No, non è Max Gazzè. Siamo sul pianeta Bielorussia, che dopo 20 anni di dittatura sembra effettivamente un arcipelago avulso dal resto d’Europa. Uno stato pervasivo, onnipresente e onnisciente non dovrebbe in teoria andare d’accordo con le nuove tecnologie. Invece, a sorpresa, nonostante la libertà di espressione sia una chimera, nel Paese è in corso una vera e propria rivoluzione digitale. Viber, una App che consente di mandare messaggi e parlare gratis con il cellulare, è nata proprio qui. I programmatori bielorussi sono molto richiesti. Insomma, il nuovo corso vive spalla a spalla con i relitti del socialismo. Un Paese che esporta high-tech e che nel 2012 è risultato essere tra i primi 30 al mondo per forniture di servizi di sviluppo di software per clienti stranieri. Una dittatura è difficile da mantenere quando le informazioni girano velocemente e le comunicazioni tra le persone sono semplificate dalle nuove tecnologie. La primavera araba, con tutti i suoi limiti e mitizzazioni occidentaliste, ne è stato un esempio. La rete mette in contatto ed in teoria potrebbe essere una miccia per innescare un cambiamento democratico, oppure, essere una semplice valvola di sfogo degli attivisti, degli oppositori, dei resistenti, che potrebbe risultare fine a se stessa e non portare a grossi effetti nella realtà. Da un like al fare potrebbe esserci un abisso insormontabile. Vi segnalo l’efficace e saggia analisi di Iryna Vidanava “Living in the matrix”.
Il tessile cambia rotta
Ci ricordiamo tutti la tragedia del Rana Plaza in Bangladesh di qualche mese fa. Parliamo di persone che hanno perso la vita per confezionare dei vestiti, schiavi per noi che vogliamo quel tutto, senza chiederci a che costo. Quando si parla di tessile, pensiamo a Paesi come Bangladesh, Cina, Cambogia. A quanto pare, in questi Paesi, per fortuna, le cose stanno cambiando: aumentano le tutele dei lavoratori e ci sono gli occhi dell’opinione pubblica che sono più vigili sulle condizioni di lavoro. Pertanto marchi come H&M stanno cercando alternative, più economiche e più vantaggiose, naturalmente non per chi lavora. L’ultima frontiera è l’Etiopia, con un’economia in forte ascesa. L’industria tessile ha radici nel periodo coloniale italiano, le prime fabbriche risalgono al 1939. Rispetto a Marocco e Tunisia, che producono articoli a buon mercato, l’Etiopia ha costi del lavoro più bassi della Cina, una popolazione di circa 80 milioni di abitanti.. tutta manodopera da sfruttare e allora “piatto ricco mi ci tuffo”, poi il mare è vicino e i prodotti riescono a raggiungere più in fretta la destinazione finale. Altra magnifica idea: coltivare in loco il cotone con cui fabbricare le stoffe e i capi. In Etiopia producono già altri due colossi Tesco e Primark. Sarà la nuova Bangladesh? Vedremo, come si evolverà la macchina del tessile, per ora l’Etiopia è solo complementare alle produzioni asiatiche. Anche se le infrastrutture etiopi (strade, impianti di produzione e allacciamenti alla rete elettrica) sono ancora poco sviluppate, il futuro per le multinazionali dello sfruttamento appare roseo. Inoltre, i mercati dell’Africa sono appetibili anche come consumatori di merci… non dimentichiamo l’altro lato della medaglia. Alla faccia dei diritti e del rispetto della dignità, della salute umana e dell’ambiente.