Nuvolette di pensieri

Mormora l'acqua del ruscello

Dopo Estrela, Tarabella

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Ci riproviamo. Ricordate tutti la relazione Estrela e come andò a finire. Ne ho scritto anche su questo blog (qui). Oggi, si cerca di superare nuovamente le barriere confessionali e si tenta di ottenere una dichiarazione/posizione unitaria e precisa da parte dell’UE, in materia di interruzione volontaria di gravidanza. Finora ha prevalso la sussidiarietà e ogni paese ha fatto quel che voleva, sulla pelle delle donne. Oggi, più che mai, occorre ribadire il diritto alla scelta di ciascuna donna. Conoscete bene com’è la situazione in Italia, tra maree di obiettori e una legge, la 194, sotto un quotidiano attacco, la cui applicazione è sempre più incerta e difficile.
Nel silenzio generale dei media “laici” nostrani, salvo questo bel pezzo di Maddalena Robustelli uscito su Noi Donne che vi invito a leggere, e la nutrita stampa dei prolife che se ne è occupata (vedi anche la raccolta delle 50.000 firme), lo scorso 20 gennaio la relazione dell’eurodeputato socialista belga Marc Tarabella è stata approvata dalla Commissione Diritti della Donna e Uguaglianza di Gender della Unione Europea con 24 voti a favore, 9 contro e 2 astenuti. Ora, entro il mese, la relazione verrà portata alla discussione dell’Assemblea plenaria del Parlamento Europeo.

Il testo era incentrato principalmente sulle proposte per l’introduzione di un congedo di paternità retribuito di un minimo di dieci giorni lavorativi e il riconoscimento dei diritti delle donne sull’aborto e la contraccezione.
A tal proposito il prossimo 5 febbraio il gruppo S&D terrà una conferenza congiunta presso il Parlamento Europeo di Bruxelles con i Liberali (ALDE), i Verdi e il Gruppo della Sinistra Unitaria Europea (GUE-NGL) sul diritto all’aborto: #ALLofUS (Qui maggiori informazioni).

Il diritto all’aborto potrebbe entrare tra le risoluzioni dell’Unione Europea. Ce lo auguriamo!

Si legge, al punto 14 del report dello stesso Tarabella del 12 novembre 2014, “on equality between women and men in the European Union – 2013”:

“Maintains that women must have control over their sexual and reproductive rights, not least by having ready access to contraception and abortion; accordingly supports measures and actions to improve women’s access to sexual and reproductive health services and inform them more fully about their rights and the services available; calls on the Member States and the Commission to implement measures and actions to make men aware of their responsibilities for sexual and reproductive matters”.

 

A margine dell’approvazione Marc Tarabella ha detto:

“Nella società moderna, ritengo che sia cruciale permettere a tutti i padri di esercitare il proprio diritto a conciliare la vita professionale con quella privata, garantendo loro il congedo di paternità. Per questi padri significa passare più tempo con il figlio appena nato. Un quarto dei paesi dell’Unione europea non prevede alcuna misura in tal senso. Eppure è un prerequisito per la garanzia dell’uguaglianza di genere.
“Allo stesso modo, ogni donna ha piena libertà sul proprio corpo. Pertanto, le donne devono avere accesso facile alla contraccezione e all’aborto. Sarebbe inaccettabile regredire su questo diritto che le donne hanno conquistato battendosi con veemenza”.
L’eurodeputato ha concluso:
“La riluttanza rimane. Sono fiero di avere ottenuto la maggioranza oggi su queste due questioni fondamentali all’interno della commissione sulle donne. Spero che saremo in grado di confermare i risultati al voto finale in sessione plenaria a marzo; faccio appello a tutti i progressisti di questa assemblea. Ce ne sono molti. La settimana scorsa, la maggioranza degli eurodeputati ha chiesto alla Commissione di non ritirare la direttiva sul congedo di maternità durante il voto sulla risoluzione dei Socialisti e democratici sul programma di lavoro della Commissione per il 2015. Mi sento ottimista sulla possibilità che promuoveranno di nuovo a marzo l’uguaglianza di genere.”
Marie Arena, eurodeputata socialista e portavoce della commissione sui Diritti delle donne e l’uguaglianza di genere per il gruppo S&D, ha aggiunto:
“Parlando in generale, la situazione non è migliorata nel 2014. Le donne sono più colpite degli uomini dalla crisi economica e sociale. Il 22% delle donne più anziane rischia di cadere in povertà, rispetto al 16.3% degli uomini.”
Marie Arena ha concluso:
“Il divario salariale tra uomini e donne rimane alto, approssimativamente al 16,4%. Solo il 63% delle donne ha un lavoro, sebbene l’obiettivo per il tasso di occupazione delle donne nel 2020 sia stato fissato al 75%.
“Al tasso attuale, dovremmo aspettare il 2038 per raggiungere l’obiettivo e il 2084 perché la parità salariale diventi realtà. Inutile dirlo, c’è ancora molto lavoro da fare.“

 

Da noi, se ne parla poco, perché è un argomento scomodo a livello politico: l’aborto e le tematiche relative alla salute della donna in generale, sono quasi un tabù, qualcosa da lasciare tra le mura dei discorsi tra donne. E invece, no! Deve aprirsi un dibattito pubblico, i decisori politici devono esprimersi chiaramente, ciascuno deve prendersi le proprie responsabilità. Fa comodo dirsi laici e difensori dei diritti civili, ma quando c’è da dare risposte precise e concrete ci si maschera e si glissa abbondantemente. A destra, come a sinistra. I diritti delle donne sono diritti di serie B? Facile scaricare tutto sulle donne. Non fa bene alla carriera politica sostenere le donne? Posizioni chiare sono rare e costano troppo care, politicamente parlando. Nessun contesto sembra pronto per affrontare seriamente le questioni di una 194 sempre più disapplicata e della situazione in cui versa la salute sessuale e riproduttiva delle donne in Italia.

Vi suggerisco questo post di Eleonora Cirant a margine del tavolo sui diritti civili presso Human Factor.

Questo il mio commento e la mia opinione:
Le tue domande erano legittime, pertinenti e fondamentali. Sono anche certa della passione e della competenza con cui hai argomentato sul tema. Il contesto molto probabilmente non era quello adatto per accogliere nel modo giusto le tue sollecitazioni. Mi chiederai se esiste un contesto adatto. Sono rari e solitamente i consessi molto partecipati non garantiscono la giusta concentrazione. Patetico è un certo modo di fare politica. E quella occasione mi ha dato tanto di “passerella” per dire le solite cose, farsi foto, non approdare a granché. Sulla 194 manca una sensibilità diffusa e permanente. Così sui diritti alla salute della donna in generale. Si lascia che sia e salvo qualche importante occasione, restano temi marginali, di nicchia. Che dire della Puglia? Da barese di nascita, anche se non vivo a Bari da circa 10 anni, ti posso dire che la situazione è abbastanza disastrosa. Ho ancora la mia famiglia lì e quando torno annuso l’aria che tira. La situazione era critica quando ero adolescente, oggi i problemi si sono acuiti. In ambito sanitario poi non ne parliamo. Anche io sono stata una entusiasta sostenitrice di Nichi all’inizio della sua esperienza di governatore in Puglia. Oggi ne vedo i limiti. Dichiarare che i problemi ci sono, esistono presuppone un coraggio e una onestà politiche estremamente rare. Ci piacerebbe un altro modo di fare politica e che non ci venga continuamente ripetuto il mantra del compromesso. Ormai l’unica regola è il compromesso, che vuole semplicemente dire che le cose si fanno solo se conviene.

Io mi aspetto risposte chiare, non comizi generici autocelebrativi. Le donne hanno bisogno di risposte serie. Per me fare politica è questo. I diritti delle persone non possono essere strumentalizzati o ignorati a seconda della convenienza personale. Chiediamo RISPETTO!!!!!!!! Non accettiamo ulteriori atti di sabotaggio alla nostra salute. Facciamo rumore, facciamoci sentire!

 

Vi suggerisco questo articolo di Tiziana Bartolini, pubblicato su Noi Donne, sulla proposta della Laiga di creare una rete nazionale, per l’applicazione della legge 194 e per contrastare l’alto numero di obiettori di coscienza nelle strutture pubbliche.

 

AGGIORNAMENTI

Se desiderate e sostenete la causa, firmate la petizione lanciata da Laiga e Associazione Vita di Donna Onlus qui.

 

05.02.2015 – ALL OF US – MOBILISING FOR ABORTION RIGHTS

Stamattina si è svolta la conferenza ‪#‎AllOfUs‬ sul tema dell’aborto.

Qui la dichiarazione:

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Osservate bene le firme… Dove sono i nostri rappresentanti? Chi ci rappresenta su questi temi in Europa? Attendo risposte. Grazie in anticipo.

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La paradossale marcia delle donne verso l’emancipazione

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Desidero proporvi questa mia traduzione di un articolo di Rémi Barroux, pubblicato su Le Monde il 12 gennaio 2015. Il mio francese è pessimo, ho cercato di fare del mio meglio perché l’argomento mi sembrava interessante, ma sono benvenute le vostre correzioni!

 

I progressi verso la parità tra donne e uomini sono reali, ma la strada è ancora lunga. I passi in avanti sono paradossali e incompleti, scrivono gli autori dell’Atlas mondial des femmes, il primo del genere, presentato lunedì 12 gennaio, presso l’Institut national d’études démographiques (INED) e pubblicato da Autrement.

La causa dei diritti delle donne è relativamente recente: solo nel 1945 l’ONU ha adottato una Carta che stabilisce i principi generali di eguaglianza tra i sessi. Da allora, diverse conferenze internazionali hanno chiarito gli obiettivi. Il 18 dicembre 1979 l’Assemblea Generale dell’ONU ha adottato, in particolare, la Convenzione (qui) sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne.
E la quarta Conferenza mondiale tenutasi nel 1995 a Pechino – di cui quest’anno si celebra il ventennale – , si è conclusa con una Dichiarazione e un programma d’azione per l’emancipazione sociale, economica e politica delle donne (qui).

 

1

 

Com’è la situazione reale oggi? “Vi sono miglioramenti in vari settori, come ad esempio la sanità e l’istruzione, ma registriamo anche dei peggioramenti”, spiega Isabelle Attané, demografa e dell’INED e coautrice dell’Atlas. Meno numerose rispetto agli uomini dal 1950 – le donne sono quasi 3,6 miliardi rispetto a una popolazione mondiale di 7,4 miliardi di persone – vivono più a lungo, in qualunque parte del mondo. Ma si tratta di uno dei pochi vantaggi che possono vantare rispetto agli uomini. Nel 2010, il rischio per un uomo di morire a 20 anni era tre volte superiore a quello di una donna. Ahimè, questa speranza di vita maggiore nasconde un più rilevante degrado della salute della donna, a causa in particolare di “una difficoltà a conciliare vita professionale e vita familiare, poiché le attività domestiche poggiano maggiormente sulle spalle delle donne rispetto agli uomini, oltre a quelle lavorative” scrive la demografa Emmanuelle Cambois.
Per il resto le disuguaglianze sono sistematicamente contro le donne. Particolarmente esposte nella vita domestica, sono loro che soffrono maggiormente a causa delle violenze sessuali (75-85%). questo incremento nelle statistiche delle violenze, secondo la sociologa Alice Debauche, è dovuto a “una liberazione dell’espressione delle donne”. In Francia per esempio, il numero degli stupri denunciati è passato da circa un migliaio nel 1980 a circa dieci volte tanto nel 2000. Le misurazioni e i raffronti in merito alla violenza, tuttavia, restano complicate da fare, perché le definizioni giuridiche degli stupri, delle aggressioni o delle molestie, le possibilità di uscire dal silenzio differiscono da un paese all’altro.

 

2

 

 

Nel settore economico cresce l’accesso al lavoro, ma “vediamo che le donne restano una variabile di aggiustamento privilegiata in un contesto di liberalizzazione e di crisi economica”, sostiene Attané (in pratica sono le prime a pagare le conseguenze di una crisi e ad essere licenziate, ndr). Nei paesi in cui i lavori informali e domestici sono importanti, questo aspetto potrebbe essere meno percepito. Ma la maggiore vulnerabilità delle donne è reale. Più spesso disoccupate, sono anche coloro che rischiano maggiormente di perdere il loro posto di lavoro. Le donne hanno una maggiore propensione ad accettare il rischio di perdere il posto nei successivi sei mesi: in Finlandia (17% donne-11% uomini), in Danimarca (11% e 7%), in Belgio (quasi 10% e 4%), in Spagna o in Austria. In altri paesi come Francia, Portogallo e Regno Unito, la minaccia pesa sulle industrie tradizionalmente maschili, che porta a spiegare la minore paura delle donne di perdere il lavoro rispetto agli uomini. (In pratica, una donna si attende con maggiori probabilità di venire licenziata in caso di crisi, per questo sarebbe meno preoccupata e più propensa ad accettare l’eventualità: come dire, che ne siamo consapevoli, lo accettiamo meglio, insomma viviamo meglio le fregature, bah, sono perplessa, ndr).
L’occupazione femminile resta confinata alle posizioni di minor conto, nell’agricoltura, nel commercio e nei servizi. Sono pagate meno e più colpite dalla povertà. Negli Usa, il tasso di povertà delle donne è stato del 14,5% contro il 10,9% degli uomini nel 2011. E soprattutto continuano a fare la “doppia giornata” di lavoro: tornate a casa, la maggior parte deve svolgere le mansioni domestiche, lavare i piatti, pulire, cura dei bambini e delle persone non autosufficienti ecc. In Francia questi compiti occupano 20,32 ore settimanali rispetto alle 8,38 ore degli uomini.Se includiamo bricolage, giardinaggio, shopping o giocare con i bambini, lo squilibrio si riduce ad appena 26,15 ore per le donne contro le 16,20 per gli uomini.

 

3

 

“L’uguaglianza di genere proclamato in numerosi testi non è acquisito di fatto, è necessario mettere in evidenza gli ostacoli”, avverte Isabelle Attané. Nella sfera privata, ad esempio, le rappresentazioni sono complicate. “Sappiamo che la politica scolastica è guidata dalla socializzazione di genere, già presente in ambito familiare”. Le donne laureate in materie scientifiche sono la maggioranza in Asia centrale, in Medio Oriente e Nord Africa, mentre in Europa occidentale e Nord America le donne sono poco presenti negli studi quali l’informatica e l’ingegneria, privilegiando ambiti quali la sanità, il sociale e la puericultura.
Le disuguaglianze si sono spostate, sostiene Wilfried Rault, sociologo presso l’INED e coautore dello studio. “Il tasso si scolarizzazione delle donne progredisce, i canali e l’accesso a determinate professioni sono più discriminanti. Questo avveniva già in passato, ma il confine si è spostato: le disuguaglianze si verificano più tardi”.

Nel mondo del cinema, dice Brigitte Rollet, esperta in audiovisivi e insegnante a Sciences-Po, le donne rappresentavano l’86% dei posti di lavoro nel settore dei costumi e il 62% in quello delle scenografie, ma il 32% nella regia o il 22% nel suono, secondo la ricerca sugli studenti diplomati alla Fémis, l’école nationale supérieure des métiers de l’image et du son, tra il 2000 e il 2010.
Il prodotto cinematografico, nonostante le protagoniste femminili siano presenti sui manifesti, è molto maschile. Infatti, la quota di donne nella redazione di Positif è solo del 12%, l’8% presso Première e il 22 % presso Cahiers du cinéma. Erano inesistenti nel CdA di UGC nel 2013, solo il 25% presso Pathé e il 30% in quello di Studio Canal e Gaumon. Per completare il quadro inglorioso, dalla creazione del premio César nel 1976, una sola donna, Tonie Marshall, ha vinto il premio come miglior regista.

 

4

 

L’offensiva del conservatorismo (qui un articolo) a livello nazionale e internazionale, attraverso stati come il Vaticano o i paesi più integralisti dell’Africa e del Golfo, rallentano la marcia verso l’uguaglianza. Al di là dei più reazionari, molti stati sono riluttanti all’idea che ci siano testi internazionali che fissino le regole. Ciò accade in Europa sul diritto di aborto, in Spagna come in Italia, o nel dibattito francese. C’è una vera e propria confusione tra la questione dell’uguaglianza e quella della differenza, ritiene Wilfried Rault. Non vi è alcuna legge naturale che colpisca uomini e donne. E nessun discorso può giustificare la disuguaglianza. Per dirla come Simone de Beauvoir, nel 1949, “Non si nasce donna, si diventa” (Il secondo sesso).
A complicare questa lunga marcia verso l’uguaglianza, i miglioramenti possono anche generare nuovi problemi. Ad esempio, l’accesso alla contraccezione mette più pressione alle donne che agli uomini, creando una nuova disuguaglianza. Tra tutti i contraccettivi, la sterilizzazione femminile è la più utilizzata al mondo (18,9%) (ndr qui un articolo recente su quello che accade in India), prima della spirale intrauterina (14,3 %) e della pillola (8,8 %) e ben prima del preservativo maschile (7,6%). “La sterilizzazione delle donne, usata soprattutto in Brasile e in Messico, preclude la via alla maternità dopo i primi figli, mentre gli uomini possono ancora diventare padri, spiega Carole Brugeilles, demografa e insegnante presso l’università Paris Ouest, e terza co-autrice dell’Atlas. Un altro esempio è la medicalizzazione del parto, un progresso innegabile, ma a volte porta a una iper-medicalizzazione che mette a repentaglio la salute della donna. Il cesareo dovrebbe essere una pratica accessibile a tutte le donne che ne hanno bisogno (e spesso (in alcuni paesi) non è così). Quando però si verificano delle percentuali di cesareo che superano il 30% dei parti, per esempio, ci si dovrebbe domandare se si può parlare di reale progresso, oppure non si debba parlare addirittura di una forma di violenza.

 

5
Le disuguaglianze tra uomini e donne si riconfigurano, si spostano, si edulcorano, sostengono gli autori dell’Atlas. Per coloro che ci hanno messo più di un secolo per ottenere il diritto di voto – le donne neozelandesi votano dal 1893, mentre le kuwaitiane hanno potuto partecipare alle elezioni comunali solo nel 2006 – e coloro che ancora non possono farlo come in Arabia Saudita , le disuguaglianze sono ben lontane dallo scomparire.

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The Feminist Porn Book

Jean Auguste Dominique Ingres, Roger Freeing Angelica,1819, Louvre, Paris

Jean Auguste Dominique Ingres, Roger Freeing Angelica,1819, Louvre, Paris

Il 2013 segna la pubblicazione del Feminist Porn Book (focalizzato sulla realtà USA), che cerca di formalizzare una sorta di vademecum di questo genere di filmografia, descrivendo cosa lo renda diverso dalle altre forme di pornografia, “helping to place it within contemporary media landscapes and social contexts as a genre, as a market sector, and as a political position”, come scrive Giovanna Maina (Giovanna Maina, 2014, After The Feminist Porn Book: further questions about feminist porn, Porn Studies, 1:1-2, 182-185, DOI: 10.1080/17503132.2014.888248). Tentativi di codificare questo genere erano stati fatti anche in anni precedenti, ma questo è il primo lavoro completamente dedicato al porno femminista, utile a tratteggiare un’istantanea del fenomeno. I perni del porno femminista sono l’autenticità e il realismo, l’uso di corpi, di generi e di sessualità “non standard”, il consenso e la libertà di azione degli attori (di essere se stessi), e infine l’”industry within an industry” (Penley et al., 2013), caratterizzata da una modalità di produzione equa e solidale e sostenibile.
Sospettavo che ci fosse di mezzo il termine fair-trade..
L’autenticità. Sembra un fattore molto importante per gli interpreti di questo tipo di produzioni. L’obiettivo è superare gli stereotipi e il sapore di falso del mainstream.

Smith e Attwood (2013) ci ricordano come sia da distinguere tra: ‘authentic sex’ and ‘porn sex’.

Riprendo dallo studio di Giovanna Maina, pag. 183:

“In anti-porn understandings, authenticity is deeply connected to an idea of sex as something ‘healthy’, ‘caring’, ‘private’, ‘responsible’, ‘loving’, emotionally ‘special’ and even ‘sacred’ (2013, 51), as opposed to the commodification and emotional distance supposedly inherent in pornography”.

C’è un solco, una distanza tra ciò che dovrebbe rappresentare il sesso nella realtà e il messaggio veicolato da un prodotto commerciale, anche se con il marchio “femminista”.
Madison Young, produttrice di porno femminista, definisce il senso della parola “autenticità”: “individual choice, negotiation of pleasures, and celebration of difference”. In questo modo si genererebbero delle singolari forme di sessualità, di genere e di azione. Il poter essere se stessi durante le scene consentirebbe di eliminare la sensazione dell’artificiosità tipica del mainstream.
A me l’idea che non si avverta più la separazione tra fiction e realtà, un po’ mi desta qualche perplessità e preoccupazione. Soprattutto perché non tutti abbiamo le capacità critiche per distinguere emozioni reali da quelle “finte”. Il rischio è che si creino delle false aspettative nella realtà, sulla base di esperienze viste in un prodotto di fiction.
Giovanna Maina, di cui vi traduco e vi sintetizzo un pezzo, si pone alcune domande che scaturiscono dall’opposizione tra “genuine” e “staged”: “L’autenticità viene raggiunta semplicemente mostrando rispetto per la sessualità e per i generi reali dei performer, o attraverso l’uso di particolari tecniche estetiche?”, il concetto di autenticità come si lega al concetto di realismo della rappresentazione? La rappresentazione autentica, realistica, non stereotipata delle donne è funzionale anche al fatto di poter annoverare questo tipo di produzioni nell’alveo femminista. Quel che non riesco a comprendere è come ciò avvenga materialmente.
Mi fa piacere che girare film porno porti a migliorare la scoperta di sé, ma mi chiedo se ciò che dice Courtney Trouble “queen of queer porno” sia sufficiente per dire che siamo di fronte a un tipo di produzioni doc e che tutto ciò che si attribuisce il marchio di feminist porn sia tutto oro e buono:

“Courtney Trouble goes further, explaining how she found knowledge – about herself, about her sexuality and gender – in analyzing her feelings while performing for the camera, and through introductions to different and non-stereotypical sexualities and genders during her pornographic career”.

Mi chiedo anche se nello scontro tra i due macro schieramenti del porno, feminist/queer/indie/alt porn da un lato e mainstream/corporate porn dall’altro, si possa nascondere una chiave di lettura diversa. Mi chiedo se le etichette servano realmente per gli obiettivi dichiarati oppure sia semplicemente un modo per creare una fetta di mercato alternativo, una ramificazione ulteriore, capace di raccogliere nuovo pubblico, mai raggiunto sinora. Così come mi chiedo che tipo di ruolo positivo possa avere il porno, di ogni tipo, nell’educazione sessuale.
Chiudo con altri quesiti: se il porno femminista è fatto per rappresentare fantasie e desideri femminili, cosa distingue le produzioni che si autodefiniscono femministe da quelle del porno fatto per le donne? Se il porno femminista rappresenta anche le “minoranze sessuali”, in cosa si distingue dal porno queer?
Ci sono tante piccole nicchie nella galassia del porno non mainstream, tanto che risulta molto complicato capire quanto e come avvenga la differenziazione, la produzione di qualcosa di realmente diverso. Perché noi non ci accontentiamo delle parole, delle etichette rassicuranti, vorremmo che le parole avessero un uso appropriato e non siano solo veicoli di nuovi prodotti da immettere sul mercato. Anche perché, chi parla, spesso è dentro a questo tipo di produzioni e non può avere uno sguardo obiettivo su ciò che realizza.
Segnalo il progetto di Alessandra Mondin (qui) volto a indagare le reazioni del pubblico, in termini di preferenze, abitudini, e pratiche di consumo, rispetto alle nuove forme di porno sopra citate. Forse potremmo avere qualche risposta in più dai suoi risultati.
Qui un suo paper sul fair-trade porn.

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Espansioni del porno

Antonio Canova - Naiad, model 1815-1817 - National Gallery of Art, Washington D.C.

Antonio Canova – Naiad, model 1815-1817 – National Gallery of Art, Washington D.C.

 

Premetto che senza la collaborazione di Giovanna Maina, non avrei avuto le informazioni per scrivere questo post. È stata l’unica persona che ho contattato che mi ha dato dati e informazioni utilissime e la ringrazio per la sua disponibilità. Ho letto il suo e altri saggi contenuti nel testo Il porno espanso – Dal cinema ai nuovi media, Mimesis 2011. Questi studi sono importanti per cercare di capire cosa si muove veramente in un porno che si pone come “alternativo”.

“Con una buona approssimazione, si può affermare che l’amateur porn audiovisivo si sia sviluppato in concomitanza con la video-rivoluzione degli anni Ottanta. Si tratta fondamentalmente di una specifica forma pornografica “in cui persone (presunte) ordinarie originariamente si scambiano performance [sessuali] videoregistrate”. Raggiungendo la maturità e la massima diffusione con l’avvento del Web 2.0. Si è venuto a creare, cioè, una sorta di “stile” amatoriale, che contraddistingue e accomuna tipologie di prodotti anche molto diverse: dal filmato “privato” scambiato gratuitamente tra utenti attraverso i siti di condivisione, agli ibridi come il cosiddetto pro-am – dove i performer non appartengono alle corporazioni industriali del porno, ma ottengono comunque un ritorno economico (e una sorta di micro celebrità) grazie all’esibizione dei loro corpi e atti sessuali –, ai falsi amatoriali che semplicemente imitano la morfologia e le situazioni narrative dei “filmini” casalinghi impiegando attori e attrici porno, e così via.
Nella stragrande maggioranza dei casi, perciò, i prodotti classificati sotto questa etichetta non sono affatto il “frutto proibito” dell’esibizionismo di qualche sconosciuto pervertito, ma delle operazioni industriali o, al limite, “artigianali”, e spesso è molto difficile distinguere nettamente le diverse sfere.

Passiamo all’alt porn.

“Nel suo libro Naked on the Internet, Audacia Ray, nota sex blogger, porno performer ed ex sex worker, prende a prestito una definizione dell’alt porn dal vocabolario gergale online Urban Dictionary:
Alternative Pornography. Un medium (soprattutto online, ma occasionalmente anche a mezzo stampa) che consiste in un’alternativa alla pornografia mainstream; siti Web che spesso propongono delle comunità dove i membri possono comunicare con le modelle e i modelli, abbattendo le barriere e lo sfruttamento grazie all’utilizzo di performer che sono persone vere. Spesso vengono mostrati uomini e donne appartenenti a determinate subculture; questo tipo di pornografia è considerato women-friendly e sex-positive.
Le origini dell’alt porn sono fatte risalire per convenzione al 1992, anno della prima uscita di Blue Blood, un “magazine di lifestyle controculturale” che “è stato il primo a esibire massicciamente la bellezza e la sensualità dell’emergente ed eclettico underground, popolato dal goth, dal punk e dalla cyber-cultura pre-Internet”.
Blue Blood, Gothic Sluts, Barely Evil, Rubber Dollies (avvenenti ragazze in latex couture), Sweetest Drop (ragazzi tenebrosi) e numerosi altri offshoot restano manifestazioni pure di un’affiatata comunità sempre in crescita, impegnata nella scoperta e nell’espressione di sé, che mette in discussione lo status quo e, in generale, vuole cambiare le cose.

Medesima ossessione per la contiguità tra pornografia e vita. L’autenticità, l’attenzione per il reale, l’inclusione di soggetti comuni, di corpi non necessariamente “perfetti”, per rendere la finzione qualcosa di simile alla realtà, è finalizzata ad incontrare i gusti di una fetta di fruitori che chiedono questo. Mi viene in mente il principio della sospensione dell’incredulità o sospensione del dubbio (suspension of disbelief): “è un particolare carattere semiotico che consiste nella volontà, da parte del lettore o dello spettatore, di sospendere le proprie facoltà critiche allo scopo di ignorare le incongruenze secondarie e godere di un’opera di fantasia. La frase venne coniata da Samuel Taylor Coleridge in un suo scritto del 1817. Finché si tratta di un artifizio artistico, nel cinema, nel teatro, la rappresentazione ne beneficia. Ma quando la sospensione riguarda la realtà, è più pericoloso. Gli spettatori di un porno che in qualche modo vuole riprodurre la naturalità del reale, capiscono che è fiction, ma ne apprezzano le caratteristiche “di una verità simulata”. Trovo questo aspetto molto delicato, perché comunque reale non è. Tutta la rappresentazione per quanto collezioni elementi tratti dalla realtà, sarà bene che venga avvertita come rielaborazione, come ricostruzione artistica del reale. La distanza deve esserci, altrimenti si crea una realtà parallela che distorce le proprie percezioni del reale, dei propri rapporti con gli altri nel nostro quotidiano. Il porno che descrivevo nel post “Porno & violenza” era pericoloso proprio per queste ricadute nel reale. Qui dobbiamo sempre fare attenzione. È alta la percentuale di adolescenti, nel Regno Unito come in Italia, che si formano in materia sessuale attraverso la pornografia. Diversi sono gli approcci e i tipi di visione e di utilizzo. Sono in maggioranza maschi e molti auspicano che si incrementi il numero delle fruitrici. La mia domanda è sempre la stessa: siamo sicuri che questo sia il mezzo giusto per fare esperienza, per una educazione sentimentale? Sono parametri corretti e utili? Oppure queste performance aumentano il grado di frustrazione e forniscono dei modelli irraggiungibili o che compromettono i rapporti reali e una percezione realmente “propria” dei desideri e del corpo? Io tutto questo me lo chiedo, sia che si tratti di porno mainstream, alternativo o femminista. Non sto parlando di censura in tema di porno, ma di una riflessione su come si può agevolare una libera vita sessuale e una piena consapevolezza dei propri desideri. In pratica, come posso ottenere una piena conoscenza di quelli che sono i miei desideri, senza che qualcuno me li suggerisca? Giungerci da sol*, semplicemente vivendo, senza suggeritori commerciali sarebbe forse auspicabile. O forse sono io che mi sto sbagliando.
Ci sono stili nerd applicati al porno. C’è anche il veg porn, con attori vegani, “fatto per mangiatori di piante”, un po’ new hippy, un po’ punk. C’è chi gira anche durante il ciclo mestruale, per mostrare la naturalità del flusso e abbattere il tabù del sangue mestruale. Insomma si cercano nuove frontiere, avanguardie per poter dire qualcosa di nuovo (o per ampliare semplicemente il mercato).
Traggo questi passaggi dal saggio di Maina, su Furry girl:

Nei suoi quattro siti, Furry Girl mostra dunque di avere le idee molto chiare sul proprio rapporto con la pornografia, promuovendo un’idea di porno come naturale estensione della sessualità, ponendo l’accento sulla spontaneità delle pratiche mostrate e, soprattutto, contrastando l’omologazione e la normatività del mainstream.
La stessa etica (insieme rigorosa e “anarcoide”) che informa l’esistenza lavorativa “hardcore” di Furry Girl, si rintraccia anche nel suo blog politico, Feminisnt. In questa sede, la performer in qualche modo esplicita il sottotesto ideologico del proprio operato nell’alt porn: innanzitutto, prendendo le distanze dal femminismo sex-positive, sentito scomodo come “un paio di tacchi alti della taglia sbagliata”, e dichiarando la propria insofferenza per le etichette rigide e astratte; in secondo luogo affermando la necessità di avere delle cause concrete per cui combattere, nella fattispecie la battaglia per i diritti delle sex worker. Anche qui, come nella rappresentazione pornografica, Furry Girl rivendica una fiera refrattarietà alle definizioni e alle norme in fatto di sesso e identità sessuale, così come un rapporto di consequenzialità diretta tra le proprie idee e le proprie azioni.

Si assiste a un processo in cui “l’esibizione pornografica dei corpi e delle pratiche sessuali viene inverata da processi di costruzione identitaria che si suppone avvengano comunque fuori dal porno stesso, nel sociale”.

Cruciale questo estratto da Pag. 223:

“Questa contiguità dell’alt porn con pratiche di cultura partecipativa “dal basso”” ci porta direttamente al secondo elemento cui vorrei brevemente accennare. Spesso i siti alt si collocano in una determinata area ideologica –– quando non si pongono addirittura con un atteggiamento di vera e propria ““militanza”” –– esprimendo chiaramente delle opinioni riguardo temi importanti, come il rispetto dell’individualità delle modelle o le rivendicazioni per i diritti e la dignità delle sex worker. La questione dell’’impegno sociale e politico nell’’alt porn è, in verità, piuttosto controversa. Innanzitutto perché questo tipo di coinvolgimento in problematiche apparentemente estranee al business del porno presenta vari gradi di complessità, a seconda delle diverse situazioni: si passa, infatti, dall’’attitudine genericamente women-friendly e sottoculturale di siti come SuicideGirls o BlueBlood.com, all’attivismo vegano e post sex-positive di Furry Girl, all’orgogliosa prospettiva queer di un sito come NoFauxxx (creato nel 2002 da Courtney Trouble), e così via. In secondo luogo perché, in qualsiasi modo vengano declinate le istanze politiche e comunitarie dei siti in questione, si tratta pur sempre di operazioni in larga misura commerciali, nelle quali il senso di appartenenza o la “battaglia comune” per la libertà sessuale e l’erotismo di qualità hanno in effetti un prezzo mensile, che può variare dai 9,99 dollari di NoFauxxx, ai 24,95 di Toxxxy e così via.

Vi ricordate il pezzo che ho scritto in cui si evidenziavano due macro-filoni di femminismo: femminismo come libertà individuale di scelta e femminismo come movimento di liberazione collettiva delle donne dall’oppressione patriarcale?
Ci siamo. Possiamo ascrivere parte del porno non mainstream, alcune “espansioni” del porno, le cosiddette porno sub-culture, alla prima tipologia di femminismo. Possiamo quindi interrogarci sulle conseguenze di questo tipo di approccio e sulle sue ricadute sul movimento delle donne e sulla loro liberazione. Ne ho già parlato e sapete cosa ne penso. Soprattutto sapete cosa penso a proposito della diffusione di una mentalità “individualista” che sta diventando la religione del successo di tanti.

Scrive ancora Giovanna Maina:

“L’alternativa al mainstream rappresentata dall’alt porn rischia dunque di essere prevalentemente di tipo commerciale, all’interno di un giro d’affari comune e di un probabile mutuo interscambio di rappresentazioni, pratiche e nicchie di pubblico. D’altro canto, il grande mercato del porno ha da sempre saputo “contenere” al proprio interno concezioni sessuali devianti o individualità particolari.
Le pratiche di inclusione dell’industria e la spietatezza dell’economia pornografica hanno dunque già fatto pienamente i conti con l’alt porn: da una parte, utilizzando la sua retorica formale e le sue determinazioni estetiche per raggiungere quella categoria di utenti che, per varie ragioni, non sarebbero mai stati attratti dai corpi anabolizzati dei performer porno tradizionali; dall’altra, cercando di marginalizzare le imprese più piccole e indipendenti, proprio grazie all’estensione del controllo anche sul mercato subculturale”.

Si va verso l’inglobamento nel mainstream. Non so se basterà il crowfounding per sostenere l’indipendenza degli operatori. Resta un grosso limite di tutte queste operazioni. Alla fine tutto rientra in logiche di produzione e di business, più o meno grandi, più o meno di nicchia. Non si può generalizzare, ma onestamente non possiamo chiudere gli occhi e non dare una lettura critica di questi prodotti.

Qui una guida al porno indipendente pubblicata su Intersezioni.

To be continued

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Porno & Femminismo

Tre donne, Fernand Léger

Tre donne, Fernand Léger

 

Riprendo il tema del Porno, dopo le sollecitazioni che mi sono giunte in merito al mio post Porno & Violenza.

In quel pezzo cercavo di indagare sul porno che potremmo definire mainstream, quello maggiormente diffuso e le sue ricadute sulla violenza di genere. Mi hanno fatto notare che esiste un filone porno cosiddetto “femminista”, un porno “dalla parte delle donne”. Che cosa sia ce lo spiega bene Giovanna Maina qui.
Nasce all’estero, ma approda in Italia grazie al progetto Le ragazze del porno (qui).
Vorrei comprendere in cosa questo tipo di porno è femminista e non di genere, ossia come portatore di un’ottica di genere/di generi fluidi.
Riporto questa frase di Slavina (qui), videomaker, performer, antropologa, ragazza del porno:

«La censura non funziona più come apparato repressivo che vieta esplicitamente, piuttosto rende invisibili le forme dissidenti (o le ridicolizza: in questo la televisione è maestra) ed esalta quelle forme di “trasgressione” che sono funzionali al mantenimento del sistema, come la sottomissione femminile al maschio ricco e potente. Voglio dire che non esiste una censura che vieta, esistono le regole di mercato che impongono ciò che è vendibile e ciò che non lo è, perché minimamente dissidente».

Slavina evidenzia come la censura porti in effetti a favorire la diffusione e il mantenimento di quel modello di porno che avevo ritratto nel mio post.
Fin qui le cose mi tornano e il ragionamento di Slavina è molto acuto.
Ma poi leggo in un altro articolo: «Il mio cortometraggio si intitolerà “Alicia in the supermarket”, somiglierà a un musical, avrà sequenze di animazione. L’idea è di un piacere in vendita: che si compra, a pezzi, al supermercato».
Chiediamoci se possiamo accettare una frase così.

C’è veramente molta confusione e sono un po’ sconcertata che la parola “vendita” non faccia sobbalzare più nessuno. Tutto è vendita, la parola magica che sottende ogni rapporto, ogni cosa, ogni faccenda. Tutto è monetizzabile altrimenti non esiste, tutto è sul mercato: la mia idea di piacere come anche i miei diritti.
Personalmente ritengo che quando ci sono di mezzo i soldi e c’è qualcosa da vendere, c’è ben poco spazio per le libertà e i diritti.
Questo bisogno di porno è un bisogno reale o indotto? Per vendermi un prodotto, mi induci un bisogno, di porno come di qualsiasi altro prodotto sul mercato. La conoscenza del mio corpo, la maturazione del mio desiderio, la liberazione del mio corpo passa veramente per un video porno da acquistare? Ne siamo così sicure? Alla fine mi stai somministrando uno o più modelli preconfezionati di sessualità.
Forse non si tratta né di emancipazione, né di liberazione, c’è solo l’anima del commercio. L’espressione il “corpo è mio e me lo gestisco io” è qui del tutto subordinata e asservita a una logica di vendita di un prodotto. Quando una donna, mente e corpo, diventano oggetto sul mercato non c’è liberazione, ma asservimento. In questi tempi in cui mancano le idee, tutto può acquistare un valore che di fatto non possiede.

Trovo irricevibile, l’auspicio di Valentina Nappi (che rappresenta il porno mainstream) secondo cui ‘tutte le donne dovrebbero essere troie’ e che ‘tutte le ragazze dovrebbero essere ragazze ultra-facili’. Le donne devono essere ciò che desiderano, questo è il punto, senza sovrastrutture o modelli maschili/femminili di riferimento. Dove finisce la scoperta? Il rischio è che io torni ad essere soggetto passivo di modelli descritti e narrati da altri, seppur donne. La sessualità è anche un’avventura personale, fatta di tasselli di scoperte.
Una sessualità che separa corpo dalla psiche, come se il piacere fosse solo un dato materiale e meccanico, non rischia di deformare la realtà e di comunicare messaggi deformanti? Non si creano aspettative pericolose? Non si generano frustrazioni? Non è comunque un fake?
Ritornando al modello economico sottinteso, ci sono tutti i termini tipici dell’ultraliberismo: io ho diritto di arricchirmi in tutti i modi, senza limiti di sorta. Ogni ambito mi è concesso. Nulla cambia nella sostanza, perché anche il porno femminista è un prodotto commerciale e come tale non è un’azione politica di liberazione e di sovvertimento delle regole di un sistema, post-capitalista avanzato. Per essere rivoluzionari occorre andare contro il sistema, per cui se il porno femminista fosse su base volontaria, nessuno ci guadagnasse su, venisse distribuito e prodotto gratuitamente, io stessa urlerei al miracolo. Ma finché accettiamo le regole del mercato, non ci può essere un’azione politica delle donne, sincera e di rottura. Perché potremo anche non soggiacere alle regole del mercato mainstream, ma non ci potremo tirare fuori dai processi del mercato, perché comunque mi si sta commercializzando qualcosa. In cosa è anti-capitalista? Solo perché non sfrutta e non c’è coercizione, né violenza? Ma siamo sicuri che alla fine non sia soggetto alle stesse regole del mercato capitalista?
Ok il manifesto de Le ragazze del porno: non capisco in che modo sia anticapitalista una cosa che tu mi vendi. Come si intende combattere il sistema capitalista? Serve solo a togliere spazi al porno mainstream? Sarei interessata a comprendere la diffusione del cosiddetto “porno femminista”, rispetto al porno mainstream e a ciò che gira in rete. È in grado di polverizzare sul lungo periodo il cosiddetto “porno cattivo”, correggendone gli errori?
Siamo davanti a una sorta di mercato equo-solidale del porno? Tutto qui? Oppure è una trovata per risollevare l’industria del porno e produrre una specie di porno a km0 (che tra l’altro esiste già e viaggia in rete), condito da un discorso più “etico”?
Concludo con un ultimo quesito. Esiste una pornodipendenza anche per le donne? Con tutte le conseguenze del caso?

In questo post ho voluto inserire una serie di domande, di dubbi che spero qualcuno vorrà aiutarmi a dipanare.

Sto studiando un po’ il fenomeno, con letture specifiche. Non saltatemi al collo, a brevissimo proverò a rispondere ad alcuni degli interrogativi che ho espresso in questo post. Se poi vorrete chiamarmi bacchettona, moralista, reazionaria ecc. va bene lo stesso 🙂

 

 

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Donne piccole come stelle

la donna cannone

 

Qui di seguito pubblico la mia traduzione dell’intervento di Rachel Moran al FemiFest 2014 (qui l’originale sul suo profilo FB). Ci sono dei passaggi molto forti, che mi hanno fatto stare male, ma dovevo finire di tradurre, perché queste storie devono essere raccontate. Ogni volta che leggo storie di questo tipo, mi chiedo come si possa ancora voltare la testa dall’altra parte e non cercare di trovare delle soluzioni per strappare queste donne da questo inferno sulla terra. Manca forse la volontà, non solo politica, di sradicare un’abitudine più diffusa di quanto di possa pensare? Come si fa con la gramigna, dobbiamo impegnarci a sradicare la prostituzione. Non ci sono alibi. Questa è violenza e nessuno stato dovrebbe rendersi complice di essa, anzi dovrebbe mettere a disposizione le risorse necessarie per combattere la tratta e lo sfruttamento delle donne da parte di organizzazioni criminali piccole o grandi. Chiedo a coloro che considerano la prostituzione una professione come le altre e che portano avanti proposte di legge in questa direzione, la consigliereste a una figlia, a una nipote o a un’amica? La prenderebbero mai in considerazione per se stesse? Oppure, forse, sarebbe il caso di garantire a tutte le donne una valida alternativa per sopravvivere?

Un’altra annotazione: qualora venga approvata in Italia una legge che riapra le case chiuse e che preveda un registro delle sex workers, per quanti anni una donna potrebbe verosimilmente svolgere questo mestiere? Cosa accadrebbe nel caso volesse smettere? Che futuro lavorativo potrebbe avere? Che diritti lo stato le garantirebbe? Di cosa potrebbe vivere? Non raccontiamo balle, raccontiamo le cose come stanno!

 

Prima di tutto desidero affrontare cosa significa per me il Radical Feminism, in relazione al mio ruolo di attivista abolizionista e, da un punto di vista emotivo, in quanto sopravvissuta al mondo della prostituzione.
Tre anni fa iniziai a scrivere su giornali e blog sotto lo pseudonimo di FreeIrishWoman. Ho notato che i miei scritti venivano largamente diffusi e condivisi da un particolare gruppo di femministe: le femministe radicali. Le storie che raccontavo erano sulle esperienze di una senzatetto, socialmente rinnegata, una prostituta di appena 15 anni, mi sarei aspettata la solidarietà di tutta la comunità femminista. Per fortuna non ero totalmente all’oscuro delle divisioni tra coloro che si definivano femministe, altrimenti sarebbe stato scioccante scoprire che, mentre le mie parole e le mie esperienze venivano condivise dalle femministe radicali, allo stesso tempo venivano ridicolizzate e contestate in merito alla loro autenticità, da coloro che si definivano femministe liberali.
Il femminismo liberale – che sostiene che qualunque cosa faccia una donna è un modo per emanciparsi, purché non abbia una pistola puntata alla tempia – mi è sempre sembrato come un cumulo di scemenze, quindi non posso dire che fossi delusa. Ferita sì e soprattutto irritata. È sia irritante che traumatico per me sapere che c’è un intero esercito di giovani donne bianche, socialmente privilegiate che parlano della prostituzione come un simbolo di emancipazione femminile. Ciò che fanno è emettere delle valutazioni su esperienze che non hanno mai vissuto in prima persona, potendo trascorrere anni a studiare per tenersi lontane da quelle classi sociali le cui donne più facilmente rischiano di fare quel tipo di esperienze, hanno deciso che è una cosa innocua, sicura, nonostante le evidenti prove di quanto possa essere dannosa come esperienza, è per me la forma più ripugnante di ipocrisia.

Talvolta, noi che raccontiamo la verità su cosa sia il commercio globale del sesso ci troviamo vicine alla disperazione, schiacciate sotto il peso dell’opinione pubblica prevalente, immersa nell’ignoranza; sia intenzionale che casuale, in oblio, talvolta istintivamente innocenti, e quando lo sono appare molto più frustrante. Siamo consapevoli di come gli interessi del patriarcato siano al servizio dell’esistenza stessa del commercio globale di sesso e dell’annientamento di innumerevoli vite di donne che si spengono in questo modo. È irritante, pertanto, per tutte noi, ascoltare le femministe liberali che sulla scia del modello patriarcale, ci vogliono vendere l’idea che il nero sia bianco, ribaltando la frittata, e che la schiavitù possa essere liberazione. Confondere il consenso con la liberazione è l’attività di coloro che non sanno che l’oppressione non può funzionare senza di esso. Ma il consenso all’oppressione, il consenso sotto costrizione non è consenso vero e proprio. La coercizione stessa ha trasformato il consenso in qualcosa di diverso e lo ha allontanato dalla sua vera natura. Il consenso sessuale vero non è realizzabile in questo caso. Il consenso sessuale può esistere solo al di là delle regole del commercio; è qualcosa che esula dalla vendita e dall’acquisto. Tuttavia, l’abuso sessuale ha spesso un prezzo e quando ciò accade, noi lo chiamiamo prostituzione.

Sono stanca dell’ignoranza delle donne che non comprendono questo aspetto, ma sorprende qualcuno il fatto che queste donne siano, come ho già detto, bianche, privilegiate e giovani? Dubito che qualcuna delle donne qui presenti si sorprenda di questo dato, perché le persone socialmente privilegiate sono lontane dal tipo di vita di coloro che sono socialmente emarginati, questo è ovvio per chiunque abbia un briciolo di buon senso.

Riconosco che siamo stanchi, frustrati e infuriati, a ragione. Ogni volta che parliamo apertamente, fanno di tutto per chiuderci la bocca. Abbiamo avuto degli esempi nelle ultime settimane. Mentre parlo, ci sono delle fools che lanciano petizioni contro questa conferenza da Edimburgo a Brighton e viceversa. Il consiglio più gentile che posso fare a costoro è di andarsi a rileggere il significato del termine femminista. Naturalmente, dovrei anche consigliargli di ignorare il risultato di tale ricerca, in quanto in molti dizionari il femminismo è trattato come una questione di uguaglianza sessuale, che è come mettere il carro davanti ai buoi. Una donna che crede nell’uguaglianza sociale, economica e politica tra i sessi non è femminista, ma una utopista. Noi non viviamo in quel mondo, noi non abbiamo uguaglianza, e come molte femministe radicali sanno, un prerequisito dell’uguaglianza è lo smantellamento della supremazia maschile. Come prima cosa dobbiamo essere liberate da questo. Allora e solo allora potremo vivere le nostre vite come eguali.

La semplice crudeltà della posizione delle femministe liberali è qualcosa, che a quanto pare, sfugge anche a loro. Il loro atteggiamento è come se dicesse a tutte le sopravvissute che ogni stupro che hanno subito non importa, che ogni sorta di violenza sessuale rientra nei rischi della professione e che gli stupri di gruppo non sarebbero accaduti se ci fosse stata una legislazione ad hoc che li vietava. Bene, ho una notizia per loro: in Germania sono di gran moda i pacchetti che offrono stupri di gruppo e i bordelli a tariffa forfettaria. Per chi non sapesse di cosa si tratta, i bordelli a tariffa forfettaria sono come dei buffet della prostituzione. Gli uomini pagano una “tariffa flat” e possono utilizzare il corpo delle donne per tutto il tempo in cui sono umanamente in grado di reggere. A volte sono associati a pacchetti di stupro di gruppo, per cui cinque, sei o sette uomini arrivano al bordello insieme, pagano la tariffa flat e abusano di una donna fino a quando lei riesce a malapena a stare in piedi. Mi sono arrivate foto scattate nei bordelli tedeschi. Erano di una ragazza di 19 anni, incinta di 7 mesi, stuprata da una mezza dozzina di uomini. Questo è il vero volto del commercio di sesso regolamentato, per cui le femministe liberali combattono.

Qualcuno ha sostenuto, nel corso delle campagne contro questa conferenza, che sto mettendo in pericolo la vita delle donne che si prostituiscono. È significativo come la profondità della loro incomprensione emerga dalle accuse che mi rivolgono. Quando mi prostituivo c’era solo un gruppo di persone che mettevano in pericolo la mia vita e non erano di certo le abolizioniste; erano i clienti; quei clienti che non avranno mai un pompino da quelle femministe liberali che difendono e sostengono i diritti di questi uomini ad avere pompini da altre donne; donne senza risorse economiche, svantaggiate dal punto di vista dell’istruzione, socialmente svantaggiate e emarginate. Dove pensiamo di andare con tutti questi ostacoli? Cosa facciamo con tutta la rabbia inevitabile, una reazione umana intrinseca all’ingiusta accusa di essere definite bugiarde, quando stiamo raccontando la verità? La prima cosa che mi preme dirvi per incoraggiarvi: questa situazione non durerà per sempre. La stessa ipocrisia delle femministe liberali sarà la rovina delle loro argomentazioni. La dottrina secondo cui l’emancipazione può scaturire anche da questo tipo di esperienze (che noi combatteremo con le unghie e con i denti per evitarcela) ha una scadenza. Quale può essere il senso di una cosa che ha una data di scadenza? Per quanto popolare possa essere, permane il fatto che tale dottrina è destinata a deperire – stile Emperor’s New Clothes. In questi ultimi anni mi ha confortata molto (specialmente negli ultimi 18 mesi da quando il mio libro, Paid for, è stato pubblicato) non solo dalle verità che ho raccontato io, ma anche da quelle raccontate da tante altre donne che non hanno vissuto queste esperienze ma le hanno fatte conoscere. Sono confortata dal fatto che sorgono continuamente nuovi movimenti abolizionisti, anche laddove non esistevano, ho notato che laddove è avvenuto un rafforzamento dell’abolizionismo, si sono verificate delle collaborazioni tra movimento abolizionista e movimento femminista radicale, o quanto meno una forte adesione dell’abolizionismo ai principi del femminismo radicale.

La verità è che le femministe radicali stanno dal lato giusto della storia, sono le uniche femministe che hanno il quadro completo, e ne conoscono le ragioni. Le femministe socialiste hanno il mio rispetto, ma non hanno ben chiaro il quadro completo. La prostituzione non esiste come conseguenza della privazione dei diritti economici delle donne. La povertà è un fattore di sostegno. Non la causa. I fattori di sostegno non sono le cause di un fatto. Sono semplicemente dei fattori che supportano un fenomeno. La prostituzione esiste per un solo motivo: il motivo è la domanda maschile. Nessun grado di povertà da solo sarebbe in grado di generare la prostituzione, se non esistesse la domanda di sesso da parte degli uomini.

Oggi chiedo a tutte le donne presenti sostegno e collaborazione nella lotta contro questo flagello che pesa quasi esclusivamente su ragazze e sulle donne. Noi dobbiamo combattere questo (flagello), non strappandone le foglie, non potandone i rami e nemmeno tagliandone il tronco, dobbiamo sradicarlo partendo dalle sue radici. Per quanto questa impresa possa sembrare ardua e scoraggiante, abbiamo già gli strumenti per realizzarla. Per fortuna non siamo totalmente confuse come le femministe liberali, né zoppichiamo nel comprendere come le socialiste. Noi sappiamo che la prostituzione è sia una conseguenza che un emblema della subordinazione delle donne, la comprensione di questo è il punto di partenza da cui partire per smantellarla. È molto importante non cedere mai in questa battaglia. Non dobbiamo mai cedere alle tattiche delle lobby pro-prostituzione, la prima delle quali è far finta che la prostituzione non sia una questione morale. Permettetemi di dire a voi e a tutto il mondo: puoi essere dannatamente certo che la prostituzione sia una questione morale, i diritti umani lo sono sempre.

Secondo la lobby pro-prostituzione, gli abolizionisti sono impegnati in una “crociata morale” per liberare il mondo dalla prostituzione. “Crociata” è usata qui in termini dispregiativi e viene collegata alla morale in modo tale da conferirle un senso di scherno sprezzante. La morale in sé, ci viene detto, è qualcosa di negativo, infondato e pertanto sbagliato. Sinceramente la follia sta nell’affermare che discernere tra giusto e sbagliato sia una pratica errata, cosa che sembra sfuggire ad alcune persone.

Sono stanca di sentire persone che aprono le loro argomentazioni abolizioniste dicendo “io non sono una moralista, ma…” Siamo tutti moralisti, a meno che non siamo psicopatici, e da quando in qua la moralità è una parolaccia? La risposta è questa: la morale è diventata una parola sporca in quanto tipica di alcune persone che girano la testa dall’altra parte (facendo finta di non vedere, ndr) e fingono che la morale sia abrogata e senza valore in questi casi; e troverete, di volta in volta, che le persone che sposano quelle tesi stanno difendendo qualcosa di chiaramente sbagliato, pertanto la loro continua insistenza non dovrebbe avere alcuna chance.

Vi è un’altra affermazione senza senso, secondo cui chi si oppone alla prostituzione lo faccia sulla base di posizioni di tipo religioso, come se non esistessero atei dotati di senso etico. I principi morali che influenzano e governano la condotta umana spesso si fondano su un innato senso di cosa sia un comportamento umano dannoso o meno. La prostituzione è dannosa per la psiche umana a ogni livello concepibile; è proprio la sua dannosa e degradante natura che dà origine al senso immediato di opposizione che proviamo quando immaginiamo la prostituzione come un aspetto nella vita delle donne che amiamo (la sua natura dannosa rende inconcepibile accettare che la donna che amiamo si possa prostituire, ndr).
Cerchiamo pertanto di impegnarci sui seguenti punti: che la prostituzione esiste a causa della domanda di sesso maschile, che conosciamo perfettamente e non sarà scossa dal fatto che noi affermiamo quanto sia assolutamente sbagliata. C’è un motivo per cui dobbiamo combattere con costanza facendo perno su questi punti; il motivo è che i nostri avversari sanno che possiamo avere la meglio.

Lasciatemi ripetere che oggi sono qui a chiedere il vostro sostegno nella lotta contro la prostituzione. Questo è un invito all’azione. In tutta Europa, i nostri politici stanno iniziando a discutere sempre più spesso in merito di prostituzione, e proprio lo scorso febbraio il Parlamento europeo ha votato a stragrande maggioranza l’approvazione dell’Honeyball report, che richiede un’ampia adozione del modello nordico da parte dei paesi membri dell’UE. Quando i vostri politici ne parlano, sosteneteli; e se non ne parlano, incoraggiateli a farlo. Quando vi accorgete di una campagna abolizionista che viene lanciata – e ne vedrete sempre di più; il movimento abolizionista sta crescendo – per favore date una mano, donando il vostro tempo, le vostre energie e fatevi sentire.

Sto lavorando con il gruppo SPACE International. SPACE è l’acronimo di ‘Survivors of Prostitution-Abuse Calling for Enlightenment’. La nostra azione copre al momento 7 paesi e tutte noi stiamo facendo un enorme sacrificio per parlare pubblicamente delle violenze che abbiamo subito e delle nostre esperienze nel mondo della prostituzione. Abbiamo amici e alleati in diverse organizzazioni internazionali e stiamo guadagnando terreno, ma non possiamo fare tutto ciò senza il sostegno delle donne in pubblico. Vi invito a unirvi a RadFemUK o a gruppi simili, e di sostenere le loro azioni, condividendo e diffondendo i loro materiali e le loro campagne. Abbiamo bisogno di un’ondata di sostegno da parte delle donne, ma forse prima che ciò accada, abbiamo bisogno di ricordare che i corpi delle loro figlie sarebbero altrettanto graditi nei bordelli e nei quartieri a luci rosse così come lo sono stati i nostri, nel caso in cui le circostanze della vita dovessero portarle in quella direzione.
Rachel Moran

 

P.S.

Il titolo di questo post è tratto da una canzone di Mia Martini, scritta da Enzo Gragnaniello (qui, tutta da ascoltare).

L’immagine è tratta dalla copertina de La donna cannone di Francesco De Gregori.

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Zone d’ombra

 

Oggi desidero proporvi un articolo, pubblicato a ottobre in Italia su Internazionale. L’autrice è Lydia Cacho, una giornalista messicana, autrice de I demoni dell’Eden. Il potere che protegge la pornografia infantile (Fandango Libri, 2014).

 

Dal 1993 il Messico include i “servizi sessuali” nel suo Sistema contabile nazionale (Scn), che è usato anche per determinare il prodotto interno lordo del paese. Secondo questi dati, i servizi sessuali calcolati corrispondono solo allo 0,5 per cento del pil. Ma come possiamo essere sicuri che questa cifra non comprenda le vittime della tratta di esseri umani? Viviamo all’interno di un doppio discorso, con l’Scn che calcola il contributo dei servizi sessuali all’economia formale e i politici messicani che da una parte vogliono perpetuare un modello di famiglia tradizionale e dall’altro se la spassano organizzando orge private durante le riunioni di lavoro. Chi lavora nell’industria del sesso a pagamento ha dei diritti civili che devono essere rispettati, questo è indiscutibile. Ma chi è convinto che la tratta di esseri umani scomparirà con la legalizzazione dei servizi sessuali si sbaglia di grosso.
Certo, è possibile considerare i servizi sessuali un’attività lecita in cui il corpo è uno strumento di lavoro, e sostenere che chi esercita quest’attività deve pagare le tasse, dev’essere tutelato e non dev’essere perseguito dalla giustizia. Ma questo punto di vista non tiene conto dei meccanismi culturali ed economici che reggono questa industria. C’è chi sostiene che nel capitalismo tutto è soggetto a un certo grado di schiavitù, di sessismo e di classismo, per cui nessuno dovrebbe pretendere che la prostituzione ne sia del tutto esente. Ma sono proprio lo squilibrio di potere, l’androcentrismo e lo sfruttamento di un modo di pensare che mercifica le donne invece del desiderio erotico a permettere a quest’industria di fatturare più di quindici miliardi di dollari all’anno.

È un’illusione credere che la piena legalizzazione del sesso a pagamento porterà la società a non discriminare chi si dedica a quest’attività. Ci sono preconcetti culturali radicati nella discriminazione di genere che sono estremamente difficili da eliminare dal discorso pubblico. D’altro canto, l’industria del sesso a pagamento vive e si rafforza grazie al perpetuarsi del maschilismo e al tabù del proibito, e presenta la sessualità come una fantasia basata sulla trasgressione.

L’industria del sesso non avrebbe un giro d’affari di miliardi di dollari se non rappresentasse una sfida alla morale pubblica entrare in un sexy shop dove un vibratore costa cento dollari e i film più venduti giocano con l’idea del proibito. Le barely teens, ragazzine protagoniste di orge con uomini adulti, l’hard sex, un’espressione usata dall’industria del sesso per celebrare lo stupro, o il sadomasochismo bondage che spaccia l’idea che la violenza intesa come un gioco con delle regole precise sia il miglior modo per mantenere la passione in una coppia: sono queste le cose che rendono di più dopo la prostituzione vera e propria nei locali notturni.

Il fatto è che, con la diffusione della pornografia gratuita e la rottura dei limiti della trasgressione su internet, chi vuole farsi pagare va in cerca di nuovi mercati nel porno adolescente (con attrici che hanno appena compiuto diciotto anni ma che ne dimostrano quattordici o quindici). L’industria del sesso a pagamento riproduce la cultura tradizionale, ma crea anche nuovi paradigmi di comportamento erotico.

Ecco perché è impossibile discutere della legalizzazione dei servizi sessuali senza parlare dei club, dei bordelli e della pornografia che sono sempre stati canali di riciclaggio del denaro sporco per le mafie e gli imprenditori corrotti. Insomma: se i servizi sessuali rientrano nel calcolo del pil, bisognerebbe smettere di affrontarne solo alcuni aspetti e rendere più trasparente tutto il settore. Ma questo è quasi impossibile, perché a muovere l’industria del sesso è anche l’opacità e perché il proibizionismo aumenta le vendite.

Le organizzazioni internazionali dei servizi sessuali e l’industria del sesso sostengono che le critiche sono frutto di una morale religiosa limitata e sessuofoba che nega i loro diritti civili. Il paradosso è che non vogliono uscire davvero alla luce e diventare del tutto legali, ma pretendono che lo facciano le donne, e solo in parte. È proprio questa la trappola dietro cui si nasconde il potere dei trafficanti di esseri umani.

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Senza nome, senza volto

Matisse - Viso senza volto

Matisse – Viso senza volto

 

La comunità internazionale in questi giorni si è mobilitata per l’attacco a Charlie Hebdo. Contemporaneamente, e purtroppo già da molto tempo, i media occidentali sembrano dare meno importanza e rilievo a ciò che accade per esempio in Nigeria ad opera del gruppo terroristico Boko Haram. Nessuna insurrezione di massa, nessuna indignazione collettiva. Ci siamo forse dimenticati le studentesse ancora prigioniere? Quanto è durato l’interesse per #BringBackOurGirls?
Sono in pochi a dedicargli ancora attenzione. Ringrazio Narrazioni Differenti per questo recente post.
Riporto da un articolo di Internazionale:

“Ignatius Kaigama, l’arcivescovo della diocesi di Jos, capitale dello stato di Plateau, nella Nigeria centrale, in un’intervista alla Bbc ha accusato l’occidente di ignorare la minaccia del gruppo terroristico Boko haram. “La comunità internazionale dovrebbe avere lo stesso spirito e la stessa determinazione mostrati dopo gli attacchi in Francia”, ha detto l’arcivescovo dopo una nuova serie di attentati che ha colpito il nordest della Nigeria a Potiskum e Maiduguri, in cui in totale sono morte 23 persone.

 

Tutti noi dovremmo dare un forte segnale, per queste bambine che non diventeranno mai donne. Per ricordare le loro giovani vite rese strumento di morte e di terrore. Perché questi episodi non si moltiplichino e non si faccia uso delle anime e dei corpi di altre innocenti. Per chi non ha scelta.
Perché non basta sfilare per Parigi, se non c’è niente di sincero dietro. Che senso ha quando laicità e libertà si sbandierano solo all’occorrenza, una tantum, ma nella prassi quotidiana sono spesso ripudiate da molti di quei capi di stato e rappresentanti che sfilavano ieri a Parigi e non solo?
Mi dispiace, ma oggi non mi interrogherò su donne velate o su coloro che hanno un volto e un nome, sulle storie conosciute e riportate in questi giorni dai media. Non mi preoccuperò di scandagliare lo scontro tra civiltà e culture; né le difficoltà di una integrazione fallita nelle nostre tronfie società occidentali che si ergono a faro dell’intera umanità; né i miraggi di successo che si sono scontrati con una realtà che non fa regali a nessuno, se non nasci bene. Lascio queste analisi a chi ha o dovrebbe avere conoscenze e saperi specifici. Vorrei però esprimere ciò che penso.
Non c’è un noi e loro, no. Se iniziamo ancora una volta a tracciare la linea di confine commettiamo un errore enorme, perché strumentale a demarcare le parti. Un fronte ideologico a vessillo e a giustificazione di una guerra e di un nuovo scontro. Penso che forse occorrerebbe tornare all’essenziale, agli esseri umani, al valore della loro vita, prima di interrogarci sui costumi (legati al tempo storico) e sulle culture. Perché valori e culture sono elementi che vanno costruiti costantemente e non si possono imporre. Perché rischiamo di perderci le persone in carne ed ossa, con le loro aspettative, le loro storie e le loro unicità. Perché potremmo giungere a chiuderci a riccio senza tentare di comprendere la situazione che stiamo vivendo. Ammassare individui di qua o di là, in base alla cultura, alla religione, all’etnia ha sempre portato a tragedie immense. Ecco, nel mio piccolo penso che si debba fare un passo verso l’essenziale, verso l’importanza e verso l’unicità di ciascun essere umano.

Detto questo, qui, oggi, da questo micro spazio, voglio semplicemente ricordare tutte quelle bambine, ragazze e giovani donne che hanno subito sulla loro pelle le violenze e le conseguenze di queste folli azioni terroristiche. Bambine imbottite di esplosivo per esplodere a comando, svuotate della propria identità, della propria possibilità di scegliere, disumanizzate, rese armi azionate a distanza, piccole donne a cui è stato strappato un futuro, vittime di gruppi terroristici senza scrupoli. Le loro storie, i loro sogni, i loro nomi, le loro voci, i loro sorrisi e le loro lacrime, i loro volti che nessuno conoscerà mai e di cui nessuno si interesserà mai abbastanza. Ecco, oggi lo dedico a loro, a chi non c’è più e a coloro che ci auguriamo tornino presto a riabbracciare i loro cari. Che possa arrivarvi il mio abbraccio ovunque voi siate!

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Ascoltateci

Man Ray – Venus restaurée – 1936-71

Man Ray – Venus restaurée

In questi ultimi giorni sto leggendo numerosi commenti sul parto, sull’episiotomia e su come a volte non si tiene in considerazione la donna e non la si renda partecipe del momento (qui un post dal blog Le Amazzoni Furiose). Non parlerò di aspetti medici, non sono un medico e non entro nelle valutazioni di ciascun medico. Sul Web ci sono documenti a sufficienza per farsi un’opinione. Vi segnalo questa inchiesta de La Repubblica.
Quello che desidero fare è raccontarvi la mia esperienza, una tra le tantissime, ognuna diversissima dalle altre, ognuna può dare il suo contributo, ma è sempre e soltanto una storia. Il parto di per sé non è una passeggiata di salute, è faticoso, un momento speciale, unico, ma anche molto delicato. Altrimenti non ci sarebbero state così tante complicazioni e morti nei secoli. Oggi, nei Paesi medicalmente evoluti, non ce ne ricordiamo più, ma il parto, ripeto, è tuttora una fase delicatissima e piena di incognite.
Ogni esperienza è a sé, sono tanti, troppi i fattori coinvolti per poter fare paragoni.

Io sono nata con un cesareo e probabilmente non sarei qui senza di esso. Ma questa è la storia che mi ha portato a nascere.

Ora passo a quella che ha portato alla nascita di mia figlia.

Mi si sono rotte le acque a mezzanotte. Nella mia immaginazione da primipara, pensavo che la cosa si sarebbe risolta in una mezza giornata. Arrivo in ospedale, controlli vari, zero dilatazione, contrazioni deboli. Vengo invitata ad attendere. Mi trovano un posto letto solo la mattina successiva, prima barella. Non dormo, aspettando le contrazioni, ma anche ascoltando le urla delle partorienti.
Mattina. Nessun segnale di contrazioni significative o dilatazione. La prassi medica prevede una attesa di 24 ore prima che avvenga l’induzione artificiale del parto (con il gel prostaglandinico o la flebo di ossitocina, più varie ed eventuali). Aspetto. In stanza con me c’è una donna che attende l’induzione da prima di me, ha rotto le acque circa una mezza giornata prima di me. Anche lei primipara. Premetto che siamo in un ospedale pubblico, con un settore a pagamento per chi desidera un trattamento di categoria “superiore”. Ma noi siamo nel settore pubblico. Siamo un po’ abbandonate a noi stesse, monitorate, ma nessuno ci viene a parlare e nessuno ci spiega più di tanto. Non c’è altro che aspettare ed entrambe siamo fiduciose. Il motivo di questo “abbandono” è il numero dei cesarei programmati per quel giorno, che si susseguono ininterrottamente. Si parla di 9 cesarei programmati, che si cumulano a quelli naturali e ai cesarei d’urgenza. Noi siamo ancora nella fase iniziale, per cui possiamo attendere. Intanto, alla mia compagna di stanza iniziano a iniettare gel. La sera, ancora nessun segno. Sono passate per lei più di 24 ore. Lei richiede un medico che la venga a visitare. Sì, perché devi farti sentire, a volte, per essere considerata. Se stai in silenzio e aspetti, seguono semplicemente i protocolli e non ti spiegano niente. Ma questo dipende dall’ospedale, dal personale che incontri e da tanti altri fattori, incluso la giornata. Insomma, tutto molto casuale. Alla fine, lei firma, sotto sua responsabilità, per un cesareo. Mi diranno poi che una buona percentuale delle induzioni si risolve in un cesareo. Non sempre l’induzione funziona. La discussione tra questa povera mamma e il medico, è stata dolorosa, anche perché io stavo vivendo la stessa cosa. Le sue paure e le sue domande erano anche le mie. Probabilmente alcuni sottovalutano l’importanza degli aspetti emotivi e di un trattamento umano e solidale in certi frangenti. Quanto meno spiegateci cosa sta accadendo. Prendersi cura di un/a paziente non è semplicemente seguire un protocollo o guardare le tabelle annuali da rispettare, che ti prescrivono un tot numero di cesarei o di altre pratiche mediche. C’è stato un netto tentativo da parte del medico di convincere la donna a non fare il cesareo, nonostante l’evidente stanchezza della donna e i tempi che si erano allungati a dismisura. La mia compagna di stanza cercava di avere delle risposte, un aiuto, ma le venivano solo prospettati gli aspetti più negativi del cesareo. La mattina successiva le faranno il cesareo, con risultati pessimi. Ha rischiato grosso e anche il bambino. Non so cosa sia successo nei dettagli medici, ma io ho assistito a un vero e proprio rimprovero, condito da minacce nei confronti della partoriente. Le hanno descritto l’operazione, con dovizia di particolari, prospettandole solo il peggio. La scelta della donna, è vero, spesso non è contemplata. Così come quando liquidano la tua sofferenza, con la frase “signora, lei ha una soglia del dolore molto bassa”. Sarà anche bassa, ma è la mia e tu medico mi devi aiutare, non sto inventando niente e tu non puoi sapere come sto. Quel sorrisetto sardonico del medico e la frase, firmi il modulo, ha scelto il cesareo e si renderà conto… non la dimenticherò mai.
Io chiedo informazioni in merito alla mia situazione, mi viene risposto, “non vorrà anche lei un cesareo?”
A mezzanotte chiedo e ottengo l’induzione con gel. Naturalmente, se mi fossi stata zitta, sarebbe giunta la mattina senza che nessuno mi degnasse di considerazione. Passo la notte fino alle 3 ad ascoltare i parti altrui, o meglio le urla. Alle 3 iniziano le contrazioni, sono in stanza al buio, chiamo, mi arriva solo una gentilissima donna para-medico che cerca di aiutarmi, quanto meno ho avuto un sostegno morale. Nessun medico. Dovevo stare buona e aspettare in silenzio, al buio, con le doglie. Arrivo faticosamente alla mattina. Dilatazione poca. Non avevo dormito per niente. Chiedo e ottengo l’epidurale, che mi viene “concessa” per riposarmi un po’ in vista del parto. L’anestesista borbotta un po’ perché non trova spazio a sufficienza per inserirmi il sondino: “Colpa della mia colonna vertebrale”. Alla fine ci riesce. È una scelta che ho compiuto sul momento, ero spossata e nessuno riusciva a dirmi quanto tempo avrei impiegato per partorire. Qualcuno finalmente mi ascoltò e si rese conto che senza forze e senza sonno non avrei avuto l’energia per il parto. Nella fase finale del parto l’effetto dell’epidurale non si sarebbe più sentito, ma mi è servito per riprendere le forze per un paio d’ore prima della fase espulsiva. Mi riprendo, per modo di dire. Arrivo anche alle iniezioni di ossitocina. Inizia immediatamente la fase finale, ci metto un’oretta per la fase espulsiva. Ma per me dura molto meno, il tempo per fortuna vola. Ho urlato un paio di volte, ma poi dietro consiglio dell’ostetrica, mi sono resa conto di quanto fosse meglio investire fiato ed energie nella spinta e in una respirazione adeguata. Mi sono concentrata sulle voci della mia ostetrica e di mio marito, indispensabili e preziose. Non ringrazierò mai abbastanza la mia ostetrica, che mi parlava della sua Argentina, per distrarmi. Mi hanno praticato l’episiotomia (l’ostetrica, non un medico), senza chiedermelo, ma mi sono fidata e in quel momento non ero molto lucida, non sarei stata in grado di prendere decisioni. Ho cercato durante la gravidanza di fare esercizi per aumentare l’elasticità del pavimento pelvico, di mettere creme ecc. A me non son serviti, ma ritengo che sia una questione personale, soggettiva. Ad altre può servire, ma ripeto ogni donna e ogni parto parlano per sé. Non si possono fare paragoni. L’episiotomia non mi ha causato problemi seri, magari tra qualche anno soffrirò di incontinenza, non posso saperlo. In una settimana non sentivo più i dolori dei punti (che si assorbono da soli e non è necessario che qualcuno te li tolga). Quando mi hanno messo i punti (un infermiere) non me ne accorgevo perché ero troppo emozionata e impegnata a guardare il visino della mia piccola. Ho avuto altri dolori, come quelli causati dallo sforzo di un parto supino “tradizionale” o dal seno “congestionato” e dolorante per le ragadi. Ognuna ha i suoi dolori, i suoi problemi. Ognuna ha le sue esperienze da raccontare. L’unica cosa che chiedo è: ascoltate di più le donne. Se lamentiamo un dolore, ascoltateci, aiutateci, non dateci “delle matte”, non diteci che siamo ipersensibili. Parlateci di più e ascoltate seriamente ciò che abbiamo da dirvi. Se vi poniamo delle domande, dateci delle risposte, ci aiuteranno a capire. Questo agevolerebbe anche il lavoro dei medici.

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The highest of values

Simone de Beauvoir

 

Oggi, nel 1908 nasceva Simone De Beauvoir.
Ritengo che lo studio e la lettura di testi, di articoli e di saggi siano dei passaggi imprescindibili per una maturazione personale e una presa di coscienza di sé, come donna. Questo discorso vale per tutti gli esseri umani, ma a maggior ragione per le donne, per secoli escluse o scoraggiate. Appunto la cultura. Vale per tutte le età della vita. Per evitare il pressappochismo, l’affastellamento di pregiudizi e di preconcetti, per crescere, l’unico modo è cercare risposte, attraverso anche le riflessioni di altre donne, di altre persone che prima di noi hanno fatto un percorso del pensiero e ci possono fornire gli strumenti per poter portare avanti un ragionamento autonomo. Questo preambolo perché? Di recente, parlando con una donna che sostiene di aver partecipato alle lotte storiche del femminismo (mi chiedo a cosa, visto che è una convinta antiabortista e sostenitrice dei valori tradizionali) sono rimasta basita dal suo rifiuto categorico dello studio, delle letture, lei buttava alle ortiche filosofe e storiche, pensatrici ecc. Perché? Perché secondo lei l’esperienza personale, il racconto di sé, ha maggior valore. Mi ha detto che lei “non ha voglia di perder tempo a studiare, tanto meno leggere, perché non le interessa leggere le altre, ma vale il vissuto, la parabola personale, il sentito dire, l’illusione di sapere perché si ha una vita alle spalle e non si accettano proposte, interpretazioni, idee diverse da quelle che da sempre abitano la propria testa”. Mi è stato velatamente fatto capire che “le mie” Simone de Beavouir & Co. mi conviene metterle nel cassetto o da qualche altra parte, perché, “chi se ne frega, avranno anche scritto tanto, ma a me non importa una beata fava di queste robe, ci sono le esperienze di vita vissuta che valgono e sono più che sufficienti per illuminarci la strada”. Vuoi mettere le esperienze del vissuto di questa donna con secoli di pensiero filosofico? “Non ho tempo per leggere nemmeno un articolo di giornale”, o “meglio non ne ho voglia e non trovo il tempo”, “non mi appassiona leggere”. Ecco che il pensiero individuale, il frullato di pregiudizi e di un’ottica egocentrica, ci portano unicamente verso un muro, un muro composto da noi, solo noi. In questo modo si è disposti solo teoricamente a mettersi in relazione e a confronto con l’altro o l’altra, restando saldamente ancorati al nostro io. Si sostiene che: “Bisogna mettersi dalla parte delle altre, ma senza dimenticare la propria”, che viene prima di tutto e tutti. Si comprende che la spinta verso l’altr* è solo di facciata, perché al centro di tutto c’è la propria persona, per la serie “se sostenere l’altra parte mi conviene, ok, lo faccio, se non ho un tornaconto personale, incrocio le braccia”. Un afflato altruista di una ipocrisia corrosiva. Io con questo tipo di persone smetto di investire le mie energie. Non ha senso parlare con una persona che crede di essere il verbo e che basta a se stessa. Sapete cosa sarebbe stato il femminismo senza lo studio della storia, della filosofia e dei classici del pensiero? Nulla, un pulviscolo fatto di opinioni personali come tante chiacchiere da bar. Se oggi è una galassia di movimenti culturali, lo si deve allo studio che per anni chi più chi meno ha dedicato. Oggi, sentirmi dire che l’azione politica e la prassi politica possa essere scevra da un lavoro teorico, mi fa venire voglia di dedicarmi allo studio delle riviste di gossip che si troviamo dal parrucchiere. Meglio parlare della nostalgia dell’Argentina di Tévez. Inizio a pensare che forse la banalizzazione e la liquefazione di una riflessione seria siano molto più diffuse di quanto pensassi. Continuerò il mio cammino altrove, possibilmente tra persone che non guardano inorridite un libro. Ecco perché così tante donne oggi non hanno bisogno di femminismo. Perché gli basta la vulgata che gli passano gli uomini e che da secoli il patriarcato diffonde a piene mani. Siamo immerse in questa non cultura, in questo parlare senza niente dietro. Io non ci sto. Perché poi mi sento anche dire che tutto sommato, un po’ di prostituzione non guasta, c’è sempre stata e sempre sarà così, che le posizioni abolizioniste non hanno poi tanto ragione, pensiamo agli uomini, poverini. Meglio, magari riaprire le sane case chiuse e lasciare che sia. Chi ha la sfortuna di incappare nel mondo della prostituzione, fatti suoi. Qualcuna si dovrà sacrificare, “si sa come sono fatti gli uomini”. Che non è poi tanto giusto punire i clienti. Mi torna in mente Mandeville a proposito della prostituzione: “E’ chiaro che v’è necessità di sacrificare una parte delle donne per salvare l’altra e prevenire sconcezze di natura più disgustosa”. Son passati secoli, ma c’è chi ancora parla in questi termini. Il problema è in primis una questione maschile, ma ci siamo dentro anche noi donne, sempre pronte a difendere il vecchio marciume patriarcale, a scusare l’uomo e le sue mille forme di violenza.

Leggere ti apre la mente e ti fa uscire dal tuo mono-pensiero che vuole assurgere a regola e ad assunto universale, valido a priori perché è uscito dalla tua testa. Non tutto ciò che la nostra testa e il nostro vissuto ci forniscono è valido e lo è universalmente. Leggere ci consente di riflettere e di far lavorare il nostro senso critico. La lettura ci consente di non essere passive. Leggere ci rende libere e non schiave di qualcosa o di qualcuno.

Buon viaggio, io vado avanti con le mie letture, con il piacere che provo condividendole con altr*.

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No quiero hijos

Dora Maar - 1936,  Man Ray

Dora Maar – 1936, Man Ray

 

Il tema di oggi è: essere o non essere madri.
Ne avevo già parlato in altri post. Soprattutto, avevo segnalato il bel lavoro di Eleonora Cirant, importante perché ha in qualche modo aperto la strada nel 2012 a un dibattito su questa tematica, lasciando che fossero le stesse donne a parlare nel suo libro “Una su cinque non lo fa. Maternità e altre scelte”. Ottimi anche gli incontri che Eleonora organizza in giro per parlare del suo lavoro in maniera “circolare” e aperta. Momenti ricchi di spunti di riflessione.

Di recente sono nati due documentari dedicati: Stato interessante e Lunàdigas (in uscita il 22 gennaio). Il secondo accoglie anche le testimonianze di donne “note” al pubblico. Personalmente, preferisco maggiormente progetti come quello di Cirant e di Stato interessante, mi appaiono più autentici e perciò li sento più vicini.

Torno sul tema traducendo questo articolo (qui l’originale) di Cristina Fernández-Pereda e Cristina Galindo Galiana, pubblicato su El Pais Semanal, lo scorso 6 dicembre.

La scelta di non avere figli è diventata sempre più diffusa nei paesi occidentali. Molte donne preferiscono concentrarsi sulla vita personale e professionale, piuttosto che affrontare ciò che comporta essere madre. Negli Usa, dove questo tipo di scelta è maggiormente diffusa, una donna su cinque supera l’età fertile senza avere avuto figli (negli anni Settanta era una su dieci), sia per motivi socio-economici, che dovuti alle circostanze (non aver incontrato la persona giusta) o per problemi di fertilità. L’Europa segue lo stesso andamento, dove la Germania segna una delle maggiori percentuali mondiali di non madri. I sostenitori di una vita senza figli difendono con orgoglio la loro scelta. Ma permane la pressione sociale affinché si facciano figli.
Melanie Notkin affronta questo aspetto quotidianamente. Nel suo libro The Otherwood, il termine che l’autrice nordamericana ha adoperato per riferirsi alle “altre donne”, è un grido che descrive la realtà di migliaia di ragazze attorno ai 30 anni, che, come lei, si trovano ad affrontare la stessa domanda da parte di amici, familiari, colleghi di lavoro e anche sconosciuti: quando diventerai madre? Notkin ha deciso di raccontare la verità sulle donne senza figli, tre anni fa, quando ha iniziato a collaborare con Huffington Post. “Molti sostengono che si può anche fare figli da sole”, ha spiegato da New York, “sei troppo esigente… ma la soluzione non è così semplice”. Le donne che scelgono di non essere madri sono più di quello che appaiono, non si sentono rappresentate e come Notkin, hanno deciso di parlare attraverso un libro, dei documentari o su internet.
Negli Usa, questo dibattito ha avuto una diffusione pubblica maggiore rispetto a quanto accada in Europa. “Se avessi dei figli, mi odierebbero”, ha dichiarato la presentatrice Oprah Winfrey, 60 anni. “Non ho figli, ma la mia vita è stata soddisfacente. Lo sarebbe stata anche se avessi avuto dei figli”, ha affermato Condoleezza Rice, ex segretaria di stato sotto l’amministrazione Bush, (anche lei di 60 anni). Nel suo saggio, No quiero hijos. ¿Estoy loca? ¿Por qué nadie me deja en paz?, la blogger statunitense Gala Darling sostiene che ci sono altre cose che puoi fare nel corso della tua vita” e che l’unica cosa scomoda è che chi ascolta la tua risposta sembra conoscerla meglio di te. Darling indica due punti chiave dell’affermazione: “La società si aspetta che le donne abbiano figli (…). Dovrebbe essere una questione di rispetto; quando dici di non volerne, dovrebbe essere sufficiente a chiudere la conversazione.
La realtà è che questo accade raramente. È qualcosa che colpisce sia le donne che sanno di non poter aver figli che coloro che sperano di esserlo in futuro, in un momento che non è ancora giunto. Tabitha, la blogger di Geektastic, ha denunciato, come molte altre blogger, la sensazione di intrusione quando qualcuno le domanda perché non ha figli. “Quando sarai madre capirai” o “Cambierai sicuramente idea”, sono alcune delle risposte più frequenti che si ricevono. “Può non essere la loro intenzione, ma quando mi rispondono che cambierò idea, è come se mi stessero dicendo che la mia scelta non è giusta, e che non è il caso”. A volte certi commenti vengono fatti anche se non richiesti. Beth Lapides mentre si trovava dal suo fisioterapista, lamentandosi per il dolore, si sentì rispondere così: “non sopporti niente, meno male che non hai figli”. Nel suo saggio, riportato nel libro No es broma, escritoras que se saltan la maternidad, Lapides si chiede anche se tale affermazione sia legale.

Notkin spiega che, attraverso la propria esperienza e i dati raccolti per il suo libro, è riuscita a comprendere perché così tante donne sopra i 35 anni non abbiano figli, non solo per scelta, ma a causa delle circostanze. “Desiderano fare ciò che è giusto per loro”, dice. “Sono moderne, libere, indipendenti e vorrebbero anche dei figli, ma sono una maggioranza silenziosa”. Un’indagine condotta da Catherine Hakim, una sociologa britannica, in 25 paesi ha concluso che la decisione di non avere volontariamente figli è più diffusa tra gli uomini che tra le donne. Sommando i due generi, risulta che meno del 10% delle persone lo ha fatto per scelta.

Tra le donne statunitensi, di età compresa tra i 40 e i 44 anni, il 18% non sono madri, rispetto al 10% del 1976 (1,9 milioni di donne, rispetto alle 580.000 del 1976), secondo il Centro Pew de Investigaciones. Questa tendenza è simile in Spagna (il 18,1% delle donne tra i 40 e i 44 anni non hanno figli), Francia (20,6%), Finlandia (28,8%) e Germania (che detiene il record con il 33,6%), secondo i dati dell’OCSE. Nelle statistiche è difficile capire quante non sono madri per scelta. “L’assenza di figli sembra essere correlata alla formazione”, secondo l’OCSE. Per esempio, in Svizzera, circa il 21% delle donne di 40 anni non ha figli, ma questa percentuale arriva fino al 40% nel caso di donne con livelli di istruzione superiori. Nel suo libro Las mujeres sin sombra o la deuda imposible. La decisión de no ser madre, la psichiatra francese Geneviève Serre ha tracciato il profilo di coloro che scelgono di non aver figli: laureata, dirigente, vive nei centri urbani.

 

L’influenza dell’aumento del grado di istruzione sembra emergere anche in Italia (qui) secondo una indagine condotta da GfK Eurisko (ndr).

Per le donne che temono di pentirsi, o che semplicemente desiderano rinviare la gravidanza, la scienza ha messo a disposizione la crioconservazione degli ovuli. Gli studi legali sono stati i primi a fornire queste tecniche nel loro portafoglio di benefici salariali, con controlli e assicurazione medica. Di recente la stessa prassi, messa in atto da Facebook e Apple, ha destato molto clamore. I difensori di queste iniziative considerano la necessità di un crescente bisogno di una libera scelta all’interno della forza lavoro femminile. Per i suoi critici, queste pratiche sono una forma indiretta per convincere i propri dipendenti a non fare figli, invece di facilitare misure di conciliazione tra maternità e carriera.

“Abbiamo bisogno di ridefinire il concetto di famiglia e di riconoscere che le donne hanno un valore che va oltre la loro capacità procreativa”, denuncia Laura Scott che nel 2003 creò Childless by Choice, un progetto per indagare sulle ragioni per cui le donne, come lei, avevano deciso di non essere madri. Scott e Notkin concordano sul fatto che la maggior parte delle donne sperano di diventare madri tra i 25 e i 35 anni, ma per varie circostanze sono costrette a rinviare e quando raggiungono i 45 anni non lo desiderano più. “Altre, al contrario, lo hanno deciso già molto tempo prima” dice Scott.
“L’istruzione è un fattore, ma anche l’aspetto economico conta”, ha detto, riferendosi anche ai debiti contratti per pagare gli studi universitari. Notkin concorda sul fatto che la situazione attuale è il risultato del fatto che le donne stanno compiendo scelte molto più varie rispetto a quelle che ci si attendeva da loro. Assicura che sulla base delle conversazioni correnti su blog tra migliaia di donne, sui forum e attraverso i libri, può sembrare “più femminista” dire di non avere figli, come se fosse la scelta più autentica, quando in realtà si tratta di un processo più complesso.
Avere o non avere figli è oggi meno associato all’identità femminile rispetto a quanto accadeva 50 anni fa, si è compreso che non è l’unico destino delle donne, ma una combinazione di fattori, ma ciò non significa che la società in generale, e quella Usa in particolare, profondamente radicata nei valori tradizionali, ha tenuto il medesimo passo di milioni di donne. “Diamo ancora per scontato che le persone con figli siano più felici”, lamenta Scott. “Dobbiamo sbarazzarci dell’idea che i bambini siano degli investimenti economici per il futuro, oggi sono un lusso, una scelta”.

 

I figli non fanno necessariamente la felicità, non per tutt* per lo meno, motivo per cui la pubblicità della Fiat di Natale (qui) mi sembra veramente anacronistica, oltre ad essere una sottile ma lampante forma di violenza per chi non può o non desidera avere figli.

Non dimentichiamoci poi di salvaguardare i matrimoni.. guardate qui cosa si inventa la Comunità Europea per incentivarli.. Affrettatevi, più figli fate e più vi sposate, meglio è!

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Non ho bisogno del femminismo

tappeto

 

Rispondo con un post all’invito di Narrazioni Differenti (qui). 🙂

 

Non ho bisogno del femminismo perché è giusto che una donna sia penalizzata sul lavoro quando diventa madre, perché diventa meno efficiente e meno produttiva.

Non ho bisogno del femminismo perché la maternità non è più fonte di discriminazione.

Non ho bisogno del femminismo perché i problemi delle altre donne non mi riguardano, esisto solo io.

Non ho bisogno del femminismo perché non è importante la dimensione collettiva, ma solo quella individuale.

Non ho bisogno del femminismo perché forse le femministe si sono sbagliate e basterebbe semplicemente allearsi e assomigliare al “primo sesso” per risolvere tutti i problemi.

Non ho bisogno del femminismo perché nessun datore di lavoro si preoccupa più se hai famiglia.

Non ho bisogno del femminismo perché il sessismo appartiene al passato.

Non ho bisogno del femminismo perché la conciliazione lavoro – vita privata è possibile per tutt* allo stesso modo.

Non ho bisogno del femminismo perché i compiti di cura sono equamente distribuiti tra uomini e donne.

Non ho bisogno del femminismo perché nessuno più al giorno d’oggi è costretto a scegliere tra lavoro e famiglia.

Non ho bisogno del femminismo perché la violenza contro le donne è un problema gonfiato ad arte da quelle femministe lamentose e vittimiste.

Non ho bisogno del femminismo perché il diritto a un aborto sicuro è universalmente riconosciuto e tutelato.

Non ho bisogno del femminismo perché le donne sono libere di scegliere e di essere se stesse in ogni caso.

Non ho bisogno del femminismo perché sarebbe bello tornare al periodo storico in cui le donne nelle pubblicità (e non solo) venivano rappresentate così (vedi foto allegate).

Non ho bisogno del femminismo perché oggi le donne vengono raffigurate diversamente rispetto al passato.

 

 

better coffee cravatta cry kill passata

 

Ringrazio il Post per le immagini, tratte da un articolo di qualche anno fa.

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Mamme da spot

Arthur John Elsley, Well on the mend, 1910, private collection, oil on canvas, 66 x 86 cm

Arthur John Elsley, Well on the mend, 1910, private collection, oil on canvas, 66 x 86 cm

Ce ne sono tanti di spot che hanno come tema la maternità, la cura dei figli, e alcuni sono veramente da far accapponare la pelle. Da qualche giorno devo sorbirmi l’ultimo spot della Mellin, quello della mamma di Amélie, per capirci (qui lo spot, se volete farvi un’idea). Più lo vedo, più mi convinco che c’è qualcosa che non va, forse più di una cosa che non va. Per carità, non mi preme entrare nei meandri della disputa allattamento naturale o artificiale, io ho avuto entrambe le esperienze, ma sono per la libera, personalissima scelta, soprattutto perché ogni figlio è una storia a sé e l’allattamento non deve diventare l’ennesima croce sulle spalle delle donne. Basta con questo martellamento. Lasciateci scegliere come meglio crediamo!

In questo spot della Mellin, mi ha destato un po’ di sconforto la frase: “diventi mamma dal primo momento in cui lo scopri”. Ci rendiamo conto? No, no, non è assolutamente così, non lo diventi allora e potresti in teoria non diventarlo mai, se non lo desideri in quel momento o in futuro. Nessuno può importi un ruolo. Nessuno davvero. Nessuno può affermare che diventi madre dal momento in cui fai il test di gravidanza e questo risulta positivo. Mi sembra un messaggio pericoloso. Poi c’è il solito “istinto di mamma” che dovrebbe portarti sempre a fare le scelte giuste, come quella di comprare un barattolino blu di latte in polvere “per trovare la tranquillità”. Chi sbaglia deve flagellarsi e considerarsi una pessima madre? La narrazione prevalente non fa altro che caricare la donna e la madre di aspettative e significati sovradimensionati, cancellando le peculiarità e le singolarità di ciascuna di noi, includendoci tutte in un calderone unico. Sono le aspettative che pesano e distorcono la realtà, rendendoci più insicure, confuse  e incelofanate in un pacchetto di donna o di madre, da cui diventa difficile uscire o da cui è difficile prendere le distanze, per affermare il proprio modo di essere e di vivere le esperienze. Sempre in una raffigurazione che ci vuole descrivere come non siamo, ma come conviene che siamo. Una convenienza che ci assegna mansioni, ruoli, competenze, predisposizioni, inclinazioni naturali a priori.

Siamo alla fantascienza della maternità e dell’essere donna. Di questo passo, avremo buttato alle ortiche decenni di riflessioni e di prese di coscienza. Soprattutto, avremo ricreato quel mito della donna=mamma, perfetta e sempre pronta, paziente e senza limiti, da cui dovremmo aver preso le distanze da un pezzo. Invece ecco che cercano di strizzarci dentro un ruolo, dentro un immaginario perfetto, monoliticamente declinato al femminile, unica figura sacrificale.

Faccio troppo poco? Sono poco paziente? C’è chi fa più e meglio di me? Me ne frego, faccio quel che posso e che mi sento di fare. Non sono un’automa o una schiava. Chi ha fiato solo per criticare noi donne è pregato di tacere!!! Anche perché, di solito, in questi quadretti familiari, il padre sta sempre ben lontano dal biberon ed è sempre mammina e solo mammina a occuparsi del pargolo. Quando riusciremo a demolire questo modello di rappresentazione di cura???

Ringrazio Narrazioni Differenti per questo post, che tocca, tra gli altri, anche il tema dell’allattamento, in relazione al prossimo Expo.

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THE FEM

A Feminist Literary Magazine

O capitano! Mio capitano!...

"Ci sono persone che sanno tutto e purtroppo è tutto quello che sanno." [Oscar Wilde]