantenere o rinnovare una buona scuola se un paese, una classe dirigente, non decide di investire non tanto e solo danaro per le retribuzioni, ma idee, impegno, stimoli perché si formino docenti di qualità. Sono loro gli “intellettuali organici” del “moderno principe” di cui parlò Gramsci, l’educatore che Hargreaves dichiara di preferire.”

Ancora una volta emerge cosa manca al nostro Paese: una classe dirigente responsabile e seriamente coinvolta che sappia infondere nuove energie al sistema società.

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