Nuvolette di pensieri

Mormora l'acqua del ruscello

Il sesso non è un bisogno umano fondamentale. Lo stesso vale per la prostituzione

Photo: Kenya - Survivor of Human Trafficking, Advocate, and New York New Abolitionist. Photo Credit: Lynn Savarese.

Photo: Kenya – Survivor of Human Trafficking, Advocate, and New York New Abolitionist. Photo Credit: Lynn Savarese.

 

Questo articolo (QUI l’originale) che ho tradotto ci fa pensare che forse la lobby del commercio di sesso è più forte e ramificata di quanto possiamo immaginare. Buona lettura e buona lotta!

 

All’inizio dell’anno erano trapelati alcuni documenti di Amnesty International UK (che sembra un ossimoro). Come è emerso, Amnesty International sta pensando di inserire nella sua piattaforma d’azione la legalizzazione (in realtà Amnesty parla di decriminalizzazione, ndr) della prostituzione. Naturalmente si tratta di una posizione anti-donna e non si basa su fatti concreti, specialmente se si osservano i dati del traffico di esseri umani, degli stupri e degli omicidi in prostituzione.
Ma la dichiarazione più scandalosa presente nel documento, che ha suscitato qualche risposta da parte dal pubblico è stata la seguente:
Come osservato nel quadro della politica condotta da Amnesty International in merito al sex work, l’organizzazione è contraria alla criminalizzazione di tutte le attività legate alla compravendita di sesso. Il desiderio e l’attività sessuali sono un bisogno fondamentale dell’essere umano. Criminalizzare coloro che non sono in grado o non vogliono soddisfare tale esigenza attraverso metodi più tradizionalmente riconosciuti e acquistano sesso, quindi, può rappresentare una violazione del diritto alla privacy e minare il diritto alla libera espressione e alla salute.

Fonte: http://fr.scribd.com/doc/202126121/Amnesty-Prostitution-Policy-document

 

Ci si dovrebbe domandare un po’ di cose dopo aver letto questo paragrafo:
1. Si sta affermando che tutte le attività connesse alla prostituzione devono essere depenalizzate, come il traffico di esseri umani, lo sfruttamento della prostituzione, lo stupro e l’omicidio?
2. Il diritto alla privacy e alla libera espressione di un cliente è più importante dei diritti umani fondamentali delle prostitute o delle donne vittime di tratta?
3. Da quando la prostituzione non è considerato un “metodo tradizionalmente riconosciuto” per “soddisfare” il desiderio sessuale?
4. Se il sesso fosse un bisogno umano fondamentale, allora le donne dovrebbero essere obbligate a fornirlo agli uomini?
5. Come può essere considerata una questione di privacy, di espressione e di salute il fatto di pagare per il sesso? La privacy di chi è coinvolta? L’espressione di chi è ridotta? La salute di chi è a rischio?

Ciascuna di queste domande è importante e degna di discussione (se non altro perché evidenziano quanto sia assolutamente ridicola la posizione pro-prostituzione). Ma per me la menzogna più eclatante è la proposizione “il desiderio e l’attività sessuale sono un bisogno umano fondamentale.”
Ho notato che alcuni uomini vorrebbero che le donne credessero a queste stronzate. Sembra che non contino sul fatto che le donne siano in grado di comprendere la biologia umana o ogni uomo che li sfida su questo. Ma io li sfido.
Il desiderio e l’attività sessuale non sono bisogni umani fondamentali. Nessun uomo è mai morto o è stato fisicamente danneggiato dalla mancanza di desiderio o di attività sessuale. Non avere desiderio sessuale non è di per sé un problema di salute.
La grande rilevanza data al desiderio e all’attività sessuali da parte della società dà alle persone, soprattutto adolescenti, l’impressione che loro devono fare sesso. Questo genera un bisogno, ma questo è un bisogno costruito e altamente insano. In nessun senso è “fondamentale”.
Quando pensiamo ai “bisogni umani fondamentali”, pensiamo agli imperativi biologici come mangiare cibo nutriente, dormire abbastanza a lungo, respirare aria pulita, avere una casa. Tutte queste cose implicano contatti sociali e sostegni, che sono parte di essi. Ma “fare sesso” non fa parte di quella lista perché non è un imperativo biologico; ci piace farlo perché gli orgasmi ci fanno sentire bene, ma hey, ma è anche per questo che ci masturbiamo.
Sai cos’altro ti fa sentire altrettanto bene? La cocaina. Agisce sui recettori del piacere del nostro cervello, come gli orgasmi. E non ho nulla contro le persone che ne fanno uso, così come non mi oppongo alle persone che fanno sesso (consensuale e ugualitario). Ma io non credo che sia un bisogno fondamentale.
Sai cos’altro non è un bisogno fondamentale? La prostituzione.
Tutte queste argomentazioni sono in realtà solo una versione ben scritta del vecchio luogo comune per cui abbiamo bisogno delle prostitute per rendere gli uomini felici ed evitare che vadano a stuprare le “donne rispettabili”. Quando parlano di “metodi tradizionalmente riconosciuti”, stanno parlando di “donne rispettabili”. Le prostitute sono di per sé “non rispettabili”. Ecco perché i loro diritti sono irrilevanti. Gli unici rilevanti sono i diritti del cliente.
La retorica pro-prostituzione è una retorica che odia le donne, perché ogni ideologia che sostiene lo sfruttamento e l’oggettivazione delle donne è retorica anti-donna. Nella misura in cui si afferma che le prostitute (che sono esseri umani) debbano essere un mezzo per un fine (come per esempio “le prostitute esistono per alleviare i bisogni degli uomini”), va contro il principio etico fondamentale che nessun essere umano può essere trattato come un mezzo per un fine, e quindi deve essere definitivamente respinta.
Nessuna presa di posizione sulla prostituzione (non importa da che parte e da chi proviene) dovrebbe essere presa seriamente se contraddice il fatto che il sesso non è un bisogno fondamentale. Nessuna posizione etica su qualsiasi questione (non importa quale persona importante lo abbia detto o quanto sia in linea con la vostra visione del mondo) dovrebbe essere presa sul serio se è in contraddizione con il principio etico fondamentale di non trattare gli esseri umani come mezzo per un fine.

Non trattate gli esseri umani come mezzi per raggiungere dei fini.
No: “Non trattate gli esseri umani come mezzi per raggiungere dei fini, a meno che ciò soddisfi un bisogno umano fondamentale”.
No: “Non trattate gli esseri umani come mezzi per raggiungere dei fini, a meno che il fine sia buono (come stabilito da voi)”.
No: “Non trattate gli esseri umani come mezzi per raggiungere dei fini, a meno che non abbiano scelto volontariamente di essere trattati in questo modo, allora tutto va bene”.
No: “Non trattate gli esseri umani come mezzi per raggiungere dei fini, a meno che (si ritiene comunemente) siano inferiori a te”.

Vi segnalo questa petizione “Vote NO to Decriminalizing Pimps, Brothel Owners, and Buyers of Sex”: QUI

In questo testo sempre di Amnesty, QUI si parla di decriminalizzare il sex work (già l’uso di questo termine denota una “leggera” deformazione della realtà), regolamentandolo nel rispetto della legislazione internazionale sui diritti umani. Siamo d’accordo sul fatto di non criminalizzare chi si prostituisce, ma non manca qualche ambiguità. La questione è che si parla sì di sex workers, ma nel calderone sex work ci può finire di tutto, compresi i magnaccia e gli sfruttatori. Non basta difendere i diritti umani delle prostitute, e porsi contro la prostituzione minorile. Amnesty non prende posizione su quale sia la forma auspicabile di regolamentazione, ma l’impressione generale che si ha leggendo il documento è che si tratti la prostituzione come un qualsiasi altro lavoro, e ci si preoccupi unicamente di garantire misure adeguate per svolgerlo “in sicurezza”. Si sceglie la politica di “riduzione del danno”. I danni sulla persona non sono rappresentati solo dallo stigma, ma dal fatto che la prostituzione è una forma di violenza, con ripercussioni transitorie e permanenti gravissime. Regolamentarla (per esempio sullo stile tedesco) non significa eliminare questa violenza intrinseca, bensì potrebbe aprire le porte a uno sfruttamento/traffico libero e difficile da dimostrare.

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La libertà è la nostra “fortezza”

Aderisco al vostro appello! Sarò al vostro fianco virtualmente! Nessuna giustificazione alla violenza deve avere cittadinanza. Niente della vita di una donna deve poter diventare un alibi, un via libera al fatto che i suoi diritti umani fondamentali possano essere violati. Facciamo sentire la nostra voce, URLIAMO IL NOSTRO NO!

Unite in Rete - Firenze

libere

La libertà è la nostra “fortezza”.

Ci riprendiamo la Fortezza perché …

  • le motivazioni della sentenza di Firenze sono inaccettabili;
  • questa sentenza ha leso l’autodeterminazione di tutte le donne;
  • il processo è stato fatto alla ragazza e alla sua vita;
  • vogliamo sapere perché la procura generale non ha fatto ricorso facendo scadere i termini.

Riaffermiamo la nostra libertà: siano processati i violenti e non le vittime!

Non vogliamo essere giudicate per come ci vestiamo, per il nostro orientamento sessuale e i nostri comportamenti.

Troviamoci martedì 28 luglio alle 21,00 all’ingresso principale della Fortezza da Basso in piazza Bambine e Bambini di Beslan, Firenze.

Hanno promosso e aderito:

Unite in rete, Artemisia, TOSCA – Coordinamento toscano centri antiviolenza, Di.Re., Libere Tutte Firenze, Il Giardino dei Ciliegi, Collettivo DeGenerate, Azione gay e lesbica, IREOS, Libreria delle donne, Associazione Fiesolana 2b, Intersexioni,  ARCI Firenze e Toscana, Rete Genitori Rainbow, Coordinamento contro la violenza di genere e…

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Private del diritto al rispetto

 

Con questa ennesima sentenza colma di moralismo, a mio avviso è come se dicessero a tutte noi che non solo è inutile denunciare, che lo stupro alla fine è una cosa da poco, ma anche che dobbiamo stare al nostro posto, non dobbiamo alzare la testa, chiedendo pari diritti. L’obiettivo è ricacciarci in un luogo storico in cui eravamo senza diritti e senza voce. È come se ci stessero consigliando: “Se state al vostro posto nulla di così terribile vi potrà capitare”. Stare al nostro posto, seguire una infinità di regole e di consigli di “sano comportamento donnesco”, essere in linea con un modello che è stato creato per noi e tramandato al maschio nei secoli per far di noi quello che meglio crede, per soddisfare il suo desiderio di dominio, da esprimere anche attraverso un atto di violenza. Siamo donne e come tali vogliono farci credere che dobbiamo avere un margine ridotto di scelte, di movimento, di azione e di modi di essere e dividere. Come se ancora, sulla base di una Natura diversa, noi dovessimo auto-ridurci a qualcosa di minuscolo, adeguato a qualcosa che gli uomini si aspettano da noi.
Aggiungo un altro elemento di analisi. Questa sentenza è il risultato di una giustizia che agevola di fatto chi meglio può difendersi, chi ha gli avvocati migliori e non chi in tutto questo orrore è la vera vittima, l’unica che andrebbe difesa, ascoltata e creduta. Perché è un problema di giustizia equa, che metta difesa e accusa ad armi pari, senza che il risultato finale sia fortemente influenzato in base alle disponibilità economiche e di potere delle parti in causa. Perché è soprattutto, ancora, una questione di potere, di differenziale di potere, di vario tipo. E questo il punto più importante su cui riflettere.
Questo continuare a emettere sentenze semplicemente sulla base di uno scavare nella vita di una persona, senza ascoltare i fatti in questione. La sentenza di fatto è come se cancellasse il diritto della donna a non essere abusata e a vedersi riconosciuta dalla giustizia come parte lesa. I suoi diritti esistono solo se il suo comportamento viene ritenuto moralmente conforme. Come se i diritti umani potessero essere sospesi per una o più ragioni. Puoi violentare liberamente se una donna ha uno o più elementi “non conformi”.
Un no è un no, un abuso è tale, da sobria o meno. Se non si sancisce questo una volta per tutte, ci ritroveremo ancora di fronte a questi orrori.
Siamo un Paese che ancora marchia a fuoco le donne che pensano e scelgono con la propria testa, che parlano, che si esprimono, che si dichiarano femministe, che si battono per i diritti, che vanno a studiare fuori casa, che si cercano un lavoro e cercano di essere autonome. Perché ancora oggi, noi dobbiamo rinunciare a queste cose, altrimenti siamo strane, pericolose, pazze, fuori-norma e in quanto tali, tutti sono legittimati a fare di noi ciò che vogliono e a privarci dei nostri diritti fondamentali. Non voglio credere che questo stato di cose sia immutabile, perciò da qualche parte credo che esista un modo per cambiare questo contesto e questa mentalità che poi porta a creare l’humus ideale per questo tipo di sentenze.
Abbiamo ancora un forte ritardo culturale se ancora oggi sentiamo dire che se una ragazza, una donna è indipendente, cerca di esserlo, compie le sue scelte autonomamente, vive cercando di essere felice, libera, senza catene, fuori dalle gabbie è da considerare non normale. Ce ne fossero tante di donne così! Se pensiamo che una ragazza possa fare in potenza meno cose di un ragazzo, se nemmeno la nostra famiglia ci rispetta se chiediamo di essere considerate allo stesso modo, dobbiamo rimboccarci le maniche per invertire la nostra storia. Oggi, dopo tanti anni, rispondo a una battuta di mio cugino che quando mi trasferii a Milano nel 2003, mi disse: “Ah ti stai divertendo.. bella vita”. In pratica, essendo donna sarei dovuta rimanere nella mia città natale, perché l’unica prospettiva idonea a una donna era quella di sposarsi. Il fatto che avessi trovato lavoro a Milano era un dettaglio, ai suoi occhi ero andata a Milano per fare la bella vita, per divertirmi e per essere finalmente marchiata “secondo il libro sacro della tradizione maschile” come una “con i grilli per la testa” in tutti i sensi. Nessun pensiero lo ha mai sfiorato (a lui come a tanti altri) che io stessi facendo enormi sacrifici per darmi un futuro, una prospettiva di vita e di lavoro. Ero la pecora nera della famiglia, lo sono, oggi forse più di ieri, con lo stesso orgoglio di avere una nuvola da “irriducibile” che mi segue. Vi ho raccontato questo aneddoto, per farvi capire come il pregiudizio culturale sia più forte di anni di conoscenza. Il pregiudizio dovuto a un tipo di cultura e di mentalità direi di tipo patriarcale, è come se azzerasse la percezione reale della persona e portasse a giudicarla e a etichettarla secondo parametri immaginari, gli stessi che portano a giustificare dei modelli di comportamento differenziati per genere e che portano a partorire sentenze come quella che ha scagionato quei sei “bravi ragazzi”.
Così si rovina per sempre la vita di una ragazza, di una donna, convincendola che comportandosi bene, assecondando un certo modello di vita e di comportamento, avrà una vita esente da “guai”. Niente della vita di una donna deve poter diventare un alibi, un via libera al fatto che i suoi diritti umani fondamentali possano essere violati. Lo ripeto, non è tollerabile che si emettano sentenze sulla base di giudizi morali e richiamando dettagli della vita della vittima. Aver convissuto, aver avuto qualche rapporto occasionale vuol dire automaticamente “autorizzare” tutti gli uomini a violentarti? Ciascuna donna dovrà sentirsi in pericolo di stupro semplicemente perché non ha il pedigree di una vita immacolata, lineare? Chi ha stabilito poi cosa sia una vita lineare? Nulla può giustificare mai uno stupro. NULLA MAI! Che facciamo, autorizziamo tutti gli uomini violenti a commettere stupri e violenze se qualche dettaglio del mosaico della vita di una donna non è al suo posto?
Se essere “bisessuale dichiarata, femminista e attivista lgbt” deve essere considerato dalla giustizia italiana un lasciapassare, che esenta gli uomini da un rispetto dei diritti di un altro individuo, io non ci sto. E nessuna di noi ci deve stare. Non voglio sentire più da nessuno, né tantomeno da una donna, che in qualche modo “se l’è cercata”. Perché questa, come altre sentenze similari, colpisce tutte noi: un giorno potremmo trovarci al posto della “ragazza dello stupro della Fortezza”, e non essere credute, non avere giustizia vera.

Nessuna giustificazione alla violenza deve avere cittadinanza. Facciamo sentire la nostra voce, URLIAMO IL NOSTRO NO! Mi unisco all’idea di Lea Fiorentini Pietrogrande, facciamo una manifestazione tutte insieme, per abbracciare e sostenere questa ragazza e tutte le donne vittime di violenza!

 

 

P.S.

– La sera del 28 luglio le compagne Unite in rete – Firenze stanno organizzando una manifestazione per ribadire che vogliamo vivere le strade liberamente, nonostante qualcuno voglia farci stare a casa e in silenzio.

http://www.controradio.it/sentenza-sullo-stupro-alla-fortezza-unite-in-rete-lancia-lidea-manifestazione-notturna/

AGGIORNAMENTO:

La manifestazione di Firenze alle 21 del 28 luglio: La libertà è la nostra “fortezza”.  https://uniteinrete.wordpress.com/2015/07/24/la-liberta-e-la-nostra-fortezza/

Qui l’evento su FB: https://www.facebook.com/events/1013313712014907/

 

– Vi invito a firmare questa petizione online:

https://www.change.org/p/giudici-di-firenze-vergognatevi-della-vostra-sentenza?recruiter=43612969&utm_source=share_petition&utm_medium=copylink

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Il tortuoso cammino dalle parole ai fatti

 

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L’indice sull’uguaglianza di genere 2015, presentato il 25 giugno a Bruxelles dall’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (EIGE) QUI ci informa che negli ultimi 10 anni, i progressi per il raggiungimento della parità tra donne e uomini sono stati nel complesso poco significativi in tutta Europa e in alcuni Paesi addirittura si è tornati indietro. Il punteggio complessivo dell’indice per l’UE è salito da 51,3 su 100 nel 2005 a 52,9 nel 2012. L’indice viene aggiornato biennalmente.

L’indice sull’uguaglianza di genere si articola su sei domini principali (lavoro, denaro, conoscenza, tempo, potere e salute) e due satellite (violenza contro le donne e disuguaglianze intersezionali). Si basa sulle priorità politiche dell’UE e valuta l’impatto delle politiche in materia di uguaglianza di genere nell’Unione europea e da parte degli Stati membri nel tempo.

Qualche passo in più si è registrato in termini di “potere” e di accesso ai vertici aziendali e istituzionali: si passa da un valore 31,4 su 100 nel 2005 a 39,7 nel 2012. Sostanzialmente lo squilibrio permane. L’Italia quota 21,8 su 100.

Permane un elevato livello di segregazione di genere nel mercato del lavoro, in pratica siamo schiacciate in mansioni e lavori tipicamente femminili, sanità, servizi sociali istruzione.

Siamo più istruite degli uomini, ma anche più “segregate”, facciamo fatica a espanderci in tutti i settori di studio e di specializzazione. La situazione è aggravata da una decrescita per quanto riguarda la possibilità di accedere a una istruzione/formazione permanente.

Se guardiamo il dominio della salute, l’indice medio europeo è elevato, 90 su 100, l’Italia giunge a quota 89,5. Un dato da tenere sotto controllo, perché in tempi di crisi, alcuni Paesi hanno optato per un rafforzamento dei servizi sanitari pubblici, mentre altri hanno tagliato o posto a carico dei cittadini i costi sanitari, in precedenza gratuiti. Si comprende come per le donne questo aggravamento dei costi di assistenza sanitaria possa incidere negativamente a lungo andare sulla loro salute, sia in termini di prevenzione che di cura. Tutti noi conosciamo gli effetti disastrosi di anni di austerity sulla sanità greca e sulla salute della popolazione. Il tavolo della salute non può essere il tavolo da gioco della finanza e degli esperimenti di un’economia attenta solo alle ragioni del denaro.

Ma se osserviamo l’ambito “tempo” che dovrebbe misurare la distribuzione dei tempi di cura e di lavoro tra uomini e donne, comprendiamo il vero stato della situazione: il punteggio è di 37,6 su 100 per la media europea, 32,4 su 100 per l’Italia (suddiviso nei sotto-domini: care 40,4, social 26, segnale del fatto che possiamo contare poco sui servizi sociali). Niente a che vedere con il 61,3 della Finlandia. Se sembra migliorare la condivisione della cura dei figli, sul versante delle altre incombenze quotidiane domestiche il divario non sembra restringersi.  Questo dato risulta ulteriormente pesante, se lo associamo alla decisione annunciata lo scorso 1 luglio da parte della vicepresidente della Commissione Europea Timmermans di ritirare la direttiva sul congedo di maternità. Ne avevo già parlato qui. Un pessimo segnale dall’Unione Europea e dalla sua leadership. Indice di una scarsa attenzione e capacità di incidere in politiche di pari opportunità. Perché oltre le relazioni e le statistiche, occorre saper avviare azioni concrete, investendo misure concrete per sostenere e salvaguardare i diritti delle donne. Che senso ha misurare dei dati, se poi la politica e le istituzioni europee non sono in grado di varare iniziative mirate, vincolanti per gli Stati membri, al fine di garantire un humus più agevole per le donne?

Abbiamo un gap salariale medio del 16%, con significativi peggioramenti in caso di maternità. Questo espone le donne a un maggior rischio povertà, soprattutto in vecchiaia, quando le pensioni risulteranno proporzionalmente più basse rispetto a quelle degli uomini. Abbiamo di fatto una incapacità di incidere sulle politiche degli Stati membri, che spesso varano provvedimenti in materia di equità di genere che restano lettera morta, un puro esercizio di letteratura giurisprudenziale.

Non si comprende come si possa pensare di migliorare queste percentuali, se di fatto non ci sono interventi efficaci a sostegno della partecipazione e permanenza delle donne nel mercato del lavoro (l’indice EIGE medio è 72,3, l’Italia è a quota 57,1). Nel nostro Paese poi siamo ben lontani dagli obiettivi Europa 2020, che prevedeva di raggiungere il 75% delle donne occupate. Da questo deriva anche il valore dell’indice denaro, che rappresenta l’indipendenza economica delle donne. Un lavoro sicuro e tutelato ha benefici su molti aspetti e decisioni nella vita di una donna e non solo.

Guardiamo al nostro Paese. A livello nazionale nel 2012 siamo al 41,1 su 100 (indice EIGE). Qualche passo in avanti è stato compiuto: nel 2005 eravamo a 34,6, nel 2010 a 39,6. Se guardiamo i vari diagrammi per ciascun ambito, si nota una certa stagnazione, oltre a essere al di sotto della media europea. Eppure leggendo i riferimenti normativi nazionali, non siamo proprio rimasti fermi, evidentemente i risultati concreti non si sono visti.

Nell’analisi di dettaglio dell’Italia viene fatto un bilancio degli interventi legislativi posti in essere.

Si richiama il codice nazionale per le pari opportunità tra uomini e donne, il decreto 198 del 2006, 59 articoli che cercano di armonizzare e razionalizzare le leggi vigenti (11) in materia di gender equality. Si promuovono le pari opportunità in differenti settori: etico, sociale, relazioni economiche, diritti civili e politici. L’obiettivo dichiarato è di promuovere l’empowerment delle donne, assicurare la loro libertà di scelta e migliorare la qualità della vita per uomini e donne. È stato introdotto il principio del genere per il varo dei diversi provvedimenti legislativi, di ogni grado.

Nel 2010, il governo ha adottato un decreto per adeguarsi alla Direttiva europea 2006/54/EC in materia di pari opportunità nell’occupazione e nel mondo del lavoro.

Nel 2007, la Direttiva 2004/113/EC ‘Implementing the principle of equal treatment between men and women in the access to and supply of goods and services’ è stata recepita dalla legge 196/2007.

Il governo ha adottato numerose norme per incrementare la partecipazione delle donne alle attività politiche, alcuni esempi: la legge 90 del 2004, sulle elezioni dei parlamentari europei; la 120 del 12 luglio 2011, sull’accesso ai vertici delle società quotate e dal 2012 ha stabilito un 20% minimo di donne (la famosa Golfo-Mosca); la legge 215/2012 su previsioni volte a garantire la parità nei governi locali e regionali; e la direttiva sulle pari opportunità per le donne della P.A. del 23 maggio 2007. Si menziona anche la legge del 28 ottobre 2010, che ha approvato il primo piano nazionale contro la violenza di genere e lo stalking.  

A livello regionale, la Sicilia ha prodotto nel 2007 un documento programmatico per l’arco temporale 2007-2013 che aspirava a promuovere l’implementazione del “principio delle pari opportunità per tutti” all’interno del piano strategico delle Municipalità siciliane; previsioni per l’imprenditoria femminile.
In Puglia nel 2008, la legge regionale dell’ordine marzo 2007 è stata rafforzata. È stato istituito l‘Ufficio Garante di Genere’, per monitorare l’implementazione della legge 7/2007, creando un database di donne che desiderino aspirare a incarichi manageriali, fissare un budget regionale dedicato alle donne, un reportage annuale sulla condizione femminile nell’area. È anche responsabile per dettare le linee guida in materia di politiche di genere pugliesi attraverso il Centro regionale per le donne.

In Liguria nel 2008, il governo regionale ha varato la legge 26 del 1 agosto, integrando le politiche per le pari opportunità esistenti in regione.

Nel 2012 l’Abruzzo ha sottoscritto un Accordo sulle Pari opportunità con province e municipalità per la promozione della work-life balance, la diffusione della cultura delle eguali opportunità, la promozione di forme di flessibilità e ridisegno degli orari di lavoro, il coinvolgimento delle donne in politica, il supporto e il coordinamento regionale dei centri antiviolenza.

Insomma virtuosi, ma se guardiamo la pratica, ci rendiamo conto che la favola non è come può sembrare. Purtroppo le norme non sono sufficienti a garantire un sensibile miglioramento.

Poi ci troviamo Salvatore Negro, come neo assessore regionale pugliese alle Pari opportunità, uno dei principali detrattori dell’emendamento sulla parità di genere, culminato poi nella bocciatura del medesimo emendamento 50&50 nella legge elettorale regionale. Insomma non tira una buona aria per le donne.
Qualche giorno fa avevo scritto un post lettera a Michele Emiliano. Mi aveva risposto così su Twitter:

Il 25 giugno
@sforzasimona ho tutelato i diritti delle donne da sindaco e lo faró anche da Presidente della Puglia nella direzione che indichi.🎀
https://mobile.twitter.com/micheleemiliano/status/614133622950490113?s=04

Diciamo che aveva in serbo una amara sorpresa.
Si comprende che i fatti dimostrano quanto spesso le parole siano vuote, adoperate esclusivamente per avere solo una apparente infarinatura di equità e parità. Forse anziché continuare a varare nuove norme, basterebbe semplicemente applicare l’art 3 della nostra Carta Costituzionale, rimuovendo quegli ostacoli che ci rendono cittadine ancora un passo indietro ai cittadini.

Il report EIGE poi si sofferma sull’importanza del contesto culturale, sociale e istituzionale nel combattere la violenza contro le donne. Alti livelli di eguaglianza di genere rendono le donne più propense a denunciare, anche grazie a una maggiore fiducia nella giustizia istituzionale e nelle forze di polizia.

Stesso discorso quindi vale per l’inaccettabile superficialità con cui si affronta il problema della violenza contro le donne a livello nazionale. Siamo chiaramente fermi a una marginalizzazione della questione, le donne continuano ad essere uccise e a subire violenze, ma gli interlocutori istituzionali e le loro proposte risultano inadeguati. Se ne parla sempre meno e sentir dire che “la colpa è delle donne”, è come se si commettesse violenza due volte. Quando crederete alle parole di una donna che chiede aiuto? Quando smetterete di giudicare le donne sotto un metro diverso, quando verremo difese in tempo, prima  che sia troppo tardi?

Non abbiamo ritenuto necessario e urgente avere un dicastero dedicato alle pari opportunità e questo a dice lunga. Nonostante le varie pressioni e richieste nulla ancora si muove. Non ci basta qualcuno che ci sciorini dati, ci vuole competenza, attenzione e conoscenza delle problematiche delle donne, a livello nazionale e locale. Saremo sempre indietro se non riusciremo a invertire la rotta. Non ci bastavano ieri e non ci bastano oggi le rassicurazioni che si prenderanno cura delle questioni delle donne. Che da bravi uomini ci porteranno su un palmo di mano verso la piena uguaglianza. Non siamo inadeguate, come qualcuno paternalisticamente vorrebbe indurci a pensare, e non abbiamo bisogno di essere educate e indottrinate. I nostri temi resteranno marginali se non riusciremo ad avere delle rappresentanti degne e combattive. Non sediamoci ai tavoli per raccontare quanto siamo state brave a giungere a ruoli di rilievo, ma lavoriamo affinché altre, tantissime donne possano partecipare e far sentire la propria voce. Facciamo valere il nostro saper fare e pensare differente. Noi stesse dobbiamo renderci attive e cercare di cambiare le cose. Siamo considerate una forma di welfare gratuito, che viene dato per certo. Iniziamo a praticare una condivisione dei compiti di sostegno familiare e chiediamo che venga riconosciuto questo lavoro invisibile. Coltiviamo quel cambiamento culturale necessario.

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Quando le dimissioni sono consensuali a senso unico

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Un mio nuovo post per Mammeonline.net
Questa volta parlo dei risultati dell’ultima relazione annuale sulle convalide  delle dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri 2014 (ai sensi della legge 151 del 2001), presentata il 25 giugno scorso (in allegato il testo). Qui di seguito un estratto. Per leggere il pezzo completo:
http://www.mammeonline.net/content/quando-le-dimissioni-sono-consensuali-senso-unico

Poco ci allevia il fatto di non essere casi rari, ma di essere in buona o meglio malaugurata compagnia: 1.200 a causa dell’elevata incidenza dei costi di assistenza del neonato; 3.456 per mancato accoglimento al nido; 4.051 per assenza di parenti di supporto. 14.379 gli abbandoni dopo il primo figlio, 8.707 quelli riconducibili alla incompatibilità tra vita lavorativa e cura della prole. Queste porzioni sono in crescita. Segno di una situazione che non tende a migliorare, che si inasprisce di anno in anno. Numeri grossi al Nord, nonostante si guardi sempre ai servizi efficienti del Nord. Forse la rete di solidarietà e di mutuo aiuto a volte serve più di un nido. 1.465 mollano perché non hanno potuto accedere al part time o a un orario flessibile.

(…) dopo aver ripetuto numerose volte la parola consensuale, devo fermarmi per eccesso di bile. Chiaramente il mio consenso ha un peso e un  valore diverso rispetto a quello del mio datore di lavoro, soprattutto se la mia decisione di dimettermi è causata da un rifiuto dell’impresa di venire incontro alle mie esigenze. A volte basterebbe una flessibilità temporanea, un segnale che tu non sei solo un numero, un peso, una incomoda dipendente che ha osato figliare. Quindi se il consenso implica un accordo delle parti, occorre sottolineare come in moltissimi casi esso sia esorto,  senza via di fuga. Quindi, se io non sono in grado di essere sullo stesso piano del mio datore di lavoro, uno stato civile e di diritto dovrebbe essere in grado di intervenire per tutelare la parte debole e riequilibrare i due attori contrattuali. Dovrebbe essere premura di uno stato farsi carico di queste diseguaglianze e non limitarsi solamente a relazionarci annualmente su quante nuove donne si trovano davanti al bivio. Se tu in qualche modo estorci il mio consenso, quel contratto o accordo è annullabile. Questo accade in tutti i casi, ma non sembra valere per tutti i casi cui una donna non ha altra scelta e viene di fatto portata alle dimissioni.

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