La Corte di Cassazione ha di recente ritenuto legittimo il licenziamento se l’azienda vuole aumentare i profitti. Una decisione sulla base dell’art. 41 della Costituzione, “se l’attività dei privata è libera, deve esserlo anche la possibilità di organizzarla al meglio.”
Dipende dai punti di vista. Se coltiviamo il miraggio di un sistema liberista che si autoregola, può essere anche una buona notizia. Al contrario ci troviamo di fronte a una ennesima pillola amara che segna l’abisso in termini di diritti dei lavoratori.
Un sistema produttivo estremamente cambiato, in cui il prodotto del lavoro si è smaterializzato, molte tipologie di lavoro sono diventate in via d’estinzione, i lavoratori sono intercambiabili e i contratti sempre più strozzati e al ribasso, le retribuzioni abbastanza ferme e stagnanti verso il basso. In questo contesto si continua a privilegiare il bene dell’impresa, fregandosene del bene dell’individuo che vede precarizzare la sua posizione lavorativa e di vita sine die. Ma sappiamo che il bene dell’impresa ormai si riduce a una navigazione a vista, alla ricerca di incentivi, sponde governative, sgravi, gare, appalti amicali, politici, cessioni di rami di azienda, acquisizioni in cui far affogare le perdite, speculazioni varie. Non importa il futuro. Ci siamo mangiati l’alimentare e tanto altro. Ci siamo mangiati professionalità perché tutti siamo o sembriamo sostituibili e intercambiabili, salvo poi avere risultati mediocri che qualcuno dovrà rattoppare a paghe misere.
Da qui dovremo ripartire, da questa pagina triste per tornare a sanare le ferite di un affievolimento dei diritti dei lavoratori sempre più devastante. Per chi non ha paracaduti.
In questi giorni riflettevo su una questione. Per molte persone è veramente difficile capire di cosa si sta parlando, quali sono i termini reali in gioco, perché non ascoltano. Fanno fatica a comprendere realmente la storia di una persona vicina, una persona che non è stata licenziata, nonostante fosse ancora in vigore l’art. 18, ma che è stata “invitata a dimettersi” se non tornava a “pieno ritmo” dopo la maternità (straordinari non pagati e orari che si dilatavano fino alla sera e nei weekend di lavoro non retribuiti, trasferte prolungate fuori regione e fuori Italia, reperibilità h24). Perché il pieno ritmo è lavorare senza limiti e soprattutto gratis. Una persona che per un po’ ci ha anche provato, che si è vista cancellare premi di fine anno, che a un certo punto ha chiesto un part-time temporaneo per reali esigenze anche inerenti a problemi di salute, vedendosi naturalmente negata questa opzione. Una persona che avrebbe potuto fare causa, ma ha mollato perché aveva ben altri pensieri più urgenti. Certo accade anche di peggio, ma rassegnarci non migliorerà la situazione. E noi donne solitamente siamo coloro che pagano più duramente un arretramento in termini di diritti e tutele.
Di questo dovremo occuparci, in un sistema che premia chi ha le spalle coperte e suggerisce agli altri di arrangiarsi. Un sistema che tiene dentro chi ha protezioni e non qualità. Un sistema che non offre grandi prospettive a chi vuole restare o che non può permettersi di andare all’estero. Un sistema che ignora le conseguenze negative di politiche deboli e poco diffuse di conciliazione e condivisione (molto più di un mini congedo di paternità obbligatorio di due giorni, che si prospetta diventeranno 4 dal 2018, coperture permettendo). Un sistema che non riesce a interpretare le esigenze delle donne che vogliono lavorare e non rinunciare a una vita privata. Per questo dovremo tornare a combattere nel 2017 e negli anni a venire, nonostante qualcuno dica che tornare a garantire tutele ai lavoratori è anacronistico e una zavorra per la ripresa e lo sviluppo economico. Dovremo tornare a ripensare al welfare tutto, pensando a un mondo che è cambiato ma non può rinunciare a garantire diritti e dignità alle persone. Pensando che le disparità non sono affare privato, ma politico.
Non dimentichiamo le parole del ministro Poletti. Non dimentichiamo i differenziali di potere, non facciamoci fregare per le briciole e per una guerra tra poveri, dove trova spazio chi può contare su influenti sponsor. Non dimentichiamo chi vuole rientrare nel mondo del lavoro e trova solo condizioni schiaviste, chi lavora in nero perché altrimenti non lavorerebbe, chi non ha altra prospettiva che un voucher.
Fare politica è innanzitutto porsi in ascolto. Marta descrive bene la situazione del lavoro in Italia. Non cerchiamo la luna nel pozzo, ma quanto meno rispetto per chi resta, per le condizioni che si è costretti ad accettare, per chi va via, per le difficoltà che si assumono. Perché di presa di responsabilità si parla, quando compiamo delle scelte molto spesso dettate dall’esterno, su cui noi abbiamo poco margine per incidere. Ci prendiamo le nostre responsabilità perché in un Paese dove è forte il familismo e l’ascensore sociale bloccato, non siamo rimasti a guardare. Ciascuno di noi ha preso la sua strada, ha investito il suo tempo in anni di studio, ha scelto l’emigrazione interna o all’estero, ha sperato con tutte le sue forze che prima o poi qualcosa sarebbe cambiato in meglio. C’è chi dopo anni di precariato ha visto finalmente arrivare il contratto a tempo indeterminato e poi lo ha visto sgretolarsi all’arrivo di un figlio. C’è tutta la storia di intere generazioni che hanno dovuto cambiare prospettiva talmente di frequente che è diventata un’abitudine non riuscire a programmare non dico il dopodomani, ma nemmeno il domani. Quanto meno lasciateci la dignità, il rispetto di non schernirci, di non abbatterci. Non volete vederci, ma almeno il rispetto dato dal silenzio. Perché intervenire sul lavoro non può avvenire a suon di bonus, perché il domani si può rendere meno oscuro se tornate a darci i diritti che ci sono stati tolti con la prospettiva di un’economia capace di risolvere le disparità e le differenze sociali. C’è chi è tornato indietro nella scala sociale, nonostante tutti gli sforzi e i sacrifici propri e dei genitori. C’è chi si accontenta di non avere garanzie e tutele pur di lavorare, perché questa è la prospettiva che gli è stata insegnata, a volte l’unica che ha conosciuto. Perché ci sono comparti in cui non arriva più nemmeno il sindacato, fortini dei “Padroni” dove la contrattazione avviene tra datore e prestatore di lavoro, senza intermediari, col nodo scorsoio che si stringe al collo, un affitto da pagare, una cig in corso da cui scappare (dal 2017 la Naspi, l’indennità di disoccupazione, sostituirà la cassa in deroga), una famiglia da mantenere. Se questi sono diritti, se questa può definirsi normalità. E intanto ti senti ripetere che questo è quello che c’è per chi non ha le spalle coperte. Se sei una donna le prospettive le viviamo sulla nostra pelle, scavano fino a riportarci nei nostri ruoli secolari. Per questo ho firmato per i referendum Cgil. Perché la nostra dignità è stata calpestata a favore del mercato e della concorrenza. Mi rimane solo l’orgoglio di aver trovato lavoro sempre con le mie sole forze, senza bisogno di sponsor familiari o amicali. Così continuo a far politica. Irrisa sì, ma libera da catene. Capace di un senso critico autonomo che non è servo di nessuno. Capace di evidenziare le cose che non vanno, senza paura di ritorsioni.
Tempo fa una giovane rampolla “lanciata” in politica da illustri capibastone, mi ha detto che le competenze in politica non sono una condizione necessaria, che l’importante è il cognome, la famiglia, le relazioni che può assicurare, il resto poi si farà, se proprio necessario. Una vera e propria resa di fronte a una cultura politica fondamentale, a un progetto, a un sistema di valori, a una direzione politica, a un impegno solido e profondo, con radici solide costituite di approfondimento autentico e personale, non finalizzato a una tornata alle urne o al mantenimento di bacini elettorali. Se non abbiamo una direzione e obiettivi di lungo periodo, una cultura politica che ci faccia da guida e legittimi le nostre scelte, senza costruire benessere diffuso e progettualità che salvaguardino tutti i cittadini, si tornerà (si è già tornati) alla politica delle clientele, degli scambi, del potere di capibastone e gestori di bacini elettorali, delle strane interconnessioni tra interessi privati e individuali e politica, di una prevalenza delle reti amicali, familiari e clientelari. Non risponderemo che a questo sistema, tralasciando tutte le istanze reali di tante/i cittadine/i.
Ogni tanto sarebbe utile allargare lo sguardo e capire che la crescita economica da sola non basta ad affrontare e risolvere la crescente disuguaglianza, che aumenta e non si risolve a suon di PIL. La politica si deve occupare anche di altri fattori se non vuole aumentare la forbice delle diseguaglianze.
Vi riporto questo articolo del Wef. Ogni tanto leggere non guasta per chi fa politica. Perché non si fa politica limitandosi a guardare ombre di realtà in una caverna buia. La realtà va compresa immergendovisi e comprendendo le istanze, ascoltandola e guardandola con i propri occhi, senza filtri.
“Un quarto di secolo dopo la pubblicazione nel 1990 del primo Human Development Report, il mondo ha fatto importanti passi nella riduzione della povertà, per migliorare la salute, l’istruzione, le condizioni di vita di centinaia di milioni di persone.Tuttavia è impressionante osservare come miglioramenti di questo tipo non siano stati equamente distribuiti. Permangono profonde disparità di sviluppo umano nei e tra i Paesi.
L’aspettativa di vita dei bambini come sappiamo non è omogenea, con fattori discriminanti che riguardano non solo il Paese di nascita, il reddito familiare, ma anche il livello di istruzione delle madri.
(…)
Queste differenze derivano da una serie di motivi. Esistono “disuguaglianze verticali”, causate da una distribuzione del reddito distorta, così come “le disuguaglianze orizzontali”, derivanti da fattori razziali, di genere ed etnia, e quelle che si formano tra le comunità, a causa della segregazione residenziale.
Molte persone sperimentano diverse e contemporanee forme di discriminazione, e il grado di esclusione è il risultato dell’interazione tra le diverse forme di discriminazioni. Una combinazione di disuguaglianze verticali e orizzontali possono causare forme di esclusione ed emarginazione estreme, che a loro volta perpetuano povertà e disuguaglianze di generazione in generazione.
Fortunatamente, il mondo è diventato sempre più consapevole degli effetti perniciosi della disuguaglianza sulla democrazia, la crescita economica, la pace, la giustizia e lo sviluppo umano. È diventato chiaro che la disuguaglianza erode la coesione sociale e aumenta il rischio di violenza e instabilità.
In ultima analisi, le politiche economiche e sociali hanno due facce della stessa medaglia.
Oltre al dibattito morale per ridurre le disuguaglianze, vi è anche quello economico. Se la disuguaglianza continua ad aumentare saranno necessari indici di crescita più elevati per sradicare la povertà estrema, che se i vantaggi economici fossero più uniformemente distribuiti.
Alti livelli di disuguaglianza sono correlati alla presenza di élite di potere che intendono unicamente difendere i propri interessi, bloccando le riforme egualitarie. Il problema non è solo di disuguaglianza, ma di come essa ostacoli il perseguimento di obiettivi collettivi e del bene comune; inoltre erige ostacoli strutturali allo sviluppo, per esempio, attraverso la tassazione insufficiente o regressiva e blocchi degli investimenti nel campo dell’istruzione, della sanità, o delle infrastrutture.
La crescita da sola non può garantire la parità di accesso a beni e servizi pubblici di alta qualità; sono necessarie politiche adeguate. La recente storia dell’America Latina, la regione più diseguale del mondo, fornisce un buon esempio di ciò che è possibile quando sono messe in atto certe politiche. La regione ha visto significativi miglioramenti in ambito di inclusione sociale, durante il primo decennio di questo secolo, attraverso una combinazione di dinamismo economico e di impegno politico per la lotta alla povertà e disuguaglianza, come i problemi interdipendenti.
Grazie a questi sforzi, l’America Latina è l’unica regione al mondo che è riuscita a ridurre la povertà e la disuguaglianza, pur continuando a crescere economicamente. Più di 80 milioni di persone sono entrate nella classe media, che per la prima volta ha superato la quota di popolazione dei poveri.
A dire il vero, alcuni hanno sostenuto che questo è stato reso possibile dalle condizioni esterne favorevoli, compresi i prezzi elevati delle materie prime, il che ha sostenuto l’espansione economica. Tuttavia, il World Bank’s LAC Equity Lab conferma che la crescita spiega solo una parte dei guadagni sociali dell’America Latina. Il resto è frutto della redistribuzione attraverso la spesa sociale.
Infatti, politiche progressiste erano al centro dell’espansione economica stessa: una nuova generazione di lavoratori più istruiti ha fatto ingresso nella forza lavoro, in grado di guadagnare salari più alti e raccogliendo dividendi di spesa sociale. I maggiori incrementi salariali si sono verificati nelle fasce di reddito più basse.
Ora che l’America Latina è entrata in un periodo di crescita economica più lenta, questi risultati sono stato messi alla prova. I governi hanno meno spazio fiscale, e il settore privato è meno in grado di creare posti di lavoro. Gli sforzi per ridurre la povertà e la disuguaglianza sono a rischio di stallo – o anche di perdere le conquiste fatte a fatica. I politici della regione dovranno lavorare duramente per mantenere i miglioramenti dello sviluppo umano a lungo termine.
L’importanza di affrontare le questioni legate alla disuguaglianza è sancita negli ideali della Rivoluzione francese, nelle parole della Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, e negli obiettivi per uno sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. Uno sforzo fondamentale per plasmare non solo un mondo giusto, ma anche pacifico, prospero e sostenibile. Se, come la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani dice, “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”, non dovremmo tutti essere in grado di continuare a vivere in quel modo?”
Un augurio per un 2017 in grado di mettere seriamente come priorità la lotta alle discriminazioni e alle disuguaglianze. Un 2017 che sappia essere ACCOGLIENTE e migliore per tutti. Per una vita dignitosa per tutti, nessuno escluso.