Nuvolette di pensieri

Mormora l'acqua del ruscello

Never surrender. Never give up the fight.

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Le ondate del femminismo, numerate, incastonate in varie epoche, temporalmente divise ma interconnesse, si susseguono e contengono ciascuna sempre il medesimo seme, nucleo fondativo che è quello da secoli, pur differenziando man mano gli obiettivi e i meccanismi nei vari periodi. Non si tratta solo la parità o del diritto di voto, c’è essenzialmente qualcosa di più basilare: la vita può, deve poter seguire un corso diverso, migliore, non essere per destino un percorso accidentato e infernale solo perché si è nate donne.

“L’idea che c’è un altro modo di viverla questa vita”.

Le donne sono la metà della popolazione e le loro istanze non possono essere cancellate, neutralizzate, strumentalizzate, invisibilizzate, ignorate.

Prendere coscienza, ciascuna a suo modo, di questa verità che ci accomuna, è la miccia che innesca tutto il resto e che rompe col passato.



Poter camminare senza mannaie, giudizi e sensi di colpa elargiti a grandi mani da una società maschio centrica. Si può vivere diversamente, uomini e donne, insieme. Guardando il film Suffragette, si scorgono molte delle questioni cruciali scoperchiate dal femminismo, tessendo un intreccio tra istanze sociali e di genere, alcune delle quali tuttora irrisolte: il lavoro minorile, l’assenza di tutele per la salute, la necessità di servizi per l’infanzia e di sostegni per permettere alle donne madri di lavorare, le violenze sul lavoro, le discriminazioni negli studi, le conseguenze di un ruolo e “posto” sociale esclusivamente “di madre e moglie”, non di cittadina e di lavoratrice portatrice di pari diritti, la durezza e la fatica dell’esistenza e della lotta, il giudizio sociale, le disparità salariali, la violenza domestica, le difficoltà dell’attivismo e le sue conseguenze, la patria potestà e un diritto di famiglia discriminante per le donne (solo nel 1925 vennero riconosciuti i diritti delle madri sui propri figli, in precedenza assegnati in esclusiva al padre), soprattutto in caso di divorzio e di questioni legate ai figli.

Ridicolizzate, svilite, vilipese, schernite, offese, silenziate, oscurate, imprigionate e colpite con ogni mezzo: questo ha accompagnato da sempre il lungo cammino delle donne per i diritti, per essere artefici della propria vita, per non essere più considerate proprietà, oggetti, appendici maschili. Un percorso difficile, per nulla privo di conseguenze dolorose sulle singole esistenze, perché nulla può essere come prima.

“Credo che, al di là delle vicende esistenziali di ognuna, l’eredità più grande che il femminismo ha lasciato alle donne, anche alle più giovani, sia quella di non accettare la vita come qualcosa di inevitabile e scontato, ma iniziare a chiedersi perché, ascoltare i propri desideri, chiedersi di cosa si ha bisogno, che cosa manca.”

Da “Come il mercurio” di Carla Marcellini

Un cambiamento che doveva passare attraverso il riconoscimento del diritto di voto attivo e passivo, perché solo l’elezione di donne in parlamento poteva permettere alle donne di “fare” le leggi, partecipando a un processo che per anni è stato appannaggio esclusivo maschile. Certo, il raggiungimento della rappresentanza non è mai stata e non è la garanzia di un lavoro dalla parte delle donne, questo credo che lo abbiamo già ampiamente sperimentato. Non è roba da pallottoliere. Così come sappiamo che può esistere un lavoro trasversale tra donne di diversi colori politici per il raggiungimento di obiettivi importanti. In ogni caso, una rappresentanza consapevole del poter compiere la differenza è fondamentale. Purtroppo, possiamo ampliamente sostenere che finché la selezione sarà grandemente in mano maschile, non potremo aspettarci molto. Ma lo stesso vale per le collezioniste di poltrone, di ruoli, di candidature e di incarichi, esattamente come da secoli fanno gli uomini. La strada è tutta in salita finché non cambierà a fondo la cultura e l’atteggiamento/rapporto con il potere.



Avere piena gestione della propria vita, avere un posto pienamente riconosciuto e agibile nella società, poter partecipare per mutare l’assetto imposto da leggi che hanno tuttora un sapore maschile, sono questioni tuttora aperte. Sapere da dove vengono tutti i diritti che oggi il nostro ordinamento sancisce e tutela potrebbe aiutarci.

C’è qualcosa che ci accomuna alle lotte delle varie ondate: il coinvolgimento e la diffusione delle lotte, l’essere libere, senza catene, perché solo così si ha la forza e il coraggio per portare avanti le battaglie. Non avere nulla da perdere, questa è la chiave. Ciò che ci azzoppa: essere imbrigliate principalmente in convenienze personali, in rapporti che “possono servirci”, in subordinazioni a “poteri” che ci possono aiutare, in “non belligeranze” utilitaristiche, in un fare politica per se stesse, in un esserci esattamente come ci starebbe un uomo, in una brodaglia di attivismo che si perde in piccole e innocue insenature. Ecco perché c’è sempre un compromesso, un germe che mina da dentro le conquiste. Basti pensare alla legge 194. Ed anche laddove si pensava di aver compiuto passi in avanti, dobbiamo constatare che briciola dopo briciola, si son mangiati o si vogliono rimangiare l’intera torta.

A completare il quadro, ci sono le divisioni, le puntualizzazioni che spesso fanno riferimento solo alla propria persona e opera, autorità che sembrano voler sostituire in toto il vecchio padrone, il vecchio potere. Sinceramente, l’arte e l’esercizio di collocazione, catalogazione e di etichettatura mi è sempre stata stretta. Perché mai stare sempre in trincea tra noi, o bianco o nero, senza riuscire a sbarazzarsi di posizioni monolitiche o di giudizi? L’assurda regola della fedeltà, “o stai con me su tutto, o sei contro di me”. Il permesso da chiedere prima di ogni passo. Non sarebbe “differentemente rivoluzionaria” la possibilità di dissentire e di avviare un dibattito rispettoso pur nelle diversità di opinioni? Il sindacare continuo sulla “purezza” e sul pedigree femminista. L’entrare a gamba tesa in ogni dove per affermare una supremazia dal sapore assurdamente machista. Quante catene, che se vengono sommate alle delusioni, rischiano di avere l’effetto di movimenti tettonici! Una restaurazione anche se femminista è pur sempre una restaurazione, il gattopardismo resta sempre tale. Per questo ci perdiamo i pezzi e andiamo in pezzi. E ci sono fughe da tutto questo metodo che crea disagio, sfiducia, sensazione di non accoglienza, non poter avere voce, non poter esistere se non “affiliata”, incardinata in una categoria, in una fazione. In fondo sembra davvero che non ci sia differenza, “madri” al posto di “padri” dalle quali dovremmo passivamente prendere “ordini” e alle quali subordinarci. Di protezione in protezione, secondo schemi sempiterni. Altro che sullo stesso piano, altro che uguaglianza di genere, quando abbiamo difficoltà anche tra noi. E nel calderone delle polemiche smarriamo gli obiettivi e questo anche se a malincuore lo devo dire. Spesso lasciamo macerie e per questo dovremmo fermarci. Capire che è il momento del “sospendere” certe prassi. Stiamo facendo il gioco del patriarcato, e il femminismo per me non è un luogo di produzione in stile capitalistico o di autosostentamento. Non siamo raccoglitrici, non siamo alla ricerca di benefici, non siamo elemosinatrici di briciole di diritti. Non siamo alla ricerca di un posto per noi, non è da idealista folle iniziare a pensare, tornare a pensare in senso collettivo, come se non ci fosse un domani o un dopodomani a cui rimandare. Abbiamo da perdere solo le occasioni per migliorare la vita delle donne, non solo quelle che che hanno voce e riescono a trarre vantaggi da un sistema tuttora fortemente a guida machile, nel pensiero e nella pratica.

E se il 25 settembre si svolgerà l’udienza nella quale il giudice deciderà se archiviare o proseguire l’iter giudiziale in seguito a quanto denunciato da Elisabetta Cortani, continuo a chiedere cosa pensiamo di fare. Sento un po’ di vuoto.

Lo dico chiaramente cosa stiamo smarrendo: l’opportunità di dimostrare solidarietà a una donna e al contempo a tutte le donne che hanno sperimentato e sperimentano molestie e violenze sul lavoro. Soprattutto non si deve lasciar passare tutto il corollario espresso dalla pm che ha chiesto l’archiviazione. Si tratta di noi. Il #metoo, sbeffeggiato e infangato da più parti, non è roba da social, se vogliamo che abbia una qualche ricaduta nella realtà. Le molestie e le violenze non possono diventare poltiglia nel tritatutto di un potere maschile che discredita e nega la realtà.

Abbiamo da perdere qualcosa? Questo lo chiedo, perché ho come la sensazione che sia questo il problema. Ci avvitiamo attorno a un limite, un grosso e grande muro, che noi stesse ci siamo costruite, per poterci riservare un “posto unico”, bastante a sufficienza per noi stesse, disposte a svendere tutto. Eppure il femminismo dovrebbe avere una dimensione e un respiro collettivo per poter giungere a qualcosa. La facciata e la prassi. L’effetto? Un pericoloso e comprensibile ripiegamento nel proprio privato, stanchezza, rinuncia, rassegnazione, senso di vuoto e di smarrimento. Nel chiacchiericcio sterile, nella debolezza di non riuscire a mostrare l’urgenza di certe rivendicazioni, di fissare determinare argini, di prendere posizione passano fiumi e tempeste.

Con lo sguardo del distacco estivo, vedo meglio tutto questo. Metto a fuoco prima di ripartire, distante dal modello “qui, oggi, ora, domani chissà”. Ho lasciato decantare e sedimentare il flusso di accadimenti estivi. Ho compreso quanto arduo sia riuscire a far chiarezza, a superare il taglio superficiale e fugace che ci impone il veloce processo di produzione-consumo. Ci siamo dentro. Vorrei che ci prendessimo però il tempo necessario per concentrarci, perché a furia di perdere i pezzi, di sottovalutare, di pensare che siano questioni secondarie, di non accorgerci delle cose, di frammentarci, di non riconoscerci tra di noi e di non sentirci parte di una storia comune che va al di là delle nostre esistenze, di non occuparci di noi in senso collettivo, rischiano di far passare i più pericolosi arretramenti. Un po’ come accadde sulla questione dello stalking. “L’ognuna per sè”, la difficoltà a creare e a fare rete per davvero tra i vari livelli (politica istituzionale, attivismo, associazionismo, base) crea questi cortocircuiti.

Prendiamoci il tempo per mettere in fila le priorità, le questioni che potrebbero essere per noi delle spade di Damocle, qualcosa che in breve tempo potrebbe annullare molte delle conquiste e dei principi tanto faticosamente raggiunti. Pensiamo al DDL ad iniziativa del senatore Simone Pillon, sul quale mi soffermerò prossimamente, alla catena interminabile di violenze e di femminicidi che sempre più passano in sordina, al lavoro femminile. In poche parole, come pensiamo di costruire le basi oggi per un futuro differente, che sia più dalla parte delle donne? Quanto ci accorgiamo che anche i diritti “acquisiti” possono essere messi in discussione e cancellati? Dobbiamo pensarci noi, chi sennò?

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Molestie e violenze sessuali sul lavoro: arretramenti e pregiudizi

Tra le mille difficoltà che incontrano le sopravvissute per ottenere giustizia, a quanto pare se ne aggiungono altre, nuove e inaspettate, che rischiano di portarci pericolosamente indietro sulla strada dei diritti e del contrasto alla violenza di genere.

Altro che rivoluzione #metoo. Da noi, in Italia, parlare di molestie, denunciare è un boomerang, una strada che si contorce e si inerpica fino a quando le ragioni, i motivi, si disperdono in un nulla di fatto, con motivazioni da teatro dell’assurdo. Di fatto si apre una voragine nella quale il coraggio di parlare viene demolito, intimidito, sezionato, ridotto a brandelli, chi denuncia si ritrova sul banco degli imputati, tutto si ribalta in un assurdo gioco che stenta a dare credito alle donne, tra un “se l’è cercata, era compiacente, era corresponsabile” e un “troppo tardi, poco attendibile, approfittatrice”. E quindi, si dissolve la gravità di quanto agito da questi uomini, c’è anche chi parla di “poverini”, vittime di una caccia al mostro, una esagerazione messa in piedi da quelle misandriche delle femministe. In Italia è evidentemente andata così, tutto storto, capovolto, annacquato. Ed ora possiamo aggiungere un altro tassello: “troppo amica, troppo vecchia”, non è compatibile con uno stato di soggezione. Il 25 settembre si svolgerà l’udienza (la denunciante ha fatto opposizione all’archiviazione) n


deciderà se archiviare o proseguire l’iter giudiziale in seguito a quanto denunciato da Elisabetta Cortani, presidente della Ss Lazio Calcio femminile, nei confronti di Carlo Tavecchio, all’epoca dei fatti presidente FIGC. La Pm ha chiesto l’archiviazione pur ritenendo veritieri e realmente accaduti i fatti denunciati.

(…)
Dimostrando solidarietà a Elisabetta daremo una spallata al sistema e un aiuto a tutte le donne che denunciano. Non si deve consentire che passi la cultura che sottende la richiesta di archiviazione. Con l’estate di mezzo, il 25 settembre è ravvicinato e non è ammissibile che si rischi di lasciare passare sotto traccia ciò che sta avvenendo. Che messaggio trasmetteremo alle donne, come potremo sollecitare e sostenere il loro coraggio nel denunciare?

Continua a leggere l’articolo completo su Dol’s Magazine qui

 

AGGIORNAMENTO

Queste sono notizie che riempiono il cuore di speranza e di fiducia. Un segnale importante per Elisabetta e per tutte le donne che hanno il coraggio e la forza di denunciare. Non ci fermerete!

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