Nuvolette di pensieri

Mormora l'acqua del ruscello

Cos’è per te la prostituzione?

pretty woman

 

Ripeto, sono per la libertà di scelta, chi desidera prostituirsi può farlo, in Italia non è reato. Spero che nessuno criminalizzi mai chi si prostituisce o meglio è prostituito. I criminali restano solo e soltanto i papponi e i clienti. La libertà di una non può diventare la negazione di una realtà fatta di sopraffazione e vendita di corpi. La libera scelta di una persona non deve diventare un ombrello rosso per coprire tutto il resto, con la pretesa di rappresentare, di lottare per tutte coloro che sicuramente libere non sono. Stiamo mettendo sullo stesso piano le poche che sostengono di scegliere la prostituzione e coloro, le tantissime, che sono costrette per innumerevoli motivi, ma che se avessero un’alternativa, sicuramente non lo farebbero.

Per coloro come Pia Covre, che temono tasse e controlli, dovreste spiegarmi cosa volete nel dettaglio che lo stato faccia per voi e come pensate di combattere sfruttamento e tratta. Perché se per voi è un lavoro come un altro, dovreste essere soddisfatte di essere riconosciute come professioniste del sesso e pagare le tasse. Altrimenti viene meno anche la vostra idea di festeggiare il 1 maggio. Forse bisognerebbe fornire a tutt* un’alternativa lavorativa.. perché tutte noi sappiamo che questo un lavoro non può essere per mille ragioni.

Covre & co., oggi impegnate in una serie di iniziative a Roma, dovrebbero interrogarsi su chi stanno avvantaggiando in questo momento, di quale business stanno chiedendo il sostegno e sulla pelle di chi. Ponetevi anche voi la domanda, chi maggiormente ne trarrebbe vantaggio da uno snellimento dei reati di sfruttamento, favoreggiamento, induzione alla prostituzione? “Industria del sesso & criminalità a braccetto”, con beneplacito dello stato? Ah, vi ricordo che in Germania solo 44 si sono registrati e pagano le tasse. In Italia resterebbe tutto comunque sommerso e lo stato si ritroverebbe ad avere le armi spuntate per perseguire chi trae guadagni in nero dalla prostituzione e dalla tratta. Penso che se vogliamo aiutare chi è prostituito, dobbiamo scegliere un’altra strada.

Ho letto un post che mette sullo stesso piano il diritto di aborto e quello di prostituirsi, nel nome dell’autodeterminazione. Vi consiglio di non scherzare, perché questa è pura mistificazione. Nessuna donna vuole costringere nessun’altra donna, noi non contestiamo e non contrastiamo chi sceglie, ma dobbiamo raccontare la verità sulle donne che sono nella prostituzione non volontariamente, e che subiscono innumerevoli violenze, in gran parte con danni permanenti.

Ho tradotto questo post (QUI l’originale) di Rebecca Mott per sfatare alcuni miti e stereotipi della prostituzione. Una utile lettura per i “negazionisti” della violenza e della sofferenza di queste donne considerate merce sessuale. Per tutti coloro che continuano a sostenere l’immaginario della prostituta felice e autodeterminata.

Come sopravvissuta, devo confrontarmi con l’idea che hanno gli altri della prostituzione.
Molte delle prospettive sono fondate su stereotipi, sia che provengano dalle femministe liberali, che da gente di sinistra, religiosa, amici o qualsiasi altro si interessi di prostituzione. Ho incontrato solo qualche femminista radicale, non tutte, capace di ascoltare e di imparare, piuttosto che raccontare a coloro che sono uscite, cosa significhi prostituirsi.
Non sono affatto sorpresa che vi siano così tanti pregiudizi attorno all’argomento.
Per almeno 3.000-4.000 anni, le prostitute non hanno avuto voce per dire cosa/chi siamo. Invece le nostre realtà sono state scritte da coloro che hanno tratto guadagno dal commercio di sesso.
Questa storia è stata scritta da papponi e da clienti che desiderano ridurre il loro senso di colpa, facendo finta che non vi sia violenza da parte loro.
È stata costruita la favola secondo cui tutte le prostitute sono persone adulte – o quanto meno le ritengono tali – che tutte amino il sesso e siano avventurose, che amino il loro stile di vita.
In altre parole, l’ideale della dea-prostituta, cortigiana, geisha e di classe elevata è il sogno erotico dei clienti e non combacia con la realtà.
Questo ideale è stato costruito nei secoli e da molte culture, per allontanare sguardi estranei dalle condizioni di vita reali della cosiddetta “prostituta felice” (Happy Hooker).
Questa immagine della prostituta è scolpita nel tempo e nello spazio, in quell’istante in cui la prostituta dipinge sul suo viso un sorriso per il cliente.
In quel momento, quando la prostituta dirà e farà tutto ciò che il cliente desidera, egli penserà che sia felice – questo non è affatto complicato per i clienti che hanno un ego enorme, così penserà che tutte le prostitute siano entusiaste e che naturalmente egli le porti rispetto.
È importante per il commercio del sesso continuare in questo verso, che nessuno veda cosa si nasconde dietro il sorriso della happy hooker. Dobbiamo continuare a non vedere che tutte le prostitute – non importa se di alto bordo o trasformate in dee – vivono in una costante situazione di estrema violenza maschile.
Dobbiamo avere il coraggio di vedere che la maggior parte delle “prostitute felici” hanno conosciuto tutte le facce del mercato del sesso – molte hanno lavorato per strada, sono finite nell’industria del porno, molte sono state spogliarelliste – tutto ciò ha dimostrato che le prostitute non godono dei diritti umani e che vivono in un costante stato di paura e di instabilità (emotiva, mentale, economica, ndr).
Dobbiamo vedere che la maggior parte delle prostitute felici non si arricchiscono. Gran parte dei loro guadagni finiscono nelle tasche dei loro sfruttatori. Molte di loro odiano il denaro che proviene dal prostituirsi, tanto da non essere in grado di metterlo da parte (ricordiamo il racconto di Daisy qui).
Io e tutte le sopravvissute lo sappiamo, non abbiamo mai conosciuto una prostituta felice.
Ho visto molte prostitute che parlano un linguaggio stereotipato da prostitute felici, ma sempre nei loro sguardi, nelle pause tra le parole e il non detto – si percepisce che la verità è un’altra.
Se osserviamo oltre i brevi istanti in cui sorridono al cliente, scorgiamo secoli di dolore prostituito, di paura prostituita, di rabbia prostituita.
Essere prostituta significa automaticamente essere associata a tutte le altre prostitute, vive o morte, di ogni cultura, classe, nazionalità e Paese.
Essere prostituta è capire cosa significhi non avere una individualità – ma dentro te stessa continuare a combattere per ricordare ciò che sei e che sei una persona.
Se torniamo al discorso del commercio del sesso, o a chi giustifica la sua esistenza – di fatto si sta consentendo che le prostitute siano considerate sub-umane e quindi che non abbiano una piena garanzia dei loro diritti umani.
Ogni volta che un cliente compie la scelta di comprare un altro essere umano per la sua avidità/bisogno sessuale – sta di fatto compiendo la scelta di non vedere nella prostituta un essere umano, la sta vedendo semplicemente come una merce sessuale.
Ciò è reso evidente dalla seguente dichiarazione:
La prostituzione è l’acquisto di un servizio, non di una persona.
Questo può essere affermato unicamente stabilendo che stai usufruendo di sesso, senza che la prostituta sia presente con il suo spirito e con la sua mente.
E questo viene considerato una cosa positiva.
A mio avviso quel distacco è sintomo di un trauma profondo.
Per forzarsi a separare il tuo corpo dalla tua mente, per separare la tua umanità in modo così estremo – significa per la prostituta avvertire il terrore, il dolore, l’odio che sono presenti in ogni momento e luogo. (la scelta di scindere mente e corpo significa che la prostituta avverte il terrore, il dolore e l’odio causati dalla prostituzione, ndr).
Il distacco è l’unica possibilità che ha una prostituta di sopravvivere – non è un segno di forza o di piacere.
Concludo qui, perché mi sento sconvolta – ma questo è un inizio, non una fine.

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Per un’etica femminista della cura

cura

 

 

La mia riflessione di oggi parte dalla lettura di alcuni passaggi del testo di Carol Gilligan La virtù della resistenza. Siamo nel 1973, anno in cui la Corte Suprema legalizzò l’aborto negli USA. La sentenza Roe versus Wade, rese l’altruismo, virtù femminile per eccellenza, qualcosa di problematico, per niente scontato. Scrive Gilligan: “Ascoltando le donne, fui colpita più e più volte da come l’opposizione tra egoismo e altruismo aveva il potere di informare i loro giudizi morali e guidare le loro scelte”. Per alcune era “egoista” qualunque scelta, di avere o meno un figlio, mentre erano disposte (la consideravano una buona cosa) a seguire quanto un’altra persone gli chiedeva di fare. “Nina raccontò che stava per abortire perché il suo ragazzo voleva finire la facoltà di legge e contava sul suo appoggio. Quando le domandai cosa voleva lei, rispose: “Cosa c’è di male nel fare qualcosa per qualcuno che ami?”. Viene considerato positivo essere empatici con gli altri, mentre diviene egoista essere sensibile ai propri bisogni.

Questo chiaramente evidenzia un’interferenza culturale notevole, che spinge le donne verso questo ragionamento automatico e che ammutolisce la loro voce interiore che esprime ciò che sono e desiderano realmente. Quella voce non è scomparsa, ma è sepolta sotto una coltre culturale di stampo patriarcale. In questo universo, la cura è un’etica femminile, non universale. Prendersi cura è ciò che rende la donna virtuosa, chi si prende cura di qualcosa o di qualcuno sta compiendo un “lavoro da donne”. Coloro che si dedicano agli altri, sono sensibili ai loro bisogni, attenti alla voce degli altri sono persone altruiste. “In una cornice democratica, la cura è un’etica dell’umano. Un’etica femminista della cura, in una cultura patriarcale, rappresenta una voce differente, poiché associa la ragione all’emozione, la mente al corpo, il sé alle relazioni, gli uomini alle donne, resistendo alle divisioni che sostengono l’ordine patriarcale”. Un’etica femminista della cura si fonda su un’interpretazione della democrazia più densa che superficiale (mutuando la distinzione sulle culture operata dall’antropologo Clifford Geertz). Un’interpretazione superficiale omologa le differenze nel nome dell’uguaglianza, al contrario una “densa” si basa sul fatto che voci differenti sono sintomo di vitalità di una realtà democratica. E questo si potrebbe applicare a tanti aspetti della nostra realtà contingente.
Le difficoltà di un affermarsi di un’etica femminista, secondo Gilligan, risiedono nel fatto che a essere contrastato è lo stesso femminismo. Negli USA si sono evidenziati i conflitti tra aspirazioni democratiche nelle istituzioni e nei valori fondanti la federazione di stati, e un perpetuarsi di una tradizione fondata su privilegi e potere patriarcale. Le sfide degli anni ’60 e ’70 inclusero questo attacco frontale all’ordine patriarcale, per raggiungere una piena democrazia, per ridefinire i concetti di virilità e di femminilità, con un movimento trasversale: pacifisti, movimento delle donne e di liberazione gay.
Per la prima volta essere uomo non significava automaticamente essere soldato, per una donna il destino non era unicamente quello di essere madre. La sessualità e la famiglia assumevano nuove forme. Ancora oggi il dibattito è acceso su aborto, matrimonio gay e guerra (sono temi caldi su cui si scontrano ancora i candidati repubblicani e democratici), ma qualcosa è cambiato per sempre. Si sono compresi molti aspetti, e per quanto concerne il nostro tema, cura e prendersi cura son passati da una dimensione prettamente femminile, a qualcosa che interessa l’umano.
Gilligan sottolinea l’importanza di “rendere esplicita la natura di genere del dibatto giustizia contro cura… e di comprendere come il tema dell’equità e dei diritti interseca il tema della cura e della responsabilità”. “Non opprimere, non esercitare potere ingiustamente o avvantaggiarsi a scapito di altri”, sono ingiunzioni morali che vivono a stretto contatto con imperativi morali quali “non abbandonare, non trattare con noncuranza” o restare indifferenti a richieste di aiuto, nel quale rientriamo anche noi stessi. Equità e diritti sono il nocciolo delle normative. Gilligan scrive: “Se le donne sono persone e le persone hanno dei diritti, anche le donne hanno dei diritti”. Prendersi cura esige empatia, attenzione, ascolto, rispetto… La cura è un’etica relazionale basata su una premessa di interdipendenza. Non è altruismo”. Iniziamo a scardinare un primo elemento.
Gilligan poi, trattando di giustizia vs cura, introduce una contrapposizione tipica del patriarcato: la giustizia sta dal lato della ragione, della mente e del sé (attributi maschili), mentre la “cura” sta dal lato del corpo, delle emozioni delle relazioni (associati alla donna). Attraverso questa divisione il ruolo della donna viene al contempo idealizzato e svalutato, subordinando la cura alla giustizia, asservendola e relegandola a una dimensione relazionale. In questo quadro è facile che in nome della femminilità si chieda alla donna di sacrificare i suoi diritti in nome di relazioni pacifiche, per non incrinare gli equilibri e garantire una vita serena, priva di conflitti (naturalmente all’uomo). Demolendo le separazioni e le gerarchie patriarcali, si potrebbe affermare un modello di relazioni in cui ognuno possa avere voce, essere ascoltato con attenzione e rispetto, indipendentemente dal genere.

Invece, siamo tuttora schiavi di certi meccanismi, per cui la donna che tiene alla relazione è virtuosa, mentre l’uomo indipendente, autonomo è moralmente integro. La morale finisce con l’allinearsi “ai codici di genere dell’ordine patriarcale, rafforzandoli”. Il “curarsi di” finisce con l’essere intrinseco di un genere. Sulla donna si riversano aspettative e oneri, con una lotta incessante a incarnare quel modello. Quel mettere da parte “noi stesse”, per curarci di qualcosa o di qualcuno è una incarnazione di regole secolari fondate su una “dissociazione di genere”, la chiamerei così. Quel rimboccarci le maniche e rinunciare alla nostra voce perché così hanno fatto per secoli altre donne prima di noi. Ce lo sentiamo ripetere continuamente, un richiamo all’ordine dei ruoli femminili, e anche se dentro di noi sappiamo benissimo a cosa corrisponde, ci risulta tuttora arduo scardinare queste “usanze”, principalmente perché alla fine siamo sole. L’unica nostra forma di resistenza è affermare che abbiamo preso coscienza che c’è altro, che si può concepire diversamente le relazioni e gli equilibri di genere. E che è possibile uscire dalle gabbie culturali unicamente dandoci delle alternative, oggi noi donne abbiamo una alternativa, possiamo studiare, leggere, parlare tra noi, capire che quello che ci si aspetta da noi può non corrispondere con i nostri bisogni e con i nostri diritti.

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Consultori & co.

Distretti Asl

 

Qualche giorno fa avevo accennato a un incontro sullo stato della Sanità a livello territoriale, in particolar modo nella zona 7 di Milano (QUI).
Presenti: Sara Valmaggi, vice presidente Consiglio Regionale e Claudio Carotti, Segretario generale CGIL Milano – Comparto Sanità Pubblica.
Qui di seguito pubblico il video che ho girato in questa occasione, nel quale porgo alcune domande e questioni, in merito alla gestione dei consultori (oggi Centri per le famiglie) e dei servizi dedicati alle donne, con particolare riferimento alla salute sessuale e riproduttiva delle donne.

Pongo la questione della convenzione concessa a strutture che non applicano la 194, di fatto operando una obiezione di struttura non prevista dalla normativa nazionale.
Ricordiamoci cosa accade per esempio al Niguarda, dove si praticano circa 780 IVG all’anno e vi sono solo 2 medici non obiettori. Per garantire il servizio vengono chiamati e retribuiti “a chiamata” i medici del Sacco, ingigantendo i costi per il sistema sanitario pubblico e di fatto calpestando dei diritti delle donne sanciti da una normativa nazionale.
Pongo la necessità di una verifica periodica dello “stato di salute” dei consultori. Chiedo come possiamo agire per sollecitare le ASL a un’azione più efficace, per difendere come cittadini questi servizi sul territorio.

Pongo la domanda sul destino di un servizio come quello del consultorio pubblico, evidenziando una pericolosa crescita di un privato che non garantisce appieno un servizio, ma che grazie alle maggiori disponibilità economiche riesce a intercettare un numero maggiore di utenti. Quali investimenti nel pubblico?

Le risposte non ci lasciano serene, soprattutto traspare un palese disinteresse e una scarsa conoscenza da parte dell’Asl di un servizio come il consultorio, così come di altri servizi territoriali.
Il video dura una ventina di minuti, vi chiedo di guardarlo (scusate l’audio, mi rendo conto che sono una videomaker molto “artigianale”), perché contiene dei punti molto importanti. Come dice Sara Valmaggi: “Nei fatti, senza toccare la legge, è stata fatta una contro-riforma, di fatto disinvestendo in questo servizio”. Verso la fine del video, si parla anche della difficoltà di reperire i dati sull’applicazione della 194 e dell’obiezione di coscienza.

Un altro punto critico riguarda il costo delle prestazioni a carico dell’utenza dei consultori. La legge di istituzione dei consultori (405/75) prevedeva la gratuità delle prestazioni nei consultori. La delibera regionale lombarda 4579/2012, che ha recepito le indicazioni della finanziaria nazionale, ha introdotto un ticket sulle prestazioni fornite, aggiungendo la quota fissa regionale di 6 euro. Il risultato è che oggi una prima visita ginecologica si paga 28,50, quella di controllo 22,40. La funzione dei consultori doveva essere quella di garantire un libero accesso per tutte le donne a un servizio di prevenzione e di controllo per quanto concerne la salute sessuale e riproduttiva. La gratuità potrebbe essere un incentivo notevole. Inoltre le Asl dovrebbero pubblicizzare maggiormente questi centri pubblici, facendoli conoscere a tutta la cittadinanza, soprattutto ai più giovani. Ci vuole volontà politica e lungimiranza nelle direzioni sanitarie, perché le risorse, i saperi, le competenze non si perdano e non vengano svilite. Chiediamo che gli uffici competenti si impegnino a conoscere i servizi sul territorio, a potenziarli, a garantire un ricambio generazionale delle risorse umane che vi operano. Almeno si ammetta apertamente che i consultori pubblici sono un’esperienza destinata ad esaurirsi. Ma se questo è l’obiettivo a medio-lungo termine, deve essere scritto a chiare lettere, si deve dire chiaramente ai cittadini che non esiste più un servizio pubblico uguale per tutti, che garantisca le donne, di ogni censo.
Noi certamente non staremo in silenzio. Continueremo a lottare per i consultori laici, pubblici e possibilmente gratuiti.

Segnalo che a ottobre scorso, la vicepresidente del Consiglio regionale, Sara Valmaggi ha chiesto con una mozione che le under 20 non paghino il ticket. Perché è proprio la fascia più a rischio per quanto riguarda gravidanze indesiderate e malattie sessualmente trasmissibili:

“La relazione annuale del Ministero della salute sull’attuazione della 194 – continua Valmaggi- evidenzia come in Lombardia nel 2011 le giovanissime che hanno ricorso al’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) sono l’8% (1463) del totale, un dato che rimane stabile rispetto all’anno precedente (nel 2010 la percentuale era dell’ 8,3%) a differenza di quanto accade per le donne di età maggiore per le quali le Ivg sono in costante diminuzione. Nel 2010 erano 18959, nel 2011 invece 18264. Un dato quello lombardo relativo alle giovani donne maggiore di quello di altre regioni. Sono il 7,9% in Piemonte, il 7% in Veneto, il 6,5% in Emilia Romagna, il 7,1% in Toscana.” “Per queste ragioni- sostiene Valmaggi- chiediamo al presidente Maroni, che va dicendo di voler abolire i ticket, di eliminarli da subito per le ragazze dai 15 ai 19 anni, almeno per la prima visita ginecologica, quella di controllo e il colloquio di orientamento. Sarebbe questo un modo concreto per tutelare la salute delle donne, attuare azioni di prevenzione anche con l’obiettivo di prevenire le interruzioni volontarie di gravidanza”.
“Questo – conclude Valmaggi – come accade già in altre regioni, quali la Toscana, l’Emilia.

Intanto, la maggioranza non trova un accordo sulla Riforma della Sanità lombarda(qui).

Per quanto concerne il Soccorso Rosa di Milano, le cui vicende sono ben note, nonostante la battaglia per chiedere che lo sportello proseguisse le sue attività regolarmente, senza snaturarlo e stravolgerlo, di fatto il nuovo “Centro di ascolto e soccorso donna” è già realtà e riunisce i due servizi già esistenti, il centro antiviolenza e quello di “Ascolto e salute donne immigrate”.

Dopo la delibera della direzione aziendale, pubblicata il 29 gennaio scorso, si è proceduto al piano di accorpamento. Contrariamente alle rassicurazioni dall’assessore alla Salute, si è di fatto snaturato il centro antiviolenza, come è emerso chiaramente dall’audizione tenutasi la scorsa settimana (due settimane fa, ndr) in Commissione sanità, della responsabile del centro di accoglienza e assistenza alle donne vittime di violenza attivo all’ospedale San Carlo, Nadia Muscialini.

Nel comunicato del 13 aprile a riguardo di Sara Valmaggi leggiamo:

“Nell’audizione si è appreso che la riorganizzazione prevede sia lo spostamento del servizio, che non sarebbe più vicino al Pronto soccorso e al posto di polizia, e mancherebbe quindi degli accessi protetti necessari sia alle vittime di violenza che agli operatori, sia la drastica riduzione del personale dedicato, sia la riduzione degli orari di apertura. In sostanza viene a mancare il modello di assistenza a lungo sperimentato con risultati positivi. Per questo, con la tutta la Commissione sanità, abbiamo chiesto all’assessore alla Salute, Mario Mantovani e all’assessore alla Famiglia e pari opportunità, Maria Grazia Cantù di dare spiegazioni su questa scelta, che è totalmente incoerente con i principi affermati nella legge regionale di contrasto alla violenza sulle donne, che prevede il potenziamento della rete già presente sul territorio. A loro chiediamo di adoperarsi perché il Soccorso rosa possa continuare a garantire accoglienza e assistenza alle donne maltrattate”.

 

Che ne sarà delle tante donne che dal 2007 hanno trovato nel Soccorso Rosa un aiuto professionale e umano indispensabili per uscire dalla spirale della violenza? Perché a farne le spese sono le donne, non dimentichiamocelo. Tagliare e svilire un servizio significa compiere un’ennesima violenza sulle donne che hanno bisogno di aiuto. Davvero ci si vuole rendere complici di questo? Non sarebbe meglio preservare le buone pratiche sul territorio, incentivandole e moltiplicandole?

Che senso ha continuare a tagliare i presidi territoriali? Quale il disegno che di fatto sottrae diritti e tutele alle donne? Ci rendiamo conto di cosa significa eliminare dei punti di riferimento per le donne?

Come altri servizi sul territorio, si continuano a calpestare i diritti delle donne, dal Soccorso Rosa ai consultori, fino agli ospedali che in alcuni casi son diventati “totalmente obiettanti”.

Chiaramente ci sono attacchi da più parti, per negarci i diritti. Ci vogliono far tornare al silenzio, per controllarci e riportarci ai ruoli tipici della cultura patriarcale. Purtroppo non riescono a capire l’importanza dei presidi territoriali.. una cecità inaudita e incomprensibile.
Una seria educazione alla contraccezione, alla salute sessuale e riproduttiva, che consenta di compiere scelte consapevoli, dovrebbe essere al primo posto nelle pratiche delle amministrazioni in materia di Sanità. Invece, la situazione appare ben diversa. Le risorse decrescenti diventano la scusa per smantellare le strutture pubbliche, in favore dei privati convenzionati. E’ davvero questo che vogliamo?

 

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Donne Resistenti

Gruppi-difesa-della-donna-Baggio

 

In questa giornata, desidero ricordare un pezzo di storia della mia città e quartiere di adozione.

Nella puntata del novembre del 1978, nel corso della trasmissione radio curata da Rossana Rossanda sulle parole della politica, Lidia Menapace, staffetta partigiana e femminista, si chiede quanto donne simili a lei, partigiane riconosciute, staffette più o meno politicizzate, inserite nella resistenza visibile, poi magari dopo la Liberazione impegnate politicamente in qualche amministrazione pubblica locale o nazionale, o nella Costituente (21 donne), siano rappresentative delle tante altre che stavano ai margini, ai fianchi, alle spalle dei partigiani. Donne il cui sostegno è stato taciuto, non nel senso che non si sia detto che c’era, ma che non hanno volto, spesso, né nome, né identità riconosciuta. La cancellazione e l’oblio sono in qualche modo una violenza silente nei confronti di queste donne che si sono spese per cambiare il loro Paese e la storia. È di queste donne che mi preme oggi parlare. Così come dobbiamo interrogarci su come si può valutare l’eco di quanto compiuto da queste donne, dopo la Liberazione, fino a giungere ai nostri giorni. Per ridestare, riscoprire il passato e misurarlo con ciò che accade oggi. Per dare una prospettiva di genere a quegli anni.
I libri di testo, di storia, le antologie ecc. soffrono spesso di una sotto-rappresentazione delle donne, figure a volte legate solo al ruolo di cura. Come se all’umanità mancasse un pezzo, come se alla storia fosse stata sottratta la memoria delle donne del passato. Dimenticandoci delle tante donne che hanno saputo incidere nella storia e contribuire al progresso del genere umano. Forse sarebbe il caso di intervenire e di correggere questo aspetto con maggior convinzione e sistematicità, non affidandosi esclusivamente alla buona volontà di qualche insegnante, che si impegni ad “integrare”.

Un ricordo per “Mariuccia” che ha perso la vita in via Airaghi:

 

Maria-Cantù-Giustizia-e-libertà-definitivo

 

Ringrazio Giuliana Cislaghi che nel suo saggio “Baggio antifascista” (dal quale è tratta la foto di apertura di questo post), ha riservato un capitolo ai Gruppi di difesa della donna.
I Gruppi di difesa della donna nacquero a Milano nel novembre 1943 col compito di assistere i partigiani, le famiglie dei deportati, di sabotare la produzione, di partecipare all’organizzazione degli scioperi nei luoghi di lavoro per ottenere la parità salariale. Ieri come oggi.
L’organizzazione, strutturata come cellula cospirativa, era aperta a tutte le donne, di ogni ceto, fede religiosa e tendenza politica: “se ovunque prevalevano le donne comuniste, a Baggio lo erano tutte”.
Si è calcolato che in Italia ci fossero 70.000 donne, 900 a Milano divise in 60 gruppi. Al momento della Liberazione si contavano 3.400 donne a Milano, divise in 184 gruppi operanti soprattutto in città. Molte di loro erano anche staffette, informatrici, infermiere, addette stampa, portatrici di armi, combattenti: 35.000 furono insignite del titolo di partigiane (lotta armata prima del 24 aprile 1945), 30.000 patriote (per aver collaborato alla Resistenza senza aver mai partecipato ad azioni armate), 4.653 arrestate, 2.750 deportate, 2.500 cadute, 19 insignite della medaglia d’oro.

La responsabile dei Gruppi di difesa della donna di Baggio era Pina De Angeli: a casa sua era il recapito della stampa clandestina, parola d’ordine “è arrivato il carbon coke metallurgico?”, perché di professione carbonaia, non dava nell’occhio quando riceveva tanta gente. Il primo nucleo era formato da: sua sorella Maria, le nipoti Gianna e Carla Beltramini. Alla fine della guerra il gruppo contava circa 20 donne: Ida Deola Savoia, Maria Abico, Enrica Bassi, Carmelina Lovati, Carmela Ravelli, Emma Quinteri, ecc

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Tutte correvano rischi enormi. Le sorelle Beltramini facevano comizi volanti nelle fabbriche (Borletti, Salmoiraghi, CGE), scappando via velocemente in bicicletta con qualche gappista, per non essere scoperte. In occasione dell’8 marzo 1944 attaccarono manifesti dappertutto, la carta era quella dei sacchi di cemento e la colla era fatta con la farina.

Le donne di Baggio erano attivissime per protestare contro la carenza di viveri di prima necessità, arrivarono a portare le loro rivendicazioni fino a Palazzo Marino. Pina Locatelli e Tilde Sacchi erano due di loro.
Durante gli inverni del 1943 e 1944, il 4 novembre, delegazioni femminili andarono a portare garofani rossi a Musocco, sulle tombe dei partigiani. Era estremamente pericoloso, ma lo sentivano come dovere morale.
Il lavoro maggiore consisteva nel reperire fondi, viveri, medicinali, tabacco da inviare ai partigiani di montagna: il luogo di raccolta era il magazzino della carbonaia in via Rismondo 34.
Vogliamo ricordare che la stampa clandestina era di solito un solo foglio sottilissimo stampato su una sola facciata (giornali murali): l’Unità, Il Combattente (notiziario dei partigiani), Noi Donne (il giornale dei GDD, che è stato l’organo di stampa ufficiale dell’UDI fino al 1990, ancora oggi diffuso in abbonamento), La Fabbrica (pubblicato dalla Fed. Milanese del PCI). Questo materiale veniva poi distribuito in via Scanini dagli Abico, durante il giorno di mercato da Marina Volpi, da Nino “Sampeder” che pur non essendo comunista collaborava volentieri. I fogli venivano nascosti ovunque, in cantina, nel tubo della stufa.

 

noi donne luglio 1944

noi donne agosto 1944

 

Non potremmo comprendere appieno la partecipazione e l’intervento attivo delle donne nelle lotte di liberazione nazionali, senza tracciare le linee dei mutamenti della condizione della donna negli anni Trenta. Le dittature ponevano al centro l’Uomo, riservando alla donna un ruolo tradizionale di cura, tra le mura domestiche, di madri (vedi la politica demografica, i figli alla patria), la sacralità delle “mamme dei soldati”. Il codice penale Rocco considerava il controllo delle nascite un attentato all’integrità della stirpe. Una legge del 1927, stabilì che il salario delle donne, a parità di mansioni dovesse essere il 50% di quello maschile, che non dovessero essere assegnate cattedre alle donne nei licei, che non potessero ricoprire il ruolo di preside, che le tasse scolastiche per le ragazze fossero più elevate. Nel 1938 arrivò una legge che prevedeva massimo il 10% delle donne negli uffici, nessuna donna nelle aziende con meno di 10 dipendenti.

Nei Paesi democratici le cose iniziano a cambiare: riduzione delle nascite, intervento dello stato nel sostegno alle famiglie, sanità diffusa, maggiori servizi, espansione dei consumi, aumento dei salari, riduzione del tempo di cura e da dedicare alla procreazione.

Durante gli anni della guerra la condizione femminile cambia molto: le donne lavorano, spesso sono capofamiglia, procurano cibo, rifugi, prendono il treno per la prima volta per sfollare, girano per i comandi tedeschi e fascisti alla ricerca di notizie dei loro uomini. Tutto questo non significa un reale capovolgimento dei ruoli, semplicemente un cambiamento temporaneo. Il ruolo maschile tradizionale verrà riaffermato dopo la fine della guerra. Ma nel frattempo qualcosa sarà cambiato per sempre: con il suffragio universale, con il matrimonio solidale e egualitario, l’emancipazione è avviata e inarrestabile. Il Femminismo degli anni ’70 è stato il punto più alto di questa rivoluzione.
Ma ai giorni nostri, in tempi di crisi economica, il lavoro gratuito delle donne torna a far comodo, (occorre anche interrogarsi cosa accade quando a perdere il lavoro in famiglia è l’uomo), in una società dove si fa ancora fatica a mettere a fuoco e a far valere i diritti del secondo sesso, come se le donne fossero sempre un passo indietro agli uomini, con un peso minore.
Così, nella loro (ma anche nella nostra) testa, gli uomini conservano “una certa superiorità rispetto le donne”. Si rischia di tornare a una restaurazione di un “nuovo medioevo”, come sostiene la psicologa newyorkese Carol Gilligan : “gli uomini fanno la guerra (le grandi imprese) mentre le donne sono relegate nell’altruismo della cura”. Eppure il femminismo, secondo la Gilligan, è liberazione, è “una forza che trasforma le vite sia degli uomini che delle donne”. Il suo è un “femminismo non di genere”, non è femminile. “L’etica femminile conserva la struttura patriarcale”, mentre “l’etica femminista porta a una trasformazione necessaria alle società democratiche”. Il “prendersi cura” è auspicabile che si allarghi anche agli uomini. Obiettivo non facile, ma a cui tutti e tutte dobbiamo tendere.
La società si evolve e ci si augura che le giovani generazioni sappiano rifiutare di conformarsi a un modello imposto, a un ruolo sociale di stampo patriarcale, a un sistema di idee e valori che cade dall’alto. Come partigiane moderne dobbiamo essere in grado di osare, di rischiare e di difendere la libertà e i diritti acquisiti. 
I diritti non sono acquisiti per sempre, occorre vigilare e tornare a difenderli periodicamente tutti. Dobbiamo trasmettere di generazione in generazione l’importanza dei diritti tanto faticosamente conquistati. Dobbiamo trasmettere gli anticorpi della democrazia e dei diritti.

 

Fonti bibliografiche
Baggio Antifascista – di Giuliana Cislaghi. Ed. 2005
In guerra senza armi. Storia di donne. 1940-1945 – di A. Bravo e A.M. Bruzzone. Ed. Laterza 1995
 
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Oltremare

©Anarkikka di Stefania Spanò

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Di fronte a questo genocidio del mare ad opera di uomini e organizzazioni criminali internazionali senza scrupoli, non possiamo restare indifferenti, e non possiamo tirarci fuori, perché ne siamo responsabili, anche se qualcuno si ostina a tirarsi fuori. Come trasformare il dolore e l’indignazione che ci coglie dopo un’ennesima tragedia che si consuma in mare, vicino alle nostre coste dipinte come l’Eden a cui aspirare, in un’azione permanente e tangibile che superi il momento contingente e ci porti a rifiutare tutto questo e a combattere chi sulla tratta di esseri umani si arricchisce e prospera? Perché dovremmo tutti insieme rifiutare questa carneficina, perché chi non muore in mare, spesso è destinato a vivere l’inferno su questa terra. Lo stesso dolore che proviamo di fronte a ogni ennesima tragedia del mare, dovremmo provarlo ogni giorno, consapevoli di quel che accade in Italia e in tutti i Paesi di destinazione. Perché questa immane tragedia è permanente, tra chi muore e chi viene privato dei suoi diritti prima, durante e dopo la traversata. Ne scrivevo qualche giorno fa (qui). La tratta ha il volto di questi uomini, donne e bambini, nuovi schiavi di un mercato criminale con rotte internazionali che portano carne per alimentare i nostri Paesi. C’è di tutto, lavoro forzato, prostituzione, traffico d’organi e una serie di altri orrori. La tratta non si ferma, quando i media smettono di seguire le disgrazie dei migranti. La violenza a cui vengono sottoposti non si spegne e il nostro silenzio si tinge di connivenza, se non ci sentiremo responsabili e se non capiremo che molte delle soluzioni dipendono da noi, dal nostro modo di essere cittadini. Lo capiremo solo quando usciremo dal nostro individualismo ed egoismo ciechi. Iniziamo a conoscere seriamente il fenomeno, capiremo che il quadro è molto più ampio e ramificato e che ci tocca in prima persona. Sono i nostri fratelli, le nostre sorelle, SEMPRE, non solo quando ci fa comodo o fanno notizia. Chiudere gli occhi e le frontiere non è umano, ci rende carnefici, il monstrum spesso abita dentro di noi, anche se per alcuni è più rasserenante continuare a volerlo vedere altrove, distante da noi. Il primo passo per iniziare a invertire la nostra rotta fatta di indifferenza o di empatia a singhiozzo, sarebbe ricordarci le nostre traversate oceaniche. Un secondo, comprendere le ragioni di chi migra. Un terzo, conoscere il fenomeno della tratta di esseri umani.

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I danni della tratta

 

Questo post è per tutti coloro che sostengono che la prostituzione non causa gravi conseguenze e che sia un servizio sociale, un diritto inalienabile per qualsiasi uomo. Questo post è per tutti coloro che ignorano cosa sia la tratta di esseri umani. Questo post è per tutti coloro che in un modo o nell’altro tendono a giustificare il sistema prostituente.

Vi segnalo questa ricerca sul traffico di esseri umani in Cambogia, Thailandia e Vietnam, pubblicata sul Lancet (QUI).
Questo studio ha analizzato i danni a lungo termine per la salute delle persone che sono vittime di tratta. Il lavoro di ricerca, condotto dall’équipe di Ligia Kiss, ha coinvolto 1.102 persone, tra uomini, donne e bambini, che sono stati sfruttati sessualmente (32%), costretti al lavoro forzato nel settore della pesca (27%) e in fabbrica (13%). Lo studio prende in esame persone che sono  sopravvissute alla tratta. I risultati hanno l’obiettivo di evidenziare in via preliminare alcuni indicatori di stress e disordine psicologico. Queste persone soffrivano di depressione, stati ansiosi e disturbi post-traumatici da stress. Non sono favole, sono violazioni dei principali diritti umani, a cui noi non prestiamo la giusta attenzione e non combattiamo abbastanza. Lontano geograficamente non significa che non ci coinvolge e non ci deve interessare. Molti di loro sono vittime anche dei nostri turisti sessuali, delle nostre abitudini di consumatori compulsivi, siamo responsabili tutti se non facciamo qualcosa per smascherare questo sistema di schiavismo avanzato. I risultati di questo studio ci devono portare a riflettere sulle ricadute che hanno le violenze sulle vittime di tratta. Il nostro è uno dei Paesi di destinazione di questo business, riflettiamo bene quando parliamo di prostituzione. Parliamo in primis di salute delle vittime, e cerchiamo di mettere in atto qualcosa che combatta questi crimini, che colpisca chi sfrutta e chi ne usufruisce.
Riporto alcuni passaggi fondamentali della ricerca:

“Trafficking is a crime of global proportions involving extreme forms of exploitation and abuse. Yet little research has been done of the health risks and morbidity patterns for men, women, and children trafficked for various forms of forced labour”.
481 (48%) of 1015 experienced physical violence, sexual violence, or both, with 198 (35%) of 566 women and girls reporting sexual violence.

More than half of children were trafficked for sex work, with 201 of 281 (72%) of girls forced into sex work.

Almost half of participants experienced physical violence, sexual violence, or both, including the majority of adults (eg, slapped, shoved, or had something thrown that could hurt; pushed or shoved; hit with a fist or with something else that could hurt; kicked, dragged, or beaten up; see table 2). Almost half of men reported physical violence and some reported sexual abuse. Among women, sexual abuse was much more common and physical violence was slightly less common than in men. More than a third of children reported physical violence, sexual violence, or both; just over a fifth reported sexual violence and almost a quarter reported physical violence.

 

55 (20%) of 281 girls reported physical violence and 73 (26%) of 281 reported sexual violence, whereas 27 (43%) of 63 boys reported physical violence and one (2%) of 63 reported sexual violence. Overall, 198 (35%) of 566 women and girls experienced sexual violence. Threats were reported by almost half of all participants (table 2).

 

This is the first health study of a large and diverse sample of men, women, and child survivors of trafficking for various forms of exploitation. Violence and unsafe working conditions were common and psychological morbidity was associated with severity of abuse. Survivors of trafficking need access to health care, especially mental health care.

 

Men, women, and children trafficked for various forms of forced labour and sexual exploitation were highly exposed to physical and psychological abuse, lived and work in extremely hazardous conditions, and reported serious health problems. This study builds on a small body of evidence, primarily on the health of girls and women trafficked for sex work, by adding findings about the health needs of men, women, and children trafficked into various labour sectors and offers unique data from the Mekong region.

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Table 1 – Fonte: The Lancet

 

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Table 2 – Fonte: The Lancet

 

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Table 3 – Fonte: The Lancet

 

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Table 4 – Fonte: The Lancet

 

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1995: sembra ieri

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Son trascorsi 20 anni dalla Conferenza mondiale sulle donne di Pechino (qui), indetta dall’Onu, alla quale parteciparono oltre trentamila donne di tutto il mondo. Da quella conferenza uscì la Piattaforma d’Azione (QUI), il testo politico più ricco e visionario su cui le donne si siano mai confrontate a livello internazionale e che resta tuttora una fondamentale pietra miliare per i diritti delle donne.
Ci ritroviamo in Sala Alessi, Milano, anno 2015. Un incontro costruito e voluto fortemente dal gruppo internazionale della Casa delle donne di Milano. Buona partecipazione, età media abbastanza elevata. Pochissime presenze di una generazione, la mia, che all’epoca di Pechino era in piena adolescenza o giù di lì. Così per le successive. Si pone il problema di come passare il testimone tra la generazione di Pechino e le nuove. Cosa è rimasto di allora, cosa è accaduto nel frattempo?
Indubbiamente una buona occasione per tracciare un bilancio, disegnare lo stato dell’arte della condizione delle donne nel mondo, ascoltare le testimonianze di attiviste provenienti da vari Paesi, tra fondamentalismi religiosi, neoliberismo, varie forme di patriarcato, crisi globale, insomma tra sfide vecchie e nuove. Oggi, dotate di una consapevolezza in più: sapere che molte donne non conoscono i propri diritti e che c’è la possibilità di cambiare la propria condizione. Il femminismo dovrebbe parlare anche e soprattutto a queste donne, altrimenti è semplicemente un susseguirsi di lustrini, paillettes e sterile agghindarsi.

Molto interessante l’introduzione di Anita Sonego, che ha ricordato cosa avesse rappresentato allora la conferenza di Pechino: uno spartiacque che segnava il riconoscimento ufficiale del ruolo delle donne nelle politiche mondiali, un punto fermo, dal quale partire per costruire un assetto mondiale diverso. Un evento che aveva sprigionato una forza e un’energia enormi, una rinnovata certezza di far parte di un movimento politico, quello delle donne, fondamentale e duraturo.
Oggi da più parti si cerca di tornare indietro, attuando una sorta di restaurazione del modello di società di stampo patriarcale, con ruoli e ordini che pensavamo ormai archiviati per sempre. Invece, complici la crisi dell’ordine mondiale e la globalizzazione, c’è un pericoloso effetto backlash, con una sfida per il movimento delle donne: come agire e incidere in questo contesto difficile. La questione non ruota più solo attorno all’accesso al potere da parte delle donne. Ma si pongono due strade alternative: accedere al potere e cambiarlo, oppure cercare di scoprire ed evidenziare cosa è alla base e dietro il potere stesso. Quale crimine fonda il potere? La cancellazione delle donne, un potere che si fonda su questa esclusione. Come ci rapportiamo con questa “negazione”, annullamento delle donne? Secondo Anita Sonego occorre mantenere lo sguardo lucido di Medea di Christa Wolf, le donne prima e dopo Pechino ci siano da guida con la loro lucidità.
L’europarlamentare Eleonora Forenza interviene con un messaggio video: richiama la mercificazione dei temi di cura e e relazioni, il gender gap, la disuguaglianza strutturale, i contenuti della recente Risoluzione Tarabella. Tante le strategie che noi donne mettiamo in atto per resistere alle varie forme attraverso le quali il patriarcato cerca di affermare se stesso e le sue regole.

Cecè Damiani presenta il percorso di nascita della Casa delle donne di Milano. Traccia il percorso delle cinque conferenze mondiali sulle donne, da quella di Città del Messico del 1972 all’ultima nel 2000 a New York.
Viene evidenziato un ruolo marginale dell’Italia nelle varie esperienze internazionali del movimento delle donne, con partecipazioni che sono rimaste individuali e non hanno creato un discorso diffuso e condiviso. Ecco, in qualche modo si evidenzia uno dei limiti principali del movimento nostrano. Pechino suggeriva un metodo ben preciso: pensare globalmente, agire localmente. Ci si chiede quanto le reti internazionali tra donne abbiano funzionato e spinto verso soluzioni concrete.
Gli spazi di azione aperti da Pechino, sembrano essersi in parte richiusi.
Oggi il movimento ha cambiato forma, metodi di intervento e leadership, agisce attraverso mille rivoli disseminati sui territori, concentrato su singole tematiche, interessi e aspetti. In Italia, in particolar modo, a mio avviso subisce le spinte individualistiche, al far da sé, perché, almeno da noi, fare le cose assieme è diventato un terreno accidentato. A furia di colpi bassi e strumentalizzazioni, si è persa la voglia di lavorare collettivamente. Ma in questo modo rischiamo di incidere meno, di non raggiungere gli obiettivi, di subire la leadership maschile, che tende inevitabilmente a lasciarci nell’invisibilità. Ancora una volta ci viene chiesto di assumere il ruolo di salvatrici, di coloro che si sacrificano per gli altri. La crisi globale colpisce maggiormente le donne, lo sappiamo sulla nostra pelle. Il ritorno a un ruolo domestico, di cura, di supplenza di servizi pubblici inesistenti, confina le donne in un recinto che pensavamo di aver rimosso. Torniamo a una nuova dipendenza dagli uomini, con contorni labili tra scelta e decisione coartata e coatta. Oggi più che mai una spinta verso la libertà femminile comporta grossi rischi, il sottrarsi a ruoli tradizionali può innescare episodi di violenza maschile, volta a ripristinare una supremazia maschile. L’esaltazione del lavoro di cura in capo all’elemento femminile è finalizzato a garantire che privilegi maschili secolari non possano essere intaccati. Una certa politica neoliberal considera la questione della parità uomo-donna raggiunta, come se non permanessero disuguaglianze e conflitti sociali. Pur ammettendo l’importanza di un ruolo attivo delle donne nella vita pubblica, economica non si riesce a superare quelle distanze che tutti noi conosciamo. Si torna ad attaccare i diritti e le libertà delle donne per assicurarsi un ancestrale controllo sulle donne, sui loro corpi, sulle loro scelte e sulle loro vite. È necessario comprendere il nesso tra fondamentalismo (soprattutto religioso) e patriarcato. Lo scopo dell’incontro in Sala Alessi si proponeva i seguenti quesiti e ambiti di indagine: come il patriarcato si sta riorganizzando nei vari Paesi, le strategie delle donne per resistergli, conoscere le esperienze locali e internazionali.
L’economista e attivista per i diritti delle donne Peggy Antrobus interviene in un video, in cui traccia l’importanza delle conferenze degli anni ’90 per aver portato nelle agende politiche il tema dei diritti delle donne come diritti umani. Qui il video trasmesso.

Marina Sangalli sottolinea l’importanza di riaffermare gli impegni tracciati a Pechino, per evitare un pericoloso rollback, una retromarcia verso nuove forme di patriarcato. Personalmente penso che il patriarcato non sia mai andato via, ma sia rimasto una costante.
Al tasso attuale dei cambiamenti culturali, quanto detto a Pechino potrebbe diventare realtà non prima di 80 anni. Non proprio pochi. Il cambiamento è demandato alle organizzazioni della società civile, chiedendo ai governi di creare il contesto favorevole e finanziamenti per consentire che ciò accada. Qui in un recente contributo.

Faccio un inciso per fare una segnalazione. Presso l’EC Forum on the Future of Gender Equality, la European Women’s Lobby ha chiesto alla commissione europea e agli stati membri di avviare una concreta strategia europea per raggiungere pari opportunità tra uomini e donne: QUI.

Quali prospettive di genere nella nuova agenda ONU 2015-2030? Qui qualche info:

http://www.unwomen.org/en/what-we-do/post-2015
http://www.unwomen.org/en/news/stories/2015/02/ed-opening-address-at-mobile-learning-week
http://www.unwomen.org/en/news/stories/2014/9/ed-speech-at-post-2015-stocktaking-event

Women Leaders Call for Mainstreaming Gender Equality in Post-2015 Agenda


http://en.wikipedia.org/wiki/Post-2015_Development_Agenda

Justa Montero, ha fatto un intervento energico, tosto, denso di temi. La libertà femminile è sotto attacco da più versanti: patriarcato, liberismo, fondamentalismo. La crisi sociale ambientale, sociale, economica e democratica ha effetti devastanti sulla vita delle donne. È un fattore che moltiplica le disuguaglianze, precarizza la condizione delle donne. Basti pensare alle percentuali di disoccupazione giovanile, le problematiche delle lavoratrici immigrate che mantengono a distanza le proprie famiglie, la violenza sessuale, la violenza domestica, il processo di ritorno alla famiglia per sopperire alla mancanza di servizi di cura. Tutti fattori che segnano un emergente ritorno alla responsabilità prevalentemente in capo alla donna della gestione della vita domestica, un lavoro invisibile e gratuito. La precarizzazione della condizione delle donne non solo nel mondo del lavoro, pienamente in linea con quella che Montero chiama la economia del rebusque (temporanea, precaria). Così le percentuali di persone che lasciano il lavoro retribuito per accudire un familiare sono maggiormente femminili. In questo quadro, diritti e sentimenti che spingono le donne alla cura si contrappongono. Si produce un tipo di lavoro “naturalmente” assegnato alle donne. Questo sistema porta a una invisibilizzazione delle donne, della loro condizione economica e generale. C’è tutto un bagaglio culturale che permette di considerare “naturale” questo assetto.
Un altro tema centrale è l’aumento della violenza tra persone giovani, con un ritorno a una pericolosa idea di amore romantico, che apre le porte anche a forme morbose di rapporti, che vedono al centro un’idea di possesso della donna, che nulla hanno a che fare con l’amore.
Le femministe spagnole hanno dimostrato di essere in grado di creare un fronte compatto per opporsi ai disegni del governo in tema di autodeterminazione, per affermare i propri differenti modi di vivere, identità sessuali, scelte sulla maternità. La mobilitazione #YoDecido ha vinto la sua battaglia per dire no a un tentativo di tornare a controllare le donne e i loro corpi (per questo sono importanti le iniziative come la dichiarazione di Berlino QUI). Il femminismo è in prima linea anche per trovare soluzioni per superare l’attuale crisi. Le piazze spagnole hanno dimostrato che ci sono persone piene di speranza, disposte a impegnarsi in prima persona per ottenere un cambiamento.
Un quadro nuovo, composto dalle donne immigrate, nuovi attori politici, nuove istanze, liste elettorali in ordine alternato di genere, fanno sperare in un superamento della crisi democratica, che è crisi di rappresentanza politica.
L’intervento di Montero si chiude con un meraviglioso augurio: “La revolución será feminista o no será”, oggi è il nostro tempo, e che il cambiamento sia effettivo per le donne!
Mona El Tahawy, giornalista e attivista egiziana, ha raccontato la situazione egiziana a partire dalle proteste di piazza Tahrir, con i diritti umani fortemente limitati, le violenze sulle donne (pubbliche, anche durante le proteste, sui mezzi, per le strade, e domestiche), le coperture di questi crimini e le connivenze con chi li commette da parte delle forze dell’ordine, la difficoltà di essere attivista in un contesto illiberale, in uno stato fortemente militarizzato, una magistratura che non applica le leggi. Le proteste chiedevano maggiore libertà, anche per le donne.
Ricordiamo tutti l’uso della violenza sessuale come strumento politico contro le donne nel corso di manifestazioni e proteste, che risale al 25 maggio 2005, una giornata ricordata come “mercoledì nero”. Così come non possiamo dimenticare la prassi dei test di verginità sulle donne che protestavano (QUI).
Le condizioni delle donne sono pessime e permangono forti disuguaglianze tra uomini e donne.
Altra questione è la pratica delle mutilazioni genitali che continua ad essere diffusa.

Ahlem Belhadj, ex presidente dell’associazione tunisina donne democratiche (ATFD) ha parlato del ruolo delle donne negli anni della lotta per l’indipendenza (1956), fino ad oggi, contro i fondamentalisti. Si è soffermata sulle forme di resistenza messe in atto dalle femministe: richiesta di parità nelle liste elettorali, diritto al lavoro, lotta alla corruzione, maggiore giustizia sociale. Oggi la lotta si rivolge contro ogni forma di violenza, terrorismo, contro il patriarcato, lo sfruttamento messo in atto dal capitalismo e dal neoliberismo.

Jasmina Tešanović, scrittrice, regista e femminista serba, ci ha portato l’esperienza delle Donne in Nero di Belgrado, movimento pacifista, contro ogni forma di militarizzazione e violenze, che si batte per un recupero delle storie delle donne, che durante gli anni della guerra (quest’anno cade il 20° anniversario del genocidio di Srebrenica) furono vittime di stupri, violenze e rese profughe. La Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja nel 2007 ha riconosciuto il crimine di genocidio perché “l’azione commessa a Srebrenica venne condotta con l’intento di distruggere in parte la comunità bosniaco musulmana della Bosnia-Erzegovina”. Le donne sono state il vero motore di pace.

Ha chiuso gli interventi del mattino Berit As, norvegese, fondatrice dell’Università delle donne nordiche ed ex parlamentare.

Ho seguito solo i lavori della mattinata e non conosco l’esito dei tavoli di lavoro del pomeriggio. A breve verrà pubblicata una relazione dei lavori sul sito della Casa delle donne di Milano. Sarà fondamentale leggere i risultati di questo convegno internazionale, per comprendere cosa è nato dal confronto delle diverse esperienze. Per tradurre in pratiche concrete di cambiamento quanto espresso in sala Alessi. Questo il mio primo auspicio.
Personalmente penso sia stata una mattina proficua, piena di spunti e di idee da portare a casa, insomma tutto molto stimolante. Saperi e storie messe in circolo, condivise. Penso sia importante recuperare i passi compiuti nel passato e tornare a fare periodicamente il punto su dove siamo e quali sono i nostri obiettivi. L’unico rammarico è stato non aver potuto partecipare ai tavoli pomeridiani. Sensazione finale: “i femminismi del 2000” erano fuori. A testimonianza e a conferma di come ci siano dei luoghi diversi di azione e delle modalità differenti. Auspico la creazione di vasi comunicanti. Parola d’ordine: apertura!

 

Biografie delle relatrici

QUI

 

LINK

http://casadonnemilano.it/networking-internazionale/

http://www.dawnnet.org/feminist-resources/

 

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Il silenzio non cambia le cose

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Ci vorrebbe una scala per il paradiso per uscire dall’inferno in cui vivono le vittime di tratta.

Ho partecipato al convegno indetto da Caritas Ambrosiana “Tratta e Prostituzione – Il corpo per il pane: la possibile prevenzione”.
L’inizio è stato un colpo duro, molto duro. Hanno proiettato Red leaves falling:


Cartone sul tema della tratta dei minori e dello sfruttamento della prostituzione minorile, realizzato da Starway Foundation nell’ambito di un progetto di educazione e protezione dei minori. Mani Tese, che ha lanciato la campagna “inTRATTAbili”, contro la tratta degli esseri umani, ne ha curata l’edizione italiana.
Al termine avevo un groppo in gola, ero senza fiato. Il merito del lavoro è quello di comunicare la sofferenza, senza mostrare scene crude o violente. Si lascia che l’angoscia e il dolore arrivino per quello che non viene detto e mostrato, per ciò che resta sottinteso, ma emerge negli occhi della protagonista. Per questo fa ancor più male e nessuno di noi può restare indifferente a questa barbarie inaccettabile, eppure non sono così diffuse la percezione e la consapevolezza del male che viene fatto a milioni di esseri umani in tutto il mondo. Questo progetto dimostra la forza comunicativa che possono avere un disegno animato e una storia. Quella sofferenza e il senso di impotenza ti entravano dentro.
Anna Pozzi, giornalista e segretaria generale di Slaves no More onlus, ci ha mostrato le stime della tratta nel mondo.
Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) e l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Unodc) i dati sono questi:

21 milioni di vittime di tratta
il 70% è composto da donne e bambine (di cui il 49% donne, 21% bambine)
18% uomini
12% bambini
il 53% è destinato a sfruttamento sessuale
il 40% al lavoro forzato

La relazione completa QUI.

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Spesso subiscono violenze e abusi inimmaginabili.

La tratta colpisce le persone più povere e vulnerabili. Ogni anno ci sono circa 2,5 milioni di nuove vittime del traffico di esseri umani. Una vera e propria neo-schiavitù.
Il traffico di esseri umani è finalizzato a:

  • sfruttamento sessuale
  • lavoro forzato
  • espianto di organi
  • accattonaggio forzato
  • servitù domestica
  • matrimonio forzato
  • adozioni illegali
  • gravidanze surrogate.

Su quest’ultimo punto mi piacerebbe avere dei dati.

Il lavoro forzato è soprattutto finalizzato al settore manifatturiero ed edile, il lavoro domestico e tessile. Il 35% è di sesso femminile.
Il rapporto Unodc evidenzia delle peculiarità a seconda del continente: in Europa e in Asia Centrale prevale la tratta per sfruttamento sessuale (66%); in Asia orientale e nel Pacifico il 64% è invece destinato al lavoro servile.

Un terzo delle vittime è un bambino, il 5% in più, rispetto al periodo 2007-2010. Le bambine sono i 2/3 dei minori.
Per i trafficanti e gli sfruttatori c’è un guadagno enorme: 32 miliardi di dollari annui. Dopo il traffico di droga e di armi, il più redditizio business è quello degli esseri umani.

Nel nostro Paese il fenomeno riguarda tra le 30 e le 50.000 persone solo per quanto concerne lo sfruttamento sessuale. Circa la metà sono donne nigeriane.

A Milano, secondo i dati del Comune, circa 7000 donne sono costrette a prostituirsi sulle strade o nei locali, con punte nei weekend e durante le fiere. Ogni anno 800 nuove donne finiscono in questo inferno, 1 su 5 è nigeriana. Ora che mancano solo una manciata di giorni all’avvio di Expo, cosa sta accadendo? Qualche mese fa, si parlava di 15.000 nuovi arrivi. Ma nessuno ne parla o sembra interessarsi. Quasi come se fosse normale replicare ciò che è accaduto durante altri grandi eventi mondiali, come l’ultimo campionato del mondo di calcio in Brasile.
Le nigeriane prostituite (più che prostitute) oscillano tra le 15.000 e 20.000. Meglio definirle prostituite perché di libero arbitrio non ne hanno, sono schiave e spesso non hanno alcun strumento per uscire da questa condizione. Le rotte della tratta le potete vedere nel grafico.

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Tutto ha spesso inizio a Benin City. Sono viaggi che durano mesi o anni, sempre all’insegna di violenze e abusi di ogni tipo.
A ottobre 2014, si è registrato un boom di nigeriane destinate alla schiavitù, + 300% rispetto all’anno precedente, secondo l’allarme lanciato dall’Oim (Organizzazione internazionale delle migrazioni). (QUI un articolo che ne parla)

Secondo il capo missione dell’Oim in Italia, queste donne vengono spesso violentate e sono obbligate a prostituirsi. Sono costrette a lavorare in bordelli in Libia e poi mandate in Italia. Subiscono anche pressioni e manipolazioni psicologiche, riti voodoo che le rendono dipendenti e completamente succubi dei loro aguzzini.

Secondo la direzione nazionale antimafia, ogni persona che riesce a uscire da questo inferno, sottrae tra i 40 e i 50.000 euro all’anno alla criminalità organizzata. Nel 2010, la stima della Commissione parlamentare affari sociali era di un mercato da 1,5 miliardi di euro annui. Si parla di 9-10 milioni di prestazioni sessuali al mese.
I fattori di rischio per la tratta sono:

  • povertà e disoccupazione
  • mancanza di pari opportunità (le donne rappresentano i 2/3 dei 2,5 miliardi di persone che vivono sotto la soglia di povertà)
  • discriminazioni sociali ed economiche
  • guerre, conflitti, persecuzioni politiche e religiose
  • mancanza di prospettive
  • responsabilità nei confronti della famiglia (per aiutarla, soprattutto se c’è qualcuno malato e bisognoso di cure).

La Nigeria è la prima economia africana, ricca di petrolio, ma con un enorme gap tra ricchissimi e poverissimi (QUI un recente articolo). Il 70% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. In Kenia è il 50%. In questo contesto è facile credere e seguire chi ti promette una vita migliore. L’Occidente viene dipinto come l’Eden, il luogo dove tutto è possibile per tutti. Per molti questo è l’ingresso nella schiavitù e l’inizio di violenze disumane.

Elemento che incide fortemente nell’alimentare questo vortice è il tasso di analfabetismo: il 66% sono donne. Le bambine sono la maggioranza dei 121 milioni di minori che non vanno a scuola.
“Perché se ne vanno? Bisognerebbe fare l’esperienza di chi lotta quotidianamente per sopravvivere per capire a fondo cosa spinge queste ragazze a partire a ogni costo”, spiega Jude Oidaga, gesuita originario di Benin City.
Si aspira a più alti standard di vita (sanità e istruzione), maggiore stabilità politica ed economica, maggiore libertà. Vengono convinti che ci sono maggiori possibilità di lavoro, non conoscono bene le condizioni di lavoro nei Paesi di destinazione, come il lavoro a basto costo e la prostituzione. E naturalmente cadono vittima anche dei network di migranti.
Il primo rapporto Greta (2014, monitoraggio del Consiglio d’Europa) sull’Italia, mostra i punti critici del nostro Paese: mancanza di meccanismi adeguati di identificazione delle vittime (soprattutto per lo sfruttamento lavorativo). Il rapporto (QUI) invita l’Italia a dotarsi di un Piano nazionale anti-tratta scaduto nel dicembre 2014.
Le linee di intervento promosse anche a livello internazionale, per contrastare tratta e schiavitù a fini prostitutivi, prevedono: prevention, protection, prosecution (prevenire, proteggere, punire).
Così come risulta dal Protocollo di Palermo (QUI).

La suora comboniana Gabriella Bottani, per dieci anni impegnata in Brasile, ci parla proprio della prevenzione e delle attività di Talitha Kum, la rete internazionale della Vita Religiosa contro la tratta di persone. Si tratta di una rete di operatori laici e religiosi che lavorano in 81 Paesi, in 5 Continenti.
Si fa prevenzione nelle scuole, attraverso il dialogo, l’informazione, l’educazione, nei quartieri a rischio, lavorando con gli insegnanti, per riconoscere i rischi e intervenire ai primi campanelli di allarme.
Occorre combattere la povertà, investire in politiche sociali e che alle persone vengano riconosciuti e assicurati i diritti fondamentali.
Un livello successivo di intervento consiste nell’accompagnare le persone che decidono comunque di emigrare, cercando di aiutarli a difendersi nel caso si accorgano di essere finite in situazioni di violenza e sfruttamento.

Per coloro che sono già vittima di tratta, si cerca di aiutarli ad uscire attraverso progetti di inserimento lavorativo, di formazione, di regolarizzazione dei documenti e dei permessi di soggiorno.
Contemporaneamente occorre intervenire per interrompere un circolo vizioso di corruzione e impunità di certi crimini. Occorre tornare all’essere, superando la crosta dell’indifferenza. Recuperare il valore dell’essere, in sé stessi, non come proiezione sul mondo e sulle sue manifestazioni. Su quel ridurre ogni cosa o persona a merce, valutandone unicamente la sua utilità rispetto a me e ai miei bisogni, desideri o aspettative.
Mi è piaciuta molto la citazione di Etty Hillesum, alla quale sono molto legata.

etty

 

Ricordiamoci che il cliente compra un altro essere umano essenzialmente per umiliarlo, per ribadire il suo potere, il potere dato dal denaro.

In conclusione si è ribadita la necessità di un lavoro volto a sovvertire le abitudini e la cultura maschili esistenti. In Svezia e in Islanda sono intervenuti sulla domanda, sui clienti. Oggi, l’inversione culturale è in atto, comprare corpi non è più tanto “appetitoso”. Perché senza la richiesta, non sarebbe più conveniente lucrare sugli esseri umani. Sarebbe più semplice contrastare la tratta e fermare questo vero e proprio crimine contro l’umanità.

Il cartone animato si concludeva con un invito forte, che è anche il mio motto quotidiano:
“Il silenzio non cambia le cose. Alza la voce e reagisci!”

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Arretramenti

women power

 

Lentamente, silenziosamente si mina ai diritti, tra i quali spiccano quelli relativi al lavoro, a una maternità consapevole e frutto di una libera scelta, all’aborto, si chiede alle donne di alzare la natalità tornando a figliare, si sforna il bonus bebé (su cui mi sono già espressa qui), si continuano a fare tagli alla sanità e al welfare tutto, non si fanno politiche di prospettiva ampia, ma al massimo si tappa il buco oggi. Stavo riflettendo con Eleonora Cirant, nel corso della manifestazione dello scorso 11 aprile in difesa della 194: questa legge incrinata e sotto un attacco permanente (non mi riferisco solo ai comitati NO194, ma soprattutto a causa dell’obiezione di coscienza e dei tagli agli investimenti in strutture pubbliche come i consultori) fa parte di un sistema di garanzie, tutele e diritti faticosamente conquistate e oggi in lento ma progressivo deterioramento. Un tassello dietro l’altro potremmo trovarci senza diritti o tutele. Quella di Piazza Cordusio è stata una esperienza rinvigorente, come sempre. Può sembrare irrilevante manifestare in difesa di una singola legge, per molt* le priorità sono altrove. Ma quella legge rappresenta tanto, sotto il profilo dell’autodeterminazione della donna, per la sua salute, per il suo diritto a decidere sul suo corpo. Ha un significato e un valore simbolico molto vasto. I diritti non sono slegati tra loro, la galassia dei diritti è interconnessa, se si spezzano uno o più fili, il sistema intero entra in crisi, gli equilibri si rompono, attaccarli è più semplice, si iniziano a verificare falle sempre più difficili da ricomporre. Ecco che in una società, se affermi che le donne hanno dei diritti, che devono avere pari dignità, eguale salario, tutele, garanzie e un diritto a compiere delle scelte autonome, esattamente come gli uomini, sancisci un vantaggio per l’intera comunità, riesci ad uscire dalle logiche dei privilegi, degli status sociali, delle discriminazioni di genere, delle logiche patriarcali, dei diritti a macchia di leopardo. A mio avviso l’attacco alla 194 rientra in un preciso disegno di riduzione delle libertà, di ridimensionamento delle prospettive delle donne, di un ritorno a una società più fissa, meno mobile e più controllabile. Un segnale di pericolo e di attenzione per tutti i diritti. Se togli servizi sul territorio, o li fai diventare a pagamento (vedi i consultori e non solo; per fortuna in Lombardia sulla fecondazione eterologa il Consiglio di Stato ha sospeso la delibera della Lombardia che, unica regione in Italia, prevedeva il costo delle tecniche di eterologa a totale carico dei cittadini; si ricorda che la fecondazione eterologa a livello nazionale rientra nei livelli essenziali di assistenza, ovvero le cure garantite dal Servizio sanitario nazionale, a pari livello della fecondazione omologa), se precarizzi i diritti in materia di lavoro, se non sostieni il lavoro femminile, se non garantisci conciliabilità per entrambi i genitori, se consenti che ci sia ancora un gap salariale uomini-donne, poni le basi per un pericoloso ritorno e restaurazione di una società “arcaica”, ancora fondata su distinzioni di censo, di status sociali, di diritti pericolosamente a fasi alterne, che colpisce le fasce più deboli della popolazione, tra cui proprio le donne, invitate a tornare a fare le brave massaie e in esistenze silenziose. Arretramento nei diritti, arretramento culturale, passivizzazione della popolazione e frazionamento delle istanze, colpi alla solidarietà intra-sociale, con l’obiettivo di creare i presupposti per una “ignoranza” dei diritti diffusa, per una incapacità di leggere il mondo attorno: tutto questo è un pericoloso mix che ci rende più fragili e maggiormente vulnerabili.
I diritti non sono acquisiti per sempre, occorre vigilare e tornare a difenderli periodicamente tutti. Dobbiamo trasmettere di generazione in generazione l’importanza dei diritti tanto faticosamente conquistati.
È necessario chiedere che le cose migliorino, il senso del nostro essere oggi in piazza era quello di difendere la 194, chiedere che il suo art. 9 non continui a diventare un alibi di disapplicazione della stessa, che non ci sia più obiezione di struttura, che si investa seriamente nei consultori e nelle strutture pubbliche, consentendo che i servizi vengano forniti h24.
Ma questo vale per tutti i diritti. Per non tornare indietro e poter aspirare ad averne di nuovi!
Ci sono dei modelli che sono vivi e vegeti e che influenzano fortemente le relazioni umane. Mi riferisco al mare magnum del patriarcato.
Cito Carol Gilligan:

“La parola Patriarcato descrive attitudini, valori, codici morali e istituzioni che separano gli uomini tra di loro e gli uomini dalle donne, e che suddividono le donne in buone e cattive. Finché le qualità umane saranno divise in maschili e femminili, saremo separati le une dagli altri e da noi stessi e continueremo a disattendere la comune aspirazione all’amore e alla libertà”.

Il revival di un modello prostitutivo free, falsamente emancipatorio, fatto di zoning e di case autogestite, come se fosse un piacevole lavoro, o comunque alla stregua di altri, segna un altro passaggio, un pericoloso via libera e sdoganamento di un’abitudine maschile, quale quella di affermare che l’uomo può comprare e avere diritto a usare il corpo di una donna. Significa non voler vedere lo sfruttamento e la violenza, avvalorare il concetto che tutto sommato sia naturale e giusto considerare le donne degli oggetti da usare. Significa assegnare diversi diritti alle donne buone e quelle cattive. Significa discriminare.
Ringrazio Ilaria Baldini per aver riportato sulla sua bacheca FB questi frammenti di Elena Gianini Belotti. Desidero condividerli perché a mio avviso sono fondamentali.

Dal capitolo “Il silenzio del sesso” del suo libro “Prima le donne e i bambini”, 1980.
“E’ nel rapporto sessuale che si produce, tra uomo e donna, il più tragico silenzio della parola e del corpo. E’ lì che la disparità di potere e di condizione, la subordinazione della donna, i diritti dell’uomo e i doveri di lei, la sopraffazione e l’accettazione passiva, le richieste e le resistenze, si manifestano con maggiore evidenza e provocano acuta sofferenza. La pesante repressione che gravava sulla sessualità e che imponeva il silenzio, ha impedito di scorgerne gli aspetti drammatici: se il sesso era nascosto e taciuto, si poteva favoleggiare sulle sue gioie finché si voleva. Ora il sesso ha il permesso di esprimersi e si scopre quello che è sempre stato lì e non veniva detto, e cioè che usare gli appositi organi non è sufficiente per essere felici. La felicità è il risultato di una autentica, ben riuscita comunicazione tra persone anche, ma non solo, a livello sessuale.”
“Il persistere della pretesa maschile che le donne debbano accettare anche il più frustrante dei rapporti con l’uomo senza chiedere niente, col sorriso sulle labbra, fingendo soddisfazioni che non provano, felicità e gratitudine senza ragione, accettando l’implicito ricatto dell’uomo che fa balenare l’idea dell’abbandono nel caso che la donna si rifiuti di comportarsi come le “donnine allegre” del passato, fingendosi una voluttuosa baiadera mentre si sente soltanto depressa e infelice. Un uomo non fa assolutamente nulla per nascondere le proprie scontentezze e depressioni, al contrario: le getta addosso alla donna aspettandosi da lei che lo consoli e lo conforti, ma non è mai disposto ad accettare che l’umore della donna possa subire cedimenti. E’ come sempre, la coscienza maschile dei propri diritti, di fronte alla coscienza femminile di non averne, la disparità di potere tra i due che detta i termini di una relazione.”
“Se quello delle donnine era il sesso allegro, allora era sottinteso che quello delle ‘altre’ era decisamente triste. Le donnine allegre lo erano in funzione degli uomini, si sforzavano di esserlo, di mostrare solo aspetti, modi, atteggiamenti gradevoli, lusinganti e solleticanti la vanità e la sessualità maschile, diventavano cioè puri oggetti sessuali a uso e consumo dell’uomo e si distinguevano per assenza di pensieri e pensiero. Non che fossero effettivamente assenti in loro, tutt’altro: accadeva soltanto che avessero imparato a nascondere con abilità i loro veri sentimenti dietro la professionalità. Solo l’assoluta indifferenza dell’uomo per i sentimenti che le attraversavano poteva arrivare a immaginarle come esseri gioiosi. Dal lato opposto di tanta falsa allegria, stava il sesso vero, quello quotidiano, casalingo, riproduttivo, tristissimo, dal quale l’uomo evadeva di diritto alla ricerca del sesso allegro, come se ne fosse vittima e non avesse invece contribuito lui stesso a renderlo tal, come se fosse un meccanismo ineluttabile, al di fuori di lui e della sua volontà, come un accidente combinatosi chissà come. Ma di questo sesso non si parlava. mentre sul sesso familiare, quotidiano, calava il silenzio più tragico, sull’altro si costruiva l’immaginario, il piacere, la gioia, l’avventura, l’imprevisto. La persona non contava, l’una valeva l’altra: l’importante è che l’involucro fosse ridente. Ma lo era solo per chi non voleva vedere né capire.”

Se ci disuniscono è più semplice controllarci. Ecco perché torno a richiamare le donne e a invitarle ad uscire dal guscio (come dicevo qui). Abbiamo un futuro solo se comprendiamo la necessità di tornare a noi come comunità, perché come singole o singoli rischiamo di essere assorbite/i da fenomeni molto pericolosi. Non dobbiamo permettere che altri parlino per noi.
Dobbiamo mettere in atto una forma di Resistenza quotidiana, per cambiare in meglio la nostra comunità umana. Non abbassiamo la guardia e sfruttiamo ogni occasione per fare sentire la nostra voce. Prima che i nostri diritti vengano schiacciati e diventi difficile recuperarli. Dobbiamo riprendere il filo del discorso..

 

PROPOSTA DI AZIONE CONCRETA:

Sulla scia del viaggio che sta compiendo Marta Bonafoni nel Lazio (qui): propongo di avviare in Lombardia un monitoraggio sui consultori pubblici, soprattutto dopo la Riforma regionale che li ha trasformati in Centri per le famiglie. A che punto è la riforma, quanto e se ha inciso? Insomma tracciare un bilancio, quanto meno con cadenza annuale. Spero di raccogliere qualche informazione in più dopo questa iniziativa prevista per il 16 aprile a Milano: “Gli impatti della Riforma Sanitaria Regionale sulle strutture di assistenza presenti sul territorio di Zona 7” (qui l’evento su FB).

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Libertà per chi?

Human_Trafficking

 

Nessun cliente sembra preoccuparsi delle vittime di tratta di cui hanno abusato. Questo il titolo di un post di Jacqueline S. Homan, che vorrei proporvi (QUI l’originale).

Solo il 15% degli uomini sono clienti (che godono di una protezione sociale e sono degli stupratori legittimati).Circa il 60% di loro sono uomini sposati o impegnati in relazioni stabili e di lungo periodo. Il 100% di costoro finanzia i 32 miliardi di dollari dell’industria commerciale dello stupro. Tutti sostengono di essere contro il traffico sessuale. Tutti sostengono di essere preoccupati delle sopravvissute al traffico sessuale. Ma allora perché si nega un risarcimento e una giustizia riparativa alle sopravvissute?
Invece la società è più interessata a proteggere i privilegi dei clienti. Perché questi clienti sono “bravi ragazzi”, i “pilastri della società”, che in qualche modo sono più meritevoli di protezione delle ragazze e dei bambini che loro pagano per umiliare, stuprare e abusare, e persino uccidere, mentre la società continua ad essere convinta che loro non facciano nulla di male, che non sono dei mostri che distruggono veramente le vite delle loro vittime.
Ma nemmeno a un singolo cliente interessa se la donna o ragazza che viola e abusa sessualmente, che umilia, picchia, tortura, penetra e nella quale eiacula, è costretta a subire quegli atti dietro minacce di percosse o di morte da parte dei magnaccia o dei trafficanti di corpi.
Neppure un singolo cliente importa che lei non vorrebbe essere lì per lui e vorrebbe scappar via da quella vita, ma non ha via d’uscita, se non forse attraverso il suicidio.
A nessun cliente importa se lei è più giovane delle proprie figlie, per le quali egli non vorrebbe mai che ci fossero altri uomini che compiono ciò che sta facendo alla ragazza che ha pagato per avere il “diritto” a fare cose che la moglie o la fidanzata non tollererebbero mai.
Nessun cliente si preoccupa delle invalidità permanenti, come l’incontinenza urinaria, che infliggono alle donne per il resto della loro vita, a causa delle violenze sessuali compiute sui loro corpi adolescenti. Non ti piace ciò che sto facendo? Fa male? Attaccati al c****. Sto pagando. Stai zitta. Non sei altro che carne.
A nessun cliente interessa se la sua “vittima da letto” non vuole farlo senza preservativo – non è un problema del cliente se lei andrà incontro a una gravidanza indesiderata, con tanto di bambino a sorpresa come risultato.
A nessuno importa se infettano la donna con una malattia incurabile e mortale, per le quali non può ottenere cure adeguate (mentre lui può) – che è ciò che i suoi soldi e i suoi privilegi maschili gli danno il diritto di fare.
A nessun cliente interessa se la ragazza che loro si sentono in diritto di scopare non è abbastanza grande nemmeno per consegnare i giornali.
Nessun cliente ha l’interesse a lavorare per una società più equa e paritaria per le donne, affinché esse, come le loro figlie, non siano povere a causa di ridotte opportunità di lavoro, situazione derivante dalla discriminazione nei confronti delle donne, alle quali viene offerta un’unica possibilità: prostituirsi.

 

 

Nessun cliente si preoccupa di niente e di nessuno, tranne che di avere libero accesso a tutte le donne e bambini che il resto della società offre loro su un piatto d’argento, come scudi umani sui quali sfogare i loro impulsi peggiori, malati e oscuri, in modo tale da che le donne e le ragazze “per bene”, delle classi sociali migliori, possano essere risparmiate da questo tipo di esperienze.
Allora, PERCHE’ così tante persone nella società – compresi i professionisti altamente privilegiati che si definiscono oggettivi, imparziali, illuminati e ispirati dalla logica – sono più interessate a proteggere la SUA reputazione di uomo, la sua carriera e il suo “diritto” che va ad arricchire gli sfruttatori, a disumanizzare e a stuprare, a infrangere le speranze di donne e ragazze, distruggendo le loro vite – che a proteggere e a sostenere i diritti umani delle povere sopravvissute e pretendere un valido risarcimento per loro?
Io avevo solo 13 anni. Cosa ho fatto io per meritare di essere gettata via e non avere alternative ai bassifondi, e vedermi mettere una pietra tombale addosso per essere stata venduta dai 13 ai 17 anni senza via di uscita, e dopo essere lasciata morire povera a causa dello stigma e dell’esclusione dal mondo del lavoro per il resto della mia vita a causa di ciò che mi è stato fatto da altri?
Come si fa a pretendere di essere un difensore dei diritti umani delle sopravvissute, chiedere giustizia e poi sostenere che quella roba va bene in nome della “libertà”? Libertà di chi?

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Emersione, libera tutt* ?

mestieri

 

Ieri al termine della diretta dalla Camera sul convegno “Addio Merlin. Prostituzione tra diritto penale e tabù”, mi son dovuta prendere un antiacido. Qui di seguito una specie di blog-cronaca. QUI il video.

L’obiettivo è presentare la squadra bipartisan che lavorerà a un testo di legge per abolire la legge Merlin del 1958 e regolamentare la prostituzione. Tutti uniti appassionatamente per demolire una legge che come ha sostenuto anche Pia Locatelli, “nell’impianto resta ancora una buona legge” (QUI). Vediamo l’alternativa che ci propongono. Giudicate voi se si tratta di un passo avanti e di un miglioramento.

Coordina Annalisa Chirico, giornalista, autrice di Siamo tutti puttane. Una bella garanzia. Si inizia con la litania dei sex workers scelgono, scelgono liberamente la prostituzione. Poi arriva la frase: “italiani che vanno a consegnare reddito oltreconfine, ai bordelli stranieri”. Ecco, sembra che questo sia uno dei noccioli della questione.

Pierpaolo Vargiu, medico e presidente della commissione Affari sociali alla Camera, è preoccupato degli aspetti sanitari. Oltre alle malattie sessualmente trasmissibili (e qui mi sembra che si cerchi una tutela in primo luogo per i clienti), mi preoccuperei di evitare i danni psichici a chi è vittima di tratta, costretta a prostituirsi. Perché prostituirsi non è un lavoro come un altro.
Maria Spilabotte: è alla prima legislatura, quando le hanno chiesto di cosa le sarebbe piaciuto occuparsi, ha dichiarato il suo obiettivo: regolamentare il fenomeno sociale della prostituzione. Per questo hanno ascoltato i problemi di chi vive in trincea (già qua, è implicito che si tratti di una specie di guerra, con tanto di vittime), rappresentanti di comitati per i diritti delle prostitute, escort ecc. Tutt*? No, solo una parte del mondo della prostituzione, perché si ignora (forse volutamente) che la stragrande maggioranza è vittima di tratta e obbligata a prostituirsi (anche per bisogni economici, per debiti contratti per giungere in Italia o per dipendenze di vario tipo).
A un certo punto sento la solita parola “autodeterminazione” delle donne. Vorrei chiudere lo streaming. Vado coraggiosamente avanti.
Spilabotte dimostra di conoscere il traffico di corpi (sciorina numeri).. Ma vorrei capire come lo si vuole combattere con il suo progetto di legge. Magari più avanti lo capiremo.
Peccato che subito dopo sento: “diritto dei cittadini a non vedere le prostitute sotto casa, nude, a non assistere alle consumazioni di prestazioni”. Ah, non vedere, questo è un altro obiettivo. Mi devono spiegare anche il senso di questa frase: “Non ghettizzarle ma dare la possibilità di svolgere il lavoro in un luogo sicuro”. Chiaramente se fai lo zoning, modello Mestre, le stai confinando in un recinto. Quindi?
È il turno di Efe Bal: chiede che diventi “un lavoro come un altro, diritto alla previdenza sociale e sanitaria.. a ogni diritto corrisponde un dovere, pagare le tasse”. Ma in questo e in altri blog si è più volte cercato di spiegare che non può essere un lavoro come un altro, non è un lavoro. La violenza e la schiavitù non possono esserlo.
Efe si lamenta dei suoi guai con Equitalia per evasione fiscale, per la modica cifra di 700.000 euro. Poi mi viene un dubbio: ma da quando il diritto alla salute è slegato dalla persona? Anche se non hai reddito, sei comunque tutelato in Italia, persino se hai problemi con il permesso di soggiorno puoi accedere ai servizi di pronto soccorso. A nessuno viene negato il diritto alla salute. Per cui qualcosa non mi torna.
Il cardine della proposta bipartisan per superare Merlin è composto da zoning e da locali privati autogestiti da prostitute. Non bordelli, ma coop di donne che eserciterebbero in casa (voglio vedere i vicini). Mi chiedo come fai a capire se c’è sfruttamento o meno.
Spilabotte racconta del suo parroco che l’ha scomunicata per queste sue attività politiche in merito alla prostituzione. Come qualche mia compagna abolizionista ha sottolineato, forse ci dovremmo alleare al Vaticano per essere ascoltate.
Interviene il penalista Alberto Cadoppi, Ordinario di diritto penale Università di Parma. Occasione ghiotta di presentazione della sua ultima fatica, un saggio: Prostituzione e diritto penale. La Merlin è vecchia, ci vuole qualcosa di più attuale. È visibilmente preoccupato che un giorno possano non esserci più prostitute, questa la mia impressione. Emerge più volte la sua avversione ai modelli nordici. Poi la perla: “libertà sessuale dell’individuo” da garantire. Ma libertà per chi? Per il cliente? Perché di libertà per le donne io ne vedo ben poca. Niente dati, solo un invito ad andare verso una regolamentazione della prostituzione. Cos’è, vogliamo garantire che anche il maschio italico possa godere dei servizi di cui usufruiscono i tedeschi?
Interviene Efe Bal e chiede: “Pensate che il disagio sociale si possa risolvere senza il contributo delle prostitute a questa legge?” Ok, forse se coinvolgessimo anche le sopravvissute avremmo un quadro più completo.
Pia Covre “niente su di noi, senza di noi”. In pratica, la legge si fa con i loro suggerimenti. Lo pretende. Poi elogia il sistema scelto dalla Nuova Zelanda. Qui un articolo tradotto da Maria Rossi che fa un po’ di chiarezza: qui.

Poi Covre cita Rosa Luxemburg: “Il primo atto rivoluzionario è chiamare le cose con il loro nome”. Ecco, allora iniziamo a non parlare di sex-work, ma di prostituzione. Le parole sono importanti. Ne avevo parlato qui.
“Siamo vulnerabili perché viviamo nel sommerso, siamo isolate, abbandonate per strada o in appartamento”. Per fortuna ricorda che prostituirsi non è reato. Peccato che si dimentichi dell’esistenza degli sfruttatori. La prostituzione che chiede di tutelare è solo una goccia in un mare fatto in gran parte di sofferenza e di violenza. Mi chiedo perché la causa di tutti i problemi sia il “sommerso”, la violenza e lo sfruttamento sono reali e permane anche se regolamenti, la Germania insegna. E poi lo stigma non lo elimini dandogli l’etichetta di lavoro, quando è palese che non può essere un lavoro come un altro. Covre è preoccupata che in una legge “non leggera” si vada a criminalizzare le prostitute non in regola, straniere senza permesso di soggiorno e che addirittura rischino la galera. Poi si lamenta delle femministe che non vogliono bene alle sex workers. Parla di noi, le terribili bigottone abolizioniste. Sulla necessità dell’educazione nelle scuole ci siamo, poi però parla dei diritti dei diversamente abili ad avere una vita sessuale.. il solito minestrone.
Anche Covre si lamenta dell’ipertassazione italiana. Chiede che vi sia maggior “inserimento e integrazione sociale delle sex workers, agevolandole a entrare in questo mondo del lavoro. Così risolviamo i problemi occupazionali in Italia???
Il 30 aprile annuncia una conferenza a Roma, organizzata con i Radicali alle 15, seguita da un flash mob ai Fori Imperiali.
Un intervento del pubblico, introduce la questione della mancanza di un piano nazionale + fondo antitratta. Non riesco a capire come la regolamentazione, l’emersione possa portare a individuare il fenomeno di sfruttamento e a combattere la tratta. Capite, secondo loro le donne sono nel sommerso e quindi ricattabili e sfruttabili. Se la prostituzione dovesse venir regolamentata le donne potrebbero tutelarsi. In pratica non si considera la coercizione. Cos’è questa favoletta? Sono basita.
Di nuovo il penalista: Islanda, Svezia puniscono i clienti., per lui chiaramente una soluzione da non seguire. Chissà perché hanno scelto questo sistema? Non li si può nemmeno etichettare come popolazioni retrograde, con una mentalità sessuale bigotta. Forse hanno capito che è un buon sistema?
C’è un intervento dal pubblico che descrive il clima idilliaco all’estero, parla visibilmente degli FKK tedeschi: igiene, controlli sanitari, ristorante, piscina, palestra e donne. Almeno questo soggetto demolisce le speranze statali di lucrarci: in Germania le donne che si sono registrate sono solo 44. Il resto tutto sommerso. La tassazione secondo lui non esiste da nessuna parte nel mondo. “Io come cliente mi sento tutelato ad andare con una in Germania che ogni 14 gg fa controlli sanitari”. Peccato che il periodo finestra dell’HIV per esempio, duri circa un mese o poco più a seconda dei test. Da questo si comprende anche l’altra abitudine dei clienti difficile da sradicare: non usano i preservativi. E pensare che Spilabotte vorrebbe renderli obbligatori! Mi chiedo chi andrebbe a controllare.
L’intervento del signore dal pubblico prosegue: “La cosa migliore sono gli annunci su internet, dobbiamo incoraggiare l’apertura di club..” Uno informato e consumatore abituale. Senza pudori e senza vergogna. Quanto meno conosce il mercato.
Persino Efe dice che in Svizzera ogni 2-3 mesi i club chiudono a causa di episodi di sfruttamento. Fine del ragionamento secondo cui l’emersione porterebbe a ridurre lo sfruttamento. Non stava in piedi, ma così è palese. Brava Efe, per aver contribuito a demolire un mito della regolamentazione. Son sollevata quando ammette che anche lei ne vorrebbe uscire e magari fare qualcosa nel mondo dello spettacolo. Visibilmente anche per lei è un peso insostenibile. Lei vorrebbe pagare le tasse (con quei soldi facciamo qualcosa per pensionati, per i bambini, per i cani randagi), ma forse non ci ricordiamo che in Italia c’è una evasione da far girar la testa. Solo le prostitute anelano a pagarle? Bah!
Altro intervento dal pubblico: i club non piacciono a tutti, troppi controlli.. molti vogliono andare a caccia. La escort non è uguale a quella della strada, cambia la tipologia di cliente. Un altro ben informato.
Ritorna Spilabotte: nessuno potrà controllare se il profilattico viene utilizzato, ma si tratta di una questione di principio.. ovvero come lavarsi la coscienza.
Si suggerisce una associazione tra donne di mutuo soccorso in prostituzione. Un appartamento in cui ci sono 4 o 5 donne, che garanzie può dare, contro la violenza?
Consiglio questa lettura sulla “falsa sicurezza indoor”: QUI.

Poi si ammette che eliminare la prostituzione dalle strade è utopico.

Ricapitolando, la tratta non cesserà, per le strade ci saranno ancora le prostitute, introiti di tasse per lo stato non ci saranno, come Germania insegna. Quindi la legge a cosa serve? Serve a garantire ai papponi un salvacondotto? Serve per legalizzare un nuovo business?
Fine delle trasmissioni.
Non credete alla formula magica: “emersione, libera tutt*”, perché è una gran panzana.
Cercasi donne disponibili a lottare non solo perché questo progetto di legge non vada in porto, ma si comprenda che l’unica strada utile l’hanno tracciata paesi come la Svezia. Quanto meno ispiriamoci a modelli che hanno funzionato per coloro che sono sfruttat* in prostituzione. Finché si cercherà di salvaguardare la domanda e i papponi, non ne usciremo. I progetti di reinserimento, di recupero e di aiuto per uscire dalla prostituzione vanno accompagnati da una seria lotta per colpire la domanda. Altrimenti sarà come voler riempire d’acqua un secchiello adoperando il setaccio. Per tutto questo ci vuole solo la volontà politica! E se non c’è, dobbiamo impegnarci a crearla. Anche questo è fare qualcosa per chi è in difficoltà.

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Prostitution is not compatible with humanity

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Desidero iniziare questo post con l’affermazione di Mia de Faoite, una sopravvissuta irlandese alla prostituzione (tra il 2005 e il 2010):

“Prostitution is not compatible with humanity and we choose one or the other.”

Dobbiamo scegliere se tutelare un essere umano o la prostituzione, consapevoli che quest’ultima non è compatibile con l’altra.
Il racconto della sua esperienza (iniziata per procurarsi il denaro per l’eroina) nel mondo della prostituzione è molto crudo, ma è utile a sfatare i miti di una “professione” tutto sommato piacevole. Vi chiedo, chi di voi potrebbe trarre piacere da questo tipo di pratiche violente?
Subire continui stupri, qualcuno che vi urina addosso, che vi inserisce corpi estranei nel corpo.
“Nella prostituzione, la donna cessa di essere percepita come un essere umano agli occhi degli altri, e diventa una mente intrappolata in un corpo che non le appartiene più. Ho usato l’eroina per tenere fuori da me ciò che ero diventata, ma ho assistito al deterioramento di altre donne nel corso degli anni”. Molte perdono la vita, come Jenny, morta di overdose giovanissima.
Ci hanno mai fatto caso le sostenitrici del sex-work? Questo porta alla distruzione di un individuo. Vogliamo veramente questo?
Mia chiede una legislazione che punisca i clienti. Vi traduco un suo discorso in occasione della CAP International conference presso l’Assemblea Nazionale a Parigi in Francia (qui l’originale), in cui racconta la sua esperienza e ci spiega il motivo di questa sua posizione.

In Italia andiamo come al solito contro corrente, dritti dritti verso lo sfruttamento di stato della prostituzione, condito da tante ipocrite e false buone intenzioni. Domani alla Camera (QUI) verrà presentato una sorta di manifesto bipartisan (Pd, 5stelle, Ncd, Forza Italia) a nome di 70 deputati e senatori, per riformare la legge Merlin. Il tutto sostenuto da escort come Efe Bal e da associazioni che combattono tratta e prostituzione sulla strada. Pierpaolo Vargiu e Maria Spilabotte guidano questo gruppo. Dopo il manifesto inizierà la discussione per arrivare a un testo comune, fondato su zoning e sulle “case libere e autonome” gestite da lucciole e sull’iscrizione alle Camere di commercio. In pratica, si ignora totalmente la tratta, la coercizione, la violenza e il fatto che la maggioranza di queste donne non sono libere di scegliere e non hanno alternative. Vi consiglio di leggere l’articolo che ho linkato. Muoviamoci velocemente per impedire questo orrore!

 

Buongiorno, mi chiamo Mia, io penso, dunque, sono, perché non nego dove l’eroina e la prostituzione mi hanno portato, ma mi rifiuto di lasciare che questo mio passato possa definire la persona così come sono oggi, perché se lascio che ciò avvenga, potrebbe coincidere con ciò che sono, ma non è tutto ciò che sono.
L’acquisto di un altro essere umano per farci sesso, non è e non è mai stato l’acquisto di sesso, perché né io, né le altre donne, in strada o nei bordelli, vendiamo semplicemente i nostri genitali, le nostre bocche o gole perfettamente impacchettate, da prendere in prestito e da restituire. No, ho dovuto seguirli, dovevo parlargli in primo luogo, la mia mente era presente tutto il tempo.
Devi sempre comprare la persona prima di avere accesso al suo corpo. Il primo principio di uguaglianza, secondo Simon Haggstrom, uno dei principali sostenitori europei della dignità umana, sostiene che nessun essere umano dovrebbe avere il controllo sul corpo di un altro essere umano, questo è ciò che avviene in prostituzione.
La mia prima esperienza di violenza è stata terribile, uno stupro di gruppo (insieme a un’altra donna, a una festa di Natale, dove circolava droga e sostanze alcoliche, ndr), sembrava non dovesse aver mai fine, e per un certo verso è stato così, perché da quella notte non ho più vissuto, esistevo in un mondo che non riuscivo più a comprendere, che non aveva più alcun senso.
Ho lasciato l’edificio con il corpo e il viso feriti, puzzavo di urina e sanguinavo dal retto. Ora puoi comprendere perché non vedevo altra possibilità di scelta e l’unica soluzione era realizzare una sorta di dissociazione; la giovane donna che era con me quella notte è morta di overdose due mesi dopo. Per molti la sua morte sarà solo una delle tante che rientrano in queste tristi statistiche, ma per me la sua vita ha sempre avuto un valore. Gli eventi di quella notte mi hanno esposta a un livello tale di crudeltà umana, ma a parte la mia resistenza, mi permisero di comprendere quanta sanità mentale fosse scomparsa in quella ventisettenne, e c’è un bambino che crescerà senza mai sapere con quanta forza sua madre stesse lottando per uscire da quella vita, e non potrà mai sapere quanto meravigliosa fosse sua madre, tutto questo gli è stato sottratto (come a tanti altri bambini) a causa della prostituzione.
Il mio stupro successivo avvenne un anno dopo, da parte di un delinquente solitario, sulla strada in cui mi trovavo, il terzo stupro non so se definirlo tale, accadde la stessa notte del secondo, mentre ero seduta per terra dopo l’attacco, i miei soldi e il mio cellulare erano stati rubati, ero sola e disorientata, con un corpo dolorante e una mente in difficoltà, quando un cliente regolare si fermò e si offrì di accompagnarmi a casa. Gli raccontai cosa fosse successo poco prima, mi offrì un caffè, ma poco prima di arrivare a casa mia, mi ha ricordato che non avevo i soldi per pagarlo, ma che avrebbe potuto risolvere, non ho avuto il tempo di rispondere che mi sono sdraiata e l’ho lasciato fare, cosa pensate che sia fare una cosa del genere a una donna che è appena stata stuprata?
L’ultimo stupro avvenne da parte di due ragazzi fatti di cocaina, uno faceva il palo, mentre l’altro mi stuprava, ma per me chi faceva il palo era altrettanto colpevole. Posso raccontare innumerevoli storie di umiliazioni, di persone che ti urinano addosso ecc. di stupri orali, infatti io non ho più il riflesso del vomito, i muscoli nella parte posteriore della gola hanno imparato a rilassarsi, hanno dovuto imparare.
Stiamo considerando il peggio del peggio, quello che cerco di dirvi è che se si pongono le basi per uno stupro, questo accadrà, come dire io e la mia amica da sole in un appartamento con otto uomini, noi come prostitute siamo un obiettivo primario per un acquirente che vuole compiere un reato sessuale come lo stupro, solo con noi può farlo e restare impunito, la legge e la società svolgono un ruolo importante per permettere che le cose vadano in questo modo, rimarrà impunibile, come rimane legale acquistare un essere umano. L’eroina, che era stato il motivo per cui avevo iniziato, era diventata l’unico modo per sopportare di essere acquistata, strano paradosso, a cui poche di noi riescono a sfuggire, io sono una di loro.

Noi esistiamo là fuori, sotto la costante minaccia della violenza, una nuvola nera di paura aleggia intorno a noi in modo permanente, è una paura come la descriverebbe Aristotele, in cui la paura è il dolore che senti come anticipazione di un male in arrivo, e in prostituzione il male arriva molto di frequente, ma la cosa peggiore di questo tipo di paura è che si tratta di una condizione fissa.

Mia de Faoite, a survivor of prostitution_ Photograph Lisa Cawley

Mia de Faoite, a survivor of prostitution_ Photograph Lisa Cawley

La prostituzione e la tratta sono intrinsecamente legate, l’una esiste perché esiste l’altra. Negli ultimi 18 mesi che ho passato sulla strada, ero insieme a una vittima di tratta, lei divenne la mia amica più cara, non ho mai visto un essere umano così malridotto. Le condizioni in cui era costretta a vivere erano enormemente disumane e lei aveva sviluppato una sorta di senso contorto di fedeltà al suo sfruttatore, che l’aveva rapita da casa, portata in Europa e infine in Irlanda, in questa fase era stata completamente distrutta, il controllo del suo sfruttatore era tutto ciò che conosceva, l’avrebbe picchiata se si fosse ribellata, le aveva sottratto il passaporto, la faceva lavorare dalle 6 di pomeriggio fino alle 5 della mattina successiva, era tossicodipendente di crack, fornita dal pappone, che doveva ripagare con 100 euro, lei non ci guadagnava niente. Anche se eravamo giunte allo stesso punto da strade diverse, eravamo unite perché entrambe venivamo comprate, usate, sfruttate, umiliate e stuprate dagli stessi clienti, una notte un cliente poteva comprare me e qualche notte dopo lei, e un paio di volte venimmo acquistate insieme, e quel legame non può essere rotto da nessuno, mai e in nessun luogo.
Spesso mi capita di pensare che per quanto dissociata sia stata la mia esistenza, almeno potevo tornare a casa la sera, penso che sia ancor più complicato se vivi in un Paese in cui non conosci nessuno, e dove tutti parlano una lingua diversa dalla tua.
Concludo la storia della mia amica originaria dell’Africa, che era con me sulla strada, una delle cose più tristi a cui abbia assistito e che chiarisce bene la prospettiva. Ero a casa da sola, mia figlia era malata e aveva bisogno di cure, mi squillò il telefono, c’era stato un diverbio tra lei, il suo pappone e un’altra ragazza. Le dissi di raggiungermi a casa perché ero da sola; ho sempre tenuto separate la mia vita a casa e quella per strada.
È arrivata, non riusciva a smettere di piangere, non l’avevo mai vista così sconvolta; l’ho abbracciata e ho controllato le sue ferite, aveva sangue sulle mani, ma per fortuna erano ferite superficiali. Non era importante il motivo della lite, se per il controllo, la droga o altro. Le feci il caffè e ci mettemmo a fumare. Le ho detto che le avrei preparato un bagno visto che sembrava esausta. L’ho lasciata in bagno e sono andata nell’altra stanza. Mi ha chiamata e quando sono entrata sono rimasta sconvolta dentro, davanti a me c’era la mia amica, ma aveva il corpo di un bambino, il suo ventre sporgeva, non aveva seno, il suo corpo era coperto da vecchi e nuovi lividi, graffi, sembrava appena uscita da un campo di concentramento. Non volevo che mi vedesse piangere. Sono tornata in bagno nuovamente per lavarle i capelli perché aveva le braccia doloranti. L’ho aiutata ad asciugarsi i capelli e canticchiava come una bambina. L’ho messa a letto e ho aspettato che si addormentasse. Poi ho pianto per quella bambina perduta che avevo appena messo a letto, non dimenticherò mai quell’immagine che ho visto quella sera, non eravamo in un campo di concentramento, in Polonia nel 1945, eravamo nel mio appartamento, a Dublino, nel 2010, non c’era una guerra in corso, ma non c’era una legge che ci proteggesse.
Si proteggono i cittadini per bene, io penso che per molte persone quelli che comprano altri esseri umani per sesso sono dei buoni cittadini, in quanto hanno un lavoro retribuito, pagano le tasse, l’affitto o acquistano casa con le loro compagne, hanno da due a quattro figli, rientrano in ciò che la società ritiene corretto, perciò gli si concede questa piccola indulgenza, così lo permettiamo e lasciamo che sia legale. Per tutti gli uomini che hanno comprato me o le altre donne, gli uomini che alimentano questa industria perversa, camminano in mezzo a voi tutti i giorni, sono padri, sono mariti, colleghi ecc. non vogliamo riconoscere che il cittadino per bene può comportarsi come un cattivo essere umano, capisco la paura, non sopportiamo l’idea di rompere le uova nel paniere della società ma a chi ne paga le spese lo facciamo!
Una come me d’altra parte viene considerata una cattiva cittadina, non ho un lavoro, sono stata assistita dallo stato, ero una eroinomane e peggio ancora, mi mettevo per strada ad adescare quegli onesti uomini, come se non avessero altra scelta. Ma io sono un buon essere umano, lo sono sempre stata. Questo è l’equilibrio che devi trovare tra il cittadino per bene e una brava persona e chi di noi viene prima per quanto concerne il bisogno di protezione.
Come possiamo sperare che ciò accada? Seguiamo il modello svedese, la Svezia pone al primo posto la dignità umana. Hanno compreso pienamente cosa sia il concetto di dignità umana, che è il rispetto e il valore che ci diamo l’un l’altro come esseri umani. Cosa succede quando mettiamo al primo posto la dignità umana, come la Svezia ha dimostrato senza ombra di dubbio è che il bene vince, mentre i Paesi che hanno messo all’ultimo posto la dignità umana, il male prospera, come è evidente laddove si è scelto di depenalizzare e legalizzare la prostituzione. Il male è sia la tratta di esseri umani che il destino a cui donne e bambini inermi sono destinati, ovvero la prostituzione. Si aggiungono alle tossicodipendenti, alle emarginate e alle donne rovinate come me, intrappolata ma in modo diverso, al servizio dei bisogni di un determinato gruppo di uomini.
Credo che i peggiori mali del mondo non abbiano un responsabile, e inoltre credo che sia giunto il momento che si evidenzi che tutto questo male esiste a causa di questi signor nessuno che si sono resi responsabili di aver sostenuto questa crudele industria e questa tratta di schiave. Non desidero altro che con una legislazione apposita venga dato il potere ai poliziotti che invano hanno cercato di proteggermi, di sanzionare i trasgressori, di comminare il carcere per i papponi e chi induce alla prostituzione, inviando un chiaro messaggio a chi traffica in esseri umani: che le donne non sono più in vendita, perché non esiste alcuna legge migliore per contrastare la tratta del considerare schiavismo l’uso di un altro essere umano.
Questa legge riguarda la protezione degli esseri umani più vulnerabili, molti dei quali quando vengono salvati, si scopre che hanno dei codici a barre tatuati sui loro corpi, a ricordare il debito contratto, non credo che la memoria dell’Europa sia così corta. Questa legge riguarda la tutela della dignità e della libertà, e quando la dignità umana è in pericolo e delle vite umane sono in pericolo, le differenze politiche e di sensibilità diventano irrilevanti.
L’unica cosa certa è che sei anni di conoscenza personale antropologica di cosa vuol dire sfruttamento sessuale, mi hanno portato a pensare che la prostituzione non è compatibile con l’umanità e dobbiamo scegliere una delle due.

 

Prossimamente pubblicherò un’altra traduzione di uno scritto di Mia sulla tratta.

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Dove ci siamo rintanate?

le donne in lotta

 

Questo post nasce dall’esigenza di porre qualche domanda. Tutto nasce dall’ennesima manifestazione dei movimenti No-Choice a Milano, dal titolo “NO194 per l’abrogazione referendaria della legge 194” (qui). Per l’ennesima volta, in occasione di questo corteo che sfilerà per la città, si sono organizzati I sentinelli per una contro-manifestazione. Io li ringrazio per il loro sostegno alla causa in difesa della 194, ma questa è anche l’occasione per fare qualche riflessione. Non che manchino le mobilitazioni e i progetti di donne per le donne, penso ad esempio a Consultoria Autogestita, ma manca un respiro più ampio, che sappia abbracciare un gran numero di persone, che sappia fare informazione, approfondimento, insomma diffusione di consapevolezza tra le donne. Non mi aspetto i grandi numeri, ma almeno che si incominci a recuperare una progettualità comune, a piccoli passi, tornando a rioccuparci delle nostre questioni, in modo più assiduo e meno frammentario.
Mi chiedo, a quando una mobilitazione delle donne sui diritti delle donne? Io questa mancanza la sento. Non so voi, ma mi sento orfana. Orfana perché non c’è una rete di riferimento tra donne, ognuna sembra rintanata nella propria dimensione personale, reale o virtuale, estesa al massimo alla cerchia delle proprie amicizie. Orfana perché ultimamente ho chiesto a una politica del mio partito, che siede in direzione nazionale, di organizzare iniziative sistematiche e periodiche sulla 194 e sul macigno dei numeri dell’obiezione di coscienza. Risposta: “le abbiamo fatte”, ma tutto sommato non servono, quindi sembrerebbe un approccio da abbandonare. Quindi il silenzio è la soluzione?! Ricordo che la 194 è stata sostenuta anche da una base esterna, donne che hanno appoggiato la legge, che si sono fatte sentire. Forse non è più tempo di mobilitazioni? Dobbiamo seguire un iter istituzionale e sperare che questo vada a buon fine? Non sarebbe il caso di farci sentire comunque, a cadenze periodiche, e magari attivarci perché quella volontà politica che al momento manca (così si dice, ho l’impressione che a volte sia un alibi) si crei? Personalmente non ci sto ad assumere una posizione rinunciataria. Le cose si cambiano insieme, se vogliamo investire in sinergie positive e fruttuose. Altrimenti sono solo chiacchiere. Io e altre ci siamo e siamo a disposizione. I No-choice scelgono di organizzarsi e noi ci frammentiamo e ci disperdiamo? Siamo così certe che la nostra società attuale abbia anticorpi a sufficienza per bocciare la loro campagna referendaria abrogativa della 194? Oppure possiamo e dobbiamo sensibilizzare le donne che poco sanno fino a che non vivono sulla propria pelle i risultati di anni di disinvestimento nei consultori pubblici e laici, di obiezioni di struttura e di strane linee guida divergenti (vedi l’obbligo di prescrizione per la pillola del giorno dopo e non per quella dei 5 giorni dopo)? Dobbiamo tornare a curare l’aspetto comunitario, superare le grida e gli slogan, superare i messaggi e gli annunci da campagna elettorale perenne, dobbiamo tornare ad occuparci della sostanza, della riflessione, che non può essere ridotta alla mera piazza virtuale. Il Web serve a collegare velocemente le persone, ma per affrontare la complessità occorre qualcos’altro. Dobbiamo tornare a guardarci in faccia, riunirci periodicamente e invitare tutte a sentirsi parte del progetto. Non è stato fatto tutto e anche se così fosse, oggi potremmo perderlo di nuovo, anzi qualche diritto è già incrinato. Dobbiamo tornare ad essere “scomode”, come ho più volte detto. Scomode significa porre domande nuove, complesse, critiche, restare lì senza mollare, pretendere risposte serie e non pannicelli caldi. Significa essere intrecciate tra di noi, sì donne originali, ognuna con la propria personalità e individualità, ma capaci di un discorso unitario che amplifichi le istanze di ognuna, e renda significativa la nostra voce. Non significa ammazzare la molteplicità dei femminismi di oggi, semplicemente occorre recuperare una capacità di incidere sulla politica, facendo politica, occupando gli spazi pubblici o privati, riempendoli della nostra prospettiva, altrimenti quello spazio sarà vuoto o mancherà del nostro sguardo sulle cose e sui temi che più ci coinvolgono. Manca una voce ferma e presente, capace di mobilitarsi costantemente e che non venga ingurgitata da un certo modo di far politica per annunci e offerte imbellettate. Perché non costruire proposte strutturate per una società e un’economia a misura anche di donne? Non ci ascolta nessuno perché siamo disperse. Non ci siamo. Non siamo riconoscibili come interlocutrici, non siamo in grado di incidere sulla politica istituzionale perché per prima cosa rifuggiamo dal tessere un dialogo costruttivo tra di noi. Piuttosto alcune di noi preferiscono abbracciare una collaborazione con gli uomini, a volte altamente pericolosa e difficile da gestire senza ricadere in pratiche vecchie di secoli. Di cosa abbiamo timore, di non farcela, che il lavoro tra donne sia inutile e improduttivo? Abbiamo paura di sembrare fuori dal mondo, quel mondo dipinto a immagine e somiglianza maschile? La soluzione non è partecipare ai tavoli intellettualoidi politici, entrare nelle maglie della politica istituzionale appuntandosi sulla giacca l’etichetta femminismo, questo è veramente un gioco sporco se lo si fa per puro opportunismo e si è disposti a dimenticarsene una volta raggiunto l’obiettivo personale. Questo non è femminismo, è semplicemente strumentalizzare una galassia di movimenti a fini personali. Cerchiamo di non cadere nella trappola.

Ultimamente ho la sensazione che anche l’attivismo sia diventato un prodotto commerciale come un altro. L’esserci come campagna pubblicitaria del sé, per cui è importante apparire, comparire con il proprio volto, con il proprio nome ecc. L’attivismo per gonfiare il proprio ego e giustificare il proprio vuoto di idee. L’attivismo e la partecipazione personale come etichette di un grande mercato in cui anche gli ideali sono merce, business, ingurgitati da una macchina propagandistica e autoreferenziale. L’esserci non per convinzione e impegno personali per una causa, ma finalizzato a una affermazione del sé e come garanzia di un trampolino, perché no, anche professionale. Vi risulta? Tutto fa brodo, e il femminismo non è immune da questi personaggi. Purtroppo.

Abbiamo un futuro solo se comprendiamo la necessità di tornare a noi come comunità, perché come singole rischiamo di essere assorbite da fenomeni molto pericolosi. Non dobbiamo permettere che altri parlino per noi.

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42.000

lavoro

 

Un numero non piccino, uno di quelli che dovrebbero far tremare il terreno della politica. Scorgete qualche movimento tellurico? Sono le donne perse in un mese secondo l’ISTAT (QUI). Questo il dato di febbraio della perdita di occupazione. Altro che gli obiettivi di Europa 2020: “la strategia Europa 2020 per fare dell’Europa una economia intelligente, sostenibile e inclusiva comporta obiettivi ambiziosi, quali il tasso di occupazione del 75% e la riduzione di almeno 20 milioni del numero di persone colpite o a rischio di povertà e di esclusione sociale entro il 2020, che possono essere raggiunti solo se gli Stati membri attuano politiche innovative per una vera parità tra donne e uomini”.
In UE “il tasso di occupazione femminile è pari al 63%; che la differenza di retribuzione tra uomini e donne è del 16,4%; che il 73% dei deputati nazionali è rappresentato da uomini e che le donne rappresentano il 17,8% dei consigli d’amministrazione delle grandi aziende e trascorrono tre volte tanto di tempo alla settimana a occuparsi dei lavori domestici rispetto agli uomini (per esempio assistenza all’infanzia, agli anziani e ai disabili e lavori domestici);” In Italia dal 2007 oscilliamo tra il 46 e il 47% (tasso occupazione femminile). Siamo davanti solo a Grecia e Malta. Tanto per capire di cosa stiamo parlando.
Vi inserisco altri pezzi della Risoluzione Tarabella (qui) su questo tema, è un po’ lungo ma secondo me serve leggerli:

Parità tra donne e uomini nel quadro della strategia Europa 2020
1. invita le istituzioni dell’UE e gli Stati membri a tenere conto delle questioni di genere, dei diritti delle donne e delle pari opportunità nell’elaborazione delle loro politiche, nelle loro procedure di bilancio e nell’applicazione dei programmi e delle azioni dell’UE, in particolare mediante misure d’azione positiva, specialmente collegate a pacchetti di stimolo, procedendo sistematicamente a valutazioni di impatto secondo il genere caso per caso;
2. denuncia che gli obiettivi della strategia per la parità tra donne e uomini 2010-2015 (COM(2010)0491) presto falliranno, soprattutto per quanto riguarda l’indipendenza economica, tra le altre ragioni a causa del ritiro della proposta di direttiva sul congedo di maternità; sottolinea che nel contempo le differenze economiche tra uomini e donne sono in progressivo aumento;
3. invita il Consiglio, la Commissione e gli Stati membri a integrare la dimensione di genere nella strategia Europa 2020 per misurare i progressi nella riduzione del divario occupazionale di genere e affinché le misure strategiche dell’analisi annuale della crescita si traducano in raccomandazioni specifiche per paese;
4. invita la Commissione e gli Stati membri a elaborare un piano generale di investimenti nelle infrastrutture sociali, dal momento che si stima che, con un piano di investimenti attento agli aspetti di genere, il prodotto interno lordo europeo (PIL) aumenterebbe gradualmente, fino a raggiungere entro il 2018 il 2,4% in più, il che non si verificherebbe senza il piano di investimenti;
5. rileva che la partecipazione paritaria di donne e uomini al mercato del lavoro può accrescere significativamente il potenziale economico dell’Unione, garantendo al contempo la sua natura equa e inclusiva; ricorda che, secondo le proiezioni dell’Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo (OCSE), la totale convergenza dei tassi di partecipazione può tradursi in un aumento del 12,4% del PIL pro capite entro il 2030;
6. sottolinea l’urgenza di lottare contro la povertà femminile, in particolare la povertà delle donne, delle donne anziane e delle madri single ma anche delle donne vittime della violenza di genere, delle donne disabili, delle donne migranti e delle donne appartenenti a minoranze; chiede pertanto agli Stati membri di attuare strategie di inclusione più efficaci e di utilizzare in modo più efficiente le risorse destinate alle politiche sociali, tra cui il Fondo sociale europeo e i Fondi strutturali;
7. ritiene deplorevole che l’efficacia delle politiche sociali volta a ridurre la povertà sia scesa di quasi il 50% nel 2012 rispetto al 2005 nei nuclei familiari con un solo adulto, che comprendono la maggior parte delle vedove e delle madri sole; è anche preoccupato per il fatto che l’efficacia delle politiche sociali applicate in alcuni Stati membri rappresenti soltanto un terzo della media europea; invita pertanto gli Stati membri a rafforzare le politiche sociali che riguardano in particolare i disoccupati, in modo da far fronte al crescente aumento della povertà, soprattutto tra le donne;
8. invita il Consiglio e la Commissione ad affrontare la dimensione di genere della povertà e dell’esclusione sociale; ritiene deplorevole che le raccomandazioni specifiche per paese (RSP) adottate finora nel quadro dei cicli annuali del semestre europeo non siano state allineate in modo sufficiente agli obiettivi occupazionali e sociali della strategia Europa 2020; chiede che le RSP affrontino sistemicamente le cause strutturali della povertà femminile;
9. invita la Commissione e gli Stati membri a tener conto dell’evoluzione delle strutture familiari al momento di elaborare le loro politiche di imposizione e di indennizzazione, in particolare sostenendo finanziariamente le famiglie monoparentali e le persone anziane attraverso crediti di imposta o aiuti in materia di assistenza sanitaria;
10. invita gli Stati membri e la Commissione a garantire che si tenga conto della parità tra uomini e donne e dell’integrazione della prospettiva di genere nei finanziamenti nell’ambito della politica di coesione e che queste siano promosse durante tutta la preparazione e i relativi programmi, anche in relazione al monitoraggio, alla rendicontazione e alla valutazione;
11. si rammarica che la relazione annuale non sia ormai più che un documento di lavoro allegato alla relazione sull’attuazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e sollecita la Commissione a rendere a tale relazione tutta la sua legittimità politica favorendone una adozione ufficiale e distinta;
Parità tra donne e uomini in materia di occupazione e presa di decisioni
12. insiste sull’impellente necessità di ridurre i divari retributivi e pensionistici tra donne e uomini anche tenendo presente la persistente concentrazione di donne in occupazioni a tempo parziale, scarsamente retribuite e precarie e garantendo strutture di qualità sufficiente per i figli e per le altre persone dipendenti; deplora con la massima durezza il fatto che oltre un terzo delle donne anziane che vivono nell’UE non riceve alcun tipo di pensione; esorta gli Stati membri ad assicurare la piena attuazione dei diritti previsti nella direttiva 2006/54/CE, in particolare il principio della parità di retribuzione e della trasparenza retributiva e di rivedere le loro legislazioni nazionali sulla parità di trattamento al fine di semplificarle e di aggiornarle; invita la Commissione a continuare a valutare regolarmente il recepimento delle direttive relative alla parità fra donne e uomini e la invita a proporre una rifusione della direttiva 2006/54/CE quanto prima conformemente all’articolo 32 della stessa e in base all’articolo 157 TFUE seguendo el raccomandazioni dettagliate stabilite nell’allegato della risoluzione del Parlamento del 24 maggio 2012;
13. deplora con la massima durezza il fatto che le donne non ricevano la stessa retribuzione nei casi in cui svolgono le stesse funzioni degli uomini o funzioni di pari valore e condanna altresì la segregazione orizzontale e verticale; evidenzia inoltre che la stragrande maggioranza dei salari bassi e praticamente la totalità dei salari molto bassi sono attribuibili al tempo parziale e ricorda che circa l’80% dei lavoratori poveri sono donne; segnala che, secondo le conclusioni della Valutazione del valore aggiunto europeo, un punto percentuale di diminuzione del divario retributivo di genere aumenterà la crescita economica dello 0,1%, il che significa che l’eliminazione di tale divario riveste un’importanza cruciale nel contesto dell’attuale crisi economica; invita pertanto gli Stati membri, i datori di lavoro e i sindacati a redigere e applicare strumenti di valutazione occupazionale specifici e pratici per aiutare a determinare il lavoro di pari valore e quindi assicurare la parità retributiva tra donne e uomini;
14. invita la Commissione e gli Stati membri ad attuare politiche proattive a favore dell’occupazione femminile di qualità per raggiungere gli obiettivi Europa 2020, lottando contro gli stereotipi, la segregazione professionale verticale e orizzontale, favorendo la transizione tra tempo parziale e tempo pieno e mirando in particolare la categoria dei giovani che non studiano, non lavorano né seguono una formazione (NEET); invita gli Stati membri a stabilire obiettivi specifici riguardo all’occupazione nel quadro dei relativi programmi di riforma nazionale, al fine di assicurare la parità di accesso di uomini e donne al mercato del lavoro e la loro permanenza in esso;
15. invita la Commissione e gli Stati membri ad attuare politiche proattive per incoraggiare le donne ad abbracciare carriere scientifiche nonché a promuovere, in particolare mediante campagne d’informazione di sensibilizzazione, l’entrata delle donne in settori tradizionalmente considerati «maschili», soprattutto quello delle scienze e delle nuove tecnologie, al fine di sfruttare appieno il capitale umano rappresentato dalle donne europee; insiste in particolare sulle nuove possibilità offerte dalla tecnologia dell’informazione e delle telecomunicazioni (TIC) e invita la Commissione a integrare pienamente la dimensione di genere nella priorità conferita all’agenda digitale nei prossimi cinque anni;
16. sottolinea che l’indipendenza finanziaria costituisce un mezzo chiave per garantire la parità e che l’imprenditorialità tra le donne costituisce un potenziale sottostimato e sottosfruttato di crescita e di competitività nell’UE; invita pertanto l’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (EIGE) a raccogliere maggiori e migliori informazioni sull’imprenditorialità tra le donne; invita gli Stati membri, la Commissione, e altri organi pertinenti, quali le camere di commercio, e l’industria a incoraggiare, promuovere, e sostenere l’imprenditorialità tra le donne facilitando l’accesso al credito, riducendo la burocrazia e altri ostacoli alla creazione di imprese da parte di donne, integrando la prospettiva di genere nelle politiche pertinenti, promuovendo la creazione di una piattaforma elettronica d’informazione e scambio, unica e multilingue, per le imprenditrici sociali, e sostenendo le reti regionali e europee sia di mentori sia tra pari;
17. è convinto che, per favorire il reinserimento delle donne nel mondo del lavoro siano necessarie politiche multidimensionali (che includano la formazione professionale e l’apprendimento permanente, la promozione di un’occupazione più stabile e modelli lavorativi personalizzati) e richiama l’attenzione sulla diffusione del concetto di orari lavorativi flessibili; osserva che l’esigenza di flessibilità interessa in misura maggiore i lavoratori a tempo parziale, per la maggior parte donne; sostiene pertanto che la contrattazione collettiva è un diritto che deve essere tutelato dato che contribuisce a lottare contro la discriminazione e a tutelare e a rafforzare i diritti;
18. sottolinea il fatto che una maggiore flessibilità nell’organizzazione del lavoro può aumentare le opportunità per le donne di partecipare attivamente al mercato del lavoro ma segnala, al contempo, che questa flessibilità può avere un impatto negativo sullo retribuzioni e sulle pensioni femminili; sottolinea pertanto la necessità di proposte specifiche per conciliare lavoro e vita privata e incoraggia gli uomini e le donne a condividere le responsabilità professionali, familiari e sociali in modo più equilibrato, in particolare per quanto riguarda l’assistenza alle persone dipendenti e l’assistenza ai bambini;
19. invita gli Stati membri a includere, nel quadro dei programmi di sviluppo rurale, delle strategie volte a promuovere la creazione di posti di lavoro per le donne nelle zone rurali che garantiscano loro pensioni dignitose, politiche volte a favorire la rappresentanza delle donne nei forum politici, economici e sociali di tale settore e la promozione delle opportunità nelle zone rurali in rapporto alla multifunzionalità dell’agricoltura;
20. sottolinea il crescente consenso all’interno dell’UE per quanto riguarda la necessità di promuovere l’uguaglianza di genere attraverso, tra l’altro, la presenza delle donne nel processo decisionale economico e politico – una questione di diritti fondamentali e di democrazia – dato che attualmente ciò rispecchia un deficit democratico; accoglie pertanto con favore i sistemi di parità stabiliti per legge e le quote di genere introdotte in alcuni Stati membri e chiede al Consiglio di prendere posizione in merito alla direttiva su un miglioramento dell’equilibrio di genere fra gli amministratori senza incarichi esecutivi delle società quotate in Borsa onde proseguire al più presto il processo legislativo; invita il Consiglio e la Commissione ad adottare le misure necessarie a incoraggiare gli Stati membri a far sì che consentano gli uomini e le donne partecipino a parità di condizioni nei diversi ambiti del processo decisionale; invita anche le istituzioni dell’UE a fare quanto in loro potere per garantire la parità di genere nel Collegio dei commissari e tra le alte cariche di tutte le istituzioni, agenzie, istituti e organi dell’UE;
21. invita la Commissione europea e gli Stati membri a esaminare la possibilità di includere delle clausole di genere nei bandi di gara per appalti pubblici al fine di incoraggiare le imprese a perseguire la parità tra i sessi al loro interno; riconosce che tale idea può essere sviluppata soltanto nel quadro del rispetto del diritto dell’UE in materia di concorrenza;
Conciliazione della vita professionale e privata
22. si congratula con la Svezia, il Belgio, la Francia, la Slovenia, la Danimarca e il Regno Unito che hanno raggiunto gli obiettivi di Barcellona e invita gli Stati membri a proseguire i loro sforzi; chiede agli Stati membri di andare al di là degli obiettivi di Barcellona adottando un approccio più sistemico ed integrato in materia di istruzione e di servizi di assistenza prescolare tra le autorità nazionali e locali, in particolare per i bambini molto piccoli di età inferiore ai tre anni; invita la Commissione a continuare a fornire un sostegno finanziario agli Stati membri per offrire sistemi di assistenza all’infanzia, in particolare asili nido, a prezzi accessibili per i genitori anche attraverso la creazione di queste strutture sul luogo di lavoro; è convinto che i progetti familiari, la vita privata e le ambizioni professionali possono essere integrati in modo armonioso solo nel caso in cui, sul piano socio-economico, le persone interessate siano realmente libere di scegliere e godano del sostegno fornito dall’adozione di decisioni politiche ed economiche a livello UE e nazionale, senza che ne derivi uno svantaggio e sempreché siano disponibili le infrastrutture indispensabili; invita gli Stati membri a aumentare le dotazioni di bilancio assegnate all’infanzia, soprattutto mediante il rafforzamento delle reti pubbliche di scuole materne, asili nido e servizi che offrano attività ricreative per i bambini; invita la Commissione a far fronte alla mancanza di strutture di accoglienza per l’infanzia economicamente accessibili nelle RSP;
23. deplora con la massima durezza il fatto che, nonostante il livello di finanziamenti UE disponibili (sono stati destinati 3,2 miliardi di euro dei Fondi strutturali per il periodo 2007-2013 per assistere gli Stati membri nello sviluppo di strutture di assistenza all’infanzia e nella promozione dell’occupazione femminile), alcuni Stati membri hanno realizzato tagli di bilancio che stanno interessando la disponibilità (per esempio, a causa della chiusura di asili nido), la qualità (a causa della mancanza di personale) e il rincaro dei servizi di assistenza all’infanzia;
24. invita la Commissione europea e gli Stati membri ad istituire un congedo di paternità retribuito per un minimo di 10 giorni lavorativi e a promuovere misure, legislative e non legislative, che consentano agli uomini e in particolare ai padri, di esercitare il loro diritto di conciliare vita privata e professionale, tra l’altro promuovendo il congedo parentale, che verrà preso indifferentemente, ma senza poter essere trasferito, dal padre o dalla madre fino a quando il loro bambino raggiunga una certa età;
25. deplora il blocco del Consiglio relativamente alla direttiva sul congedo di maternità ed esorta gli Stati membri a rilanciare i negoziati in materia e ribadisce la sua volontà di cooperare;
26. invita gli Stati membri a istituire servizi di assistenza a prezzi accessibili, flessibili, di qualità e di facile accesso a persone che non sono in grado da sole di realizzare attività della vita quotidiana per il fatto che non dispongono di autonomia funzionale sufficiente per poter conciliare vita privata, famiglia e lavoro”.

 

Ieri ho commentato un post su FB di Marina Terragni sulla proposta di legge di Civati per ridurre il gap salariale tra uomini e donne:

“Cara Marina, facciamo emergere l’iceberg, parliamo di gap salariale, parliamo di dimissioni in bianco e di tutte quelle ragioni che tengono lontane le donne dal mondo del lavoro o le allontanano. Marina ben venga certo (la proposta di Civati, ndr), ma resto dell’idea che occorrerebbe comprendere a fondo i contorni e le caratteristiche del problema, e procedere con una riforma organica. Se vuoi dei risultati che non lascino indietro nessuna. Non deve più accadere che venga detto “arrangiati”. Sappiamo per certo che stiamo perdendo in tutele importanti. Non accontentiamoci delle briciole, altrimenti nulla cambierà. Pensiamo a chi non ha potere per difendersi”.

La risposta è stata:

“intanto prendiamo questa proposta. Ascolta, Simona Sforza: questa è una proposta. Poi c’è tutto il resto. Non si può ogni volta ricordare che c’è ben altro. C’è questo, e c’è altro. Una cosa per volta. Ti annuncio, per esempio, che è in arrivo una proposta sull’obiezione di coscienza.”

Mi sembra il gran minestrone delle riforme. Stiamo sbagliando approccio, a mio avviso, soprattutto se non si ascoltano le storie e la realtà di tante donne e si va avanti con i paraocchi. Abbiamo usufruito dei Fondi strutturali di cui si parla e se sì, come li abbiamo utilizzati? Li ascoltiamo i richiami dell’UE? Basterebbe seguire una manciata dei suggerimenti UE per dare segnali concreti. Non siamo collezionisti di proposte, vogliamo che qualcuno si preoccupi in modo serio dei problemi che affliggono le donne, che come quello del lavoro, spesso azzoppano l’intero sistema sociale ed economico. Cavolo, ma vogliamo usare la testa, mettere ordine al caos attuale, programmare in maniera seria gli interventi legislativi, oppure ci vogliamo crogiolare con l’illusione che basta annunciare, presentare progetti, a singhiozzo, senza organicità e sistematicità? Ditemi come si può affrontare in questo modo un problema con questi numeri e con le persone che subiscono questi veri e propri drammi? E non venite a dirmi che critico e basta. Sono civatiana e mi permetto di segnalare quando le cose non vanno o non vanno come mi sarei aspettata. Ci sono troppi se, troppi ma, troppi vedremo, insomma un mucchio di incognite che pesano sulle vite di troppe persone. E non è nemmeno scontato, come si dice, che le donne vengano ingurgitate nel part-time involontario. Perché per molte di noi, al rientro dalla maternità non c’è nemmeno quella prospettiva, c’è solo demansionamento, mobbing, pressioni psicologiche, peggioramento delle condizioni lavorative, zero conciliazione, zero telelavoro, zero periodo di aspettativa: ti restano solo le dimissioni, (in)volontarie quelle sì, almeno sulla carta. E cari miei ci sono anche tutti i problemi di assistenza dei genitori anziani, oltre che dei figli. Come ci rispondete? Soprattutto in un mercato del lavoro in cui hanno sempre più peso i contratti decentrati a livello di impresa e i CCNL sono un mero ricordo di un passato glorioso in cui i diritti c’erano ed erano uguali per tutti. Ci vuole trasparenza nei contratti, per le retribuzioni, e chi garantirebbe, chi vigilerebbe? In alcuni comparti abbiamo rinunciato anche ai sindacati. Affidarci alle figure delle Consigliere di Parità Regionali per essere tutelate? Quante ne sono al corrente e poi cosa accade durante e soprattutto dopo il giudizio? Quante donne si possono ragionevolmente permettere una lunga lotta per i propri diritti? Finché il peso sarà sulle spalle delle donne e non si vorrà intervenire a monte del problema, avremo perso molte occasioni per consentire un ingresso e una permanenza delle donne nel mondo del lavoro. Non solo incentivi fiscali temporanei alle assunzioni che ti lasciano a terra quando finiscono. Gli strumenti di flessibilità (per uomini e per donne) devono essere la regola, perché se si lascia il datore di lavoro libero di scegliere se concedere questo lusso, molte di noi non avranno mai questa possibilità. Gli strumenti di conciliazione sono necessari, perché non è pensabile che strutture come nidi, asili e scuole a tempo pieno possano essere la soluzione. Io non voglio assistenza, voglio uno stato che sia in grado di capire cosa significa essere donna e confrontarsi con il mondo del lavoro attuale.

PROGRAMMAZIONE, LUNGIMIRANZA, CONCRETEZZA. Vi piacciono queste parole? Se non ne conoscete il significato, vi consiglio Treccani.it
Non possiamo accontentarci, non è più il momento delle soluzioni tampone o delle toppe.

 

Approfondimenti:

Fai clic per accedere a 01Apr2015cd47a6be102a7268be2d0ad1b74f438e.pdf

http://27esimaora.corriere.it/articolo/il-doppio-allarme-sul-lavoro-delle-donne/

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Sotto e mal rappresentate

 

Non parlerò di rappresentanza politica delle donne. Anche se di figure femminili si tratta. Se tu immergi un bambino sin dalla più tenera età in un contesto che tende a rappresentare la realtà in modo parziale, avremo un adulto al quale sarà arrivato un messaggio altrettanto parziale. Alcuni studi tra gli anni ’70 e ’80 sui libri di storie per bambini hanno evidenziato una maggioranza di personaggi, eroi e protagonisti maschili. Questa minor presenza poteva portare a pensare che il ruolo delle donne fosse meno importante e rilevante nell’azione, anche perché spesso le figure femminili erano fragili, rappresentate in ambito domestico, bisognose d’aiuto e con ruoli tutto sommato passivi. L’avventura era prerogativa maschile. Oggi forse qualcosa sta cambiando, con protagoniste che se la cavano perfettamente da sole e che riescono a sovvertire i vecchi stereotipi. Ci sono principesse che rifiutano il proprio destino da soprammobile per fare le dottoresse (come Arianna in Zog qui).

Zog

 

Per cambiare l’assetto culturale, la percezione delle figure femminili, conta molto quanto queste eroine siano diffuse e quanto pubblico riescano ad avvicinare. Frozen è su questa scia, ma mi piacerebbe comprendere cosa sia arrivato ai bimbi maschi del messaggio veicolato da questo cartone. Perché non è importante solo la percezione che le bambine hanno di sé, ma anche in che modo i bambini si costruiscono un’idea del genere femminile. E qui è sempre importante il ruolo degli adulti nella scelta delle letture e dei messaggi da trasmettere.
I libri di testo, di storia, le antologie ecc. soffrono spesso di una sotto-rappresentazione delle donne, figure a volte legate solo al ruolo di cura. Come se all’umanità mancasse un pezzo, come se alla storia fosse stata sottratta la memoria delle donne del passato. Dimenticandoci delle tante donne che hanno saputo incidere nella storia e contribuire al progresso del genere umano. Forse sarebbe il caso di intervenire e di correggere questo aspetto con maggior convinzione e sistematicità, non affidandosi esclusivamente alla buona volontà di qualche insegnante, che si impegni ad “integrare”.

In compenso i media, le riviste e le pubblicità sono ricolmi di stereotipi femminili. Come rilevava già Berger J. nel 1972 in Ways of seeing, il corpo delle donne è fatto per essere guardato, mentre quello dell’uomo è fatto per l’azione. Del corpo maschile si cerca di celebrare l’energia, gli ideali del potere, della forza e della supremazia. L’uomo non è oggetto dell’osservazione, ma soggetto attivo, rappresentato sempre nell’atto di compiere qualche azione. I corpi delle donne vengono posti in modo tale da essere guardati, da chiedere di esserlo. Gli uomini agiscono, mentre alle donne è richiesto di apparire, come “oggetto della visione”.
Rosalind Coward ha intravisto nei messaggi delle pubblicità e dei media un implicito incoraggiamento affinché le donne considerino il loro corpo un progetto, su cui lavorare, da curare in ogni suo più piccolo angolo. Basta dare un’occhiata alla miriade di prodotti di bellezza e di cura femminili adatti ad ogni più piccolo pezzo di corpo.

 

 

L’essere adeguate non per se stesse, ma finalizzato al piacere agli uomini. Ci viene insegnato a guardare al nostro corpo e a tutta la nostra persona non con un punto di vista personale, ma sempre in funzione dello sguardo e del giudizio maschile. La donna deve continuamente fare i conti con la sua immagine, così come viene percepita dagli altri, perché da questo ne deriverà il successo o l’insuccesso nella vita, perché si veicola il messaggio che il successo deriva dal piacere agli uomini. In tutto questo non c’è spazio per la personalità, per una cura del proprio universo interiore. Comprendete che non sempre si è in grado di evidenziare queste pressioni psicologiche nascoste. Specialmente in una fase di formazione e di creazione di una propria identità. Non tutte riusciranno a smarcarsi, anche perché ci saranno sempre nuove sollecitazioni affinché ci si adegui e si compiaccia un certo tipo di mentalità che si aspetta solo determinate cose dalle donne. In questo modello la donna va tenuta sotto controllo, la sua immagine deve essere ben distinta da quella maschile. In questo entra in gioco l’atto maschile di guardare, nella fruizione di materiale pornografico. Secondo Root J. in Pictures of Women del 1984, l’eccitazione del pornomane deriva dall’idea di spiare, di osservare qualcuno che non può vederci. Le figure femminili sono “fissate” (sia sulla stampa che sullo schermo), ma forniscono l’illusione che ci sia una disponibilità sessuale esclusiva. La donna diventa oggetto sessuale per il maschio, al servizio del suo desiderio. La passività e la disponibilità femminili della pornografia le ritroviamo nella nostra quotidianità, su riviste femminili, sulle pubblicità, nei media in generale. Ecco il motivo per chiedere un cambiamento nei messaggi veicolati dalla pubblicità e dai media. Andrea Dworkin si era schierata a favore di una censura statale della porrnografia: “l’esposizione a temi di violenza e di predominio maschile desensibilizza il pubblico maschile e può spingerlo a credere che le donne traggano piacere dalla sofferenza e dall’umiliazione”.

Catherine MacKinnon sostiene che la “pratica sociale dell’oppressione delle donne gratifichi sessualmente l’uomo”. Per cui la pornografia rifletterebbe la natura della sessualità maschile. Questo mix di materiale pornografico e di messaggi dei media che veicolano questa idea di sottomissione e controllo della donna, producono una realtà immaginaria, parallela di cui gli uomini si nutrono. Se poi alle immagini aggiungiamo un uso del linguaggio altrettanto funzionale a questa visione, abbiamo costruito un meccanismo diabolico difficile da scardinare. Per questo dobbiamo ragionare in parallelo. Nessun dettaglio deve essere lasciato al caso. Non lasciamoci rappresentare attraverso gli stereotipi, comprendiamone i meccanismi e adoperiamoci affiché le cose cambino, partendo dal nostro quotidiano. Coraggio, mai mollare o farsi intimidire!
Prendiamo esempio da mia figlia, 3 anni, che quando va al parco e trova dei bimbi più grandi che giocano a calcio, si butta nella mischia e urla: “la prendo io!”. Chi ci può fermare?!

 

Fonte studi: Vivien Burr, Psicologia delle differenze di genere, Il Mulino 2000.

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