Nuvolette di pensieri

Mormora l'acqua del ruscello

Come sta il lavoro delle donne?


“Se si comparano le carriere delle donne che hanno avuto un figlio con un gruppo di lavoratrici simili ma senza figli, a quindici anni dalla maternità, i salari lordi annuali delle madri crescono di 5.700 euro in meno di quelli delle donne senza figli rispetto al periodo antecedente la nascita”.

Questo il bilancio del presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, in occasione della presentazione della Relazione annuale.

La scoperta dell’acqua calda, ma se lo affermo io singola sono la solita lamentosa e colei che vede sempre il bicchiere mezzo vuoto. Diverso se lo dice una fonte ufficiale, diverso è se sempre più donne se ne accorgono, ne parlano, denunciano e non stanno lì a giudicarsi l’una con l’altra senza far niente di concreto per cambiare le cose. E siccome il personale è politico, forse occorre che a questo punto ci sia una rivoluzione e un movimento collettivo che chieda alle Istituzioni di questo Paese di intervenire. Perché di report, numeri e percentuali non si vive.

Non è che ci piace assentarci, è proprio che non c’è alternativa, e spiace che in molte se ne siano accorte solo in era Covid, quando non hanno più potuto mandare i figli anche se malati a scuola. Ma è sempre tutto un problema di carichi di cura suddivisi in base al genere, perché forse il monte ferie e permessi delle donne che hanno figli potrebbe non essere intaccato in questa misura se anche il compagno/padre si assentasse anche lui.

La legge prevede per i genitori 6 mesi di astensione facoltativa dal lavoro: fino ai 6 anni si ha diritto al 30% della retribuzione. Dai 6 agli 8 anni resta questo 30% solo se il reddito individuale del genitore richiedente “è inferiore a 2,5 volte l’importo annuo del trattamento minimo di pensione ed entrambi i genitori non ne abbiano fruito nei primi sei anni o per la parte non fruita anche eccedente il periodo massimo complessivo di sei mesi”. Dagli 8 ai 12 anni non si ha diritto ad alcuna indennità.

Tale congedo parentale spetta per un periodo complessivo tra i due genitori non superiore a dieci mesi e può essere fruito anche contemporaneamente.

Ma non è solo un problema di congedi, perché chi ha la possibilità, per poter conciliare, sceglie il part-time e nella stragrande maggioranza sono le donne.

Infatti Tridico aggiunge: “I salari settimanali crescono del 6% in meno, le settimane lavorate in meno sono circa 11 all’anno e l’aumento della percentuale di madri con contratti part-time è quasi triplo rispetto a quello delle donne senza figli. Gli effetti della maternità sono pertanto evidenti e si manifestano non solo nel breve periodo, ma persistono anche a diversi anni di distanza dalla nascita del figlio”.

In pratica, quando ci raccontano che superato lo scoglio degli anni della prima infanzia, tutto potrà tornare a girare più o meno come prima, ci racconta l’ennesima favola. Perché gli effetti di queste difficoltà hanno strascichi lunghi. Il presidente dell’Inps suggerisce: “Sarebbe utile prevedere ad esempio uno sgravio contributivo per donne che rientrano in azienda dopo una gravidanza, aiutando così l’occupazione femminile e riducendo le possibilità di indebite pressioni sulle scelte delle lavoratrici. Per ogni neoassunta, entro tre anni dall’assunzione, che vada in maternità e rientri al lavoro, l’azienda otterrebbe un esonero contributivo per tre anni“.

Il solito pannicello caldo, utile sul momento, finché ci sono fondi per coprire la misura, ma che non interviene sulle cause strutturali e culturali a monte del divario di genere nel mondo del lavoro: nulla cambia sugli equilibri uomo-donna, i compiti di cura restano appannaggio quasi esclusivo delle donne, tranne alcuni casi, non si spinge verso un cambiamento concreto delle abitudini quotidiane.

 

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Sblocchiamo i progetti di vita, a partire dalle donne


Eccoci alla terza tappa di questo viaggio di approfondimento nel mondo del lavoro e sulla partecipazione femminile ad esso. Un modo per provare a colmare un certo silenzio attorno a questi aspetti, oltre le nicchie e gli addetti ai lavori.

Lo ripetiamo da anni che la scarsa occupazione femminile ha dei riflessi enormi sull’efficienza delle infrastrutture del fare impresa, con evidenti perdite in termini di ricchezza.

Avevo scritto qui un’analisi, comprensiva di dati.

Secondo “Il lavoro a Milano”, il rapporto annuale realizzato da Assolombarda, CGIL, CISL e UIL, che raccoglie i dati sul mercato del lavoro e ne traccia l’andamento:

“Negli ultimi 10 anni l’identikit del lavoratore è profondamento cambiato. Dal 2008 al 2018, infatti, sono cresciuti in modo considerevole tra gli occupati le donne (+125mila), i laureati (+320mila) e gli over45 (+700mila). Sono, invece, diminuiti di mezzo milione i giovani.”

Il lavoro cambia, in funzione dell’evoluzione tecnologica e dell’andamento demografico, all’insegna della flessibilità e di una crescita delle occupate, che beneficiano proprio delle tecnologie digitali. Importante il titolo di studio e le competenze 4.0.

Chiaramente, a fronte di questa tutto sommato positiva rappresentazione, non possiamo far finta di aver superato le solite note dolenti italiane: instabilità del lavoro, alta incidenza del part-time (spesso involontario), segregazione in settori a bassa remuneratività, persistenza di carriere “spezzate” con periodi di inattività per potersi occupare di compiti di cura di figli o familiari non autosufficienti.

Abbiamo partecipato, lo scorso 9 maggio, alla presentazione dell’indagine 2018 (biennio 2016-2017) sull’occupazione maschile e femminile in Lombardia, nelle imprese con più di 100 dipendenti, a cura della Consigliera di Parità regionale della Regione Lombardia Carolina Pellegrini, con la collaborazione di PoliS-Lombardia e dell’Istat.

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È la prima volta che i dati vengono raccolti dal Ministero del Lavoro, quindi centralmente a livello nazionale (in passato ciascun Ufficio delle Consigliere di Parità si occupava di raccogliere i questionari). Le rilevazioni vengono poi rielaborate a livello territoriale per le relative analisi. Questo tipo di raccolta ha sempre destato una certa ostilità da parte delle imprese, che lo hanno percepito come un ulteriore peso e adempimento burocratico. Inoltre, nonostante i tentativi a livello regionale, a livello nazionale non si è prodotta alcuna revisione del questionario che è stato somministrato per l’ultima rilevazione: eppure nel corso degli anni il mondo del lavoro è cambiato ed è più che necessario adeguare questo strumento a questo mutamento.

Si rilevano alcune criticità:

“Come Ufficio di Regione Lombardia, fino a quando la raccolta dati era diretta, abbiamo sempre cercato di aggiornare il questionario sia con i riferimenti normativi più recenti, ma anche arricchendolo inserendo altre domande per evidenziare dati che ci permettessero una lettura più completa circa l’attuazione delle pari opportunità e delle azioni positive che hanno una ricaduta sulla vita delle donne e degli uomini nell’ambito lavorativo (si pensi alle azioni di welfare aziendale, di modalità organizzative flessibili ed altro che molte aziende stanno implementando da anni soprattutto in Regione Lombardia).

Rimangono inoltre le stesse difficoltà circa la verifica della correttezza e veridicità dei dati inseriti (formazione e retribuzione in primis come si evincerà dell’elaborazione fatta da Polis). Tra le criticità segnaliamo che non è stata trovata ancora una soluzione sull’inquadramento professionale (è impossibile ridurre a quattro categorie i lavoratori e le lavoratrici) e che ancora la raccolta avviene per azienda in base alla sede legale e non in base alle sedi operative e quindi, soprattutto questa seconda criticità, ha certamente un impatto pesante nella valutazione dei dati sull’occupazione.”

La consigliera di parità regionale Carolina Pellegrini ha auspicato che i dati raccolti vengano non solo letti, ma adoperati per conoscere da vicino la situazione occupazionale e per mettere in campo politiche che possano colmare gli attuali divari nel mondo del lavoro.

Federico Rapelli di PoliS-Lombardia si è proprio soffermato su quelle che sono le criticità del sistema, dal gender gap, differenze retributive alla presenza di donne ai vertici aziendali con tutte le difficoltà del caso, gli adempimenti dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite dalle quali siamo lontani.

Dario Ercolani di Istat ha illustrato nel dettaglio campione e risultati del rapporto, che ha coinvolto 2.953 imprese, al 31/12/17, il 90% delle imprese sopra i 100 dipendenti, lo 0,4% delle imprese lombarde registrate nel 2016 (l’1,1% delle imprese con dipendenti). Si auspica che si ampli la platea di aziende coinvolte, scendendo al di sotto dei 100 dipendenti, in modo tale da fornire una mappatura più rappresentativa. Ovviamente, occorre semplificare procedure e questionari.

Composizione dell’offerta di lavoro nel terzo trimestre 2018. Confronto Italia – Lombardia

 

Occupati nelle imprese per settore di attività e genereOccupati nelle imprese con oltre 100 dipendenti in Lombardia al 31 dicembre 2017

Preponderante il settore dei servizi. Il 51% dei dipendenti è inquadrato come impiegato. Si rileva: una minore partecipazione femminile al lavoro nelle imprese esaminate (elevata rispetto al dato nazionale, ma bassa se comparata ai livelli europei), una bassa presenza nei livelli apicali (per contratto e per qualifica professionale) e il consueto svantaggio salariale (18,2%) che aumenta se cresce la qualifica professionale. A tal proposito vi ricordo una proposta di legge regionale a prima firma Paola Bocciqui un approfondimento.

Retribuzione media lorda annua 2017 per dipendente per genere e categoria

 

Retribuzione media lorda annua 2017 per dipendente per genere e categoria e provincia

Retribuzione media lorda annua 2017 per dipendente

Gli uomini sono sempre in misura maggiore per quanto riguarda le promozioni, alle donne in totale spettano il 39,8% del totale (73.500 circa, nel 2017). Il part-time ovviamente è ad alta incidenza femminile, sia nei contratti a termine che a tempo indeterminato, con una rilevante segregazione in ambiti meno remunerati. Nella trasformazione di tipologia contrattuale, le donne hanno tassi più elevati degli uomini per passaggio da full a part-time e minori per passaggi da determinato a indeterminato, oltretutto difficilmente passano da part a full-time.

part time e genere

 

Differenziale salariale di genere in forma Adjusted Gender Pay Gap

La formazione delle donne è inferiore a quella degli uomini nei livelli operai/impiegati, mentre cresce tra i quadri e i dirigenti.

È evidente che sussistono profondi gap di genere e che si dovrebbe indagare maggiormente incrociando i dati di varie rilevazioni fatte da più enti, su aspetti quali età, istruzione, anzianità professionale.

A seguire questa prima parte illustrativa del rapporto, si è cercato di approfondire uno degli aspetti di cui si occupa la figura della Consigliera di parità: come cambia il rapporto di lavoro dopo la maternità, quali discriminazioni vengono messe in atto. È sicuramente una delle cause più rilevanti di ricorso alla consigliera, è un fenomeno conosciuto da anni, eppure né i numeri delle dimissioni volontarie, né i casi che ogni anno vengono segnalati, sono stati sufficienti negli anni per sollecitare interventi efficaci di prevenzione e di sostegno alla conciliazione.

Il tema dell’occupazione femminile è cruciale nella scelta di fare un figlio e l’impatto sulla natalità è innegabile. Lo stesso vale per quanto riguarda la precarietà, che spinge sempre più in là nel tempo la decisione di diventare genitori. Il grafico che ci ha illustrato Letizia Mencarini, demografa della Bocconi, ci mostra esattamente quanto la scarsa occupazione del Sud sia arrivata a incidere anche sul numero di figli. Il pay gap di genere poi ha un effetto dirimente su chi deve restare a casa per prendersi cura dei figli.

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Alessandro Rosina, professore ordinario di Demografia e Statistica sociale nella Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano, esordisce evidenziando come la politica dovrebbe mettere al centro le scelte delle persone, facendo in modo che si possano armonizzare e non venire messe in contrapposizione tra loro, creando un aut aut tra scelte, e riducendo il loro grado di benessere.

Si dovrebbe lavorare per ridurre le disuguaglianze e di conseguenza ingenerare meno rinunce e meno scelte al ribasso. A tal riguardo occorre permettere alle donne di lavorare, di essere e sentirsi valorizzate, scegliere di fare figli, potendo conciliare entrambe le cose, senza penalizzazioni. Per fare ciò si devono mettere in campo misure non solo per le famiglie di oggi, ma per quelle che arriveranno in futuro.

La Lombardia ha anticipato il declino della fecondità a livello nazionale, ma anche in linea con paesi come la Svezia. Nel 1995 è stato registrato il punto più basso, 1 figlio per donna; nel 2010 c’è stato un recupero (anche grazie all’immigrazione): 1,57 figli per donna. Oggi la Lombardia è allineata al resto delle regioni per riduzione del tasso di fecondità.

Ma mentre la Svezia ha intercettato le cause per tempo ed è intervenuta per sostenere l’occupazione femminile e i servizi di conciliazione, ottenendo un buon risultato, da noi ciò non è avvenuto. La crisi ha congelato qualsiasi intervento ad hoc ed oggi il clima di incertezza non aiuta di certo. Di fronte a una scelta che investe e responsabilizza a vita, si sospende la scelta: un rinvio che rischia di diventare definitivo. Finché tale scelta è veramente libera, non si desidera avere figli è pienamente legittima, ciò che qui si discute è quando è indotta da un contesto ostile, per cui è inconciliabile tenere insieme figli, lavoro, costi abitativi ecc.

Qui si tratta di “sbloccare” i progetti di vita delle persone, qualsiasi essi siano. Esempi, strumenti che ci arrivano dall’estero o da territori virtuosi li abbiamo, occorre sperimentarli, aggiustarli e adattarli alle specificità locali. Rosina parla di “far diventare di successo, vincente la scelta di fare figli, mettendo in campo un processo che di autoalimenti, misure da monitorare e da correggere man mano.” Ritorna il sistema dei servizi di cui parlavo qui.

Francia e Germania hanno stanziato le risorse necessarie per far funzionare il sistema di sostegno alle famiglie e per raggiungere gli obiettivi che si erano prefissati (in termini di copertura dei servizi per l’infanzia e strumenti di conciliazione). Non si cambiano le cose stanziando un obolo e sperando che sia sufficiente, occorre analizzare la situazione contingente e allocare le risorse adeguate che permettano di ottenere determinati risultati.

Qui un approfondimento sulla Germania.

La situazione italiana vede la crescita di famiglie monogenitoriali, con ulteriori difficoltà di conciliazione. La riduzione del numero di donne in età riproduttiva (derivante dalla scarsa natalità dei decenni precedenti) produce una ulteriore flessione della natalità.

Seguire gli investimenti fatti in altri Paesi significa ridurre la disuguaglianza e aumentare il grado di benessere della cittadinanza tutta. Rosina avverte che se non si interverrà ci sarà una ulteriore flessione del numero di figli per donna, invecchiamento della popolazione, squilibri demografici (attivi/inattivi), minor occupazione femminile e valorizzazione del capitale umano femminile, minore crescita economica, meno reddito a disposizione delle famiglie, maggiore rischio o incidenza di povertà (economica che si riverbererà su quella culturale, con evidente ciclo negativo sulle future generazioni).

Pensare a questo tipo di decisioni sempre come dei “costi” anziché considerarli come investimenti per il futuro, non permette di interrompere un ciclo negativo che riduce la fiducia sempre più. Senza certezze, politiche e misure stabili, servizi di qualità su cui contare, è evidente che si riduce la speranza che il futuro possa essere migliore del presente.

L’ingresso nella vita adulta è sempre più complesso e le politiche varate non aiutano a costruire un clima di fiducia, né una minima prospettiva dalla quale partire.

La consigliera di parità regionale supplente, Paola Mencarelli, evidenzia come la mancanza di azioni correttive nel presente avrà pesanti ricadute sul sistema di welfare e pensionistico su tutti noi.

Certamente pesano anche retaggi culturali difficili che vedono la donna farsi ancora carico della maggior parte del lavoro di cura, con carriere lavorative “a singhiozzo” e tempi di lavoro ridotti per poter conciliare.

Tanti i nodi e gli spunti di riflessione e di azione concreta, ma occorre che trovino ascolto.

“L’auspicio è anche che le Istituzioni si servano maggiormente dei dati e dei Rapporti per aggiornare e implementare le misure a sostegno dell’occupazione femminile” conclude Carolina Pellegrini.

QUI LA DOCUMENTAZIONE COMPLETA su “Occupazione femminile e maschile in Lombardia indagine nelle imprese con più di 100 dipendenti – rapporto 2018”,
il rapporto biennale e le slide presentate.

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Verso una piena parità retributiva


Continuiamo ad esplorare il tema donna-lavoro, che avevamo intrapreso qualche giorno fa (qui).

Le discriminazioni nel mondo del lavoro sono molteplici e le donne anche quando un’occupazione ce l’hanno, devono spesso ‘subire’ una retribuzione minore rispetto al collega uomo, a parità di mansioni. Perché così si fa, perché tra contratti nazionali e di secondo livello c’è un abisso e questi giochetti retributivi sono assai frequenti.

Il problema non è solo l’occupazione, ma quale occupazione, la sua qualità e la sua remunerazione, quanto vieni valorizzata oppure devi semplicemente adattarti, prendere o lasciare. Con differenze regionali che pesano tanto e creano vere e proprie discriminazioni nelle discriminazioni.

Prosegue il percorso iniziato a ottobre in regione Lombardia, fortemente voluto e portato avanti dalla consigliera Paola Bocci (qui il primo step), sul tema del gender pay gap.

Il divario retributivo di genere misurato dalla Commissione europea è la differenza nella retribuzione oraria lorda tra uomini e donne, trasversale ai vari settori dell’economia. Il divario retributivo di genere medio in Italia è del 5,3% (Il divario retributivo di genere medio nell’UE è del 16,2%).

(Per approfondire i dati a livello europeo qui e qui trovate la documentazione).

Ma la misurazione sulla paga oraria lorda non è sufficiente. Tenendo insieme la differenza sulla retribuzione oraria (differente tra pubblico e privato), sul numero di ore lavorate (molte donne hanno un part-time involontario) e il tasso di occupazione (uno dei più bassi in Europa), la disparità complessiva è decisamente più alta e il divario retributivo annuale medio arriva al 43,7% .

“Nel 2017 l’UE ha presentato un piano d’azione per colmare il divario retributivo tra donne e uomini. Il piano affronta questioni quali gli stereotipi e l’equilibrio tra vita professionale e vita privata e invita i governi, i datori di lavoro e i sindacati ad adottare misure concrete per garantire che la retribuzione delle donne sia determinata in modo equo.”

La situazione è meno grave nel settore pubblico (l’anzianità è spesso uno dei parametri della retribuzione), mentre nel privato (laddove spesso il guadagno dipende da fattori come straordinari, flessibilità, trasferte, che penalizzano le donne) si accentua. Così come il gap è più elevato ai livelli apicali (con ricadute anche sulla possibilità di influire su politiche aziendali).

Angela Alberti, del coordinamento donne Cisl Lombardia, nel suo contributo al dibattito avviato dalla consigliera Paola Bocci, ha precisato:

“Nonostante l’articolo 37 della Costituzione che recita “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore” e l’accordo interconfederale del luglio 1960 che ha posto fine a contratti collettivi di lavoro con tabelle salariali diversificate fra uomini e donne, questo fenomeno è ancora presente e diffuso, nel nostro paese come in Europa. La differenza di stipendio si manifesta già sulla paga oraria (dati Eurostat) e viene poi ampliata da altri fenomeni (quali ad esempio il minor tasso di occupazione).”

Inoltre, occorre concentrarsi sul fatto che l’evento che accentua e aggrava la situazione è la maternità, che crea di fatto conseguenze difficilmente sanabili e reversibili.

“Uno studio preliminare dei dati amministrativi dell’Inps, svolto all’interno del programma VisitInps, permette di stimare l’effetto della nascita di un figlio sulle carriere dei genitori e quantificare così la penalizzazione femminile in termini di reddito da lavoro.”

Cosa accade al reddito da lavoro di una donna intorno alla nascita del figlio?

“il ritorno ai livelli precedenti la maternità avviene solo dopo circa venti mesi, rispecchiando un lento rientro al lavoro, la riduzione delle ore lavorate e il rischio di lasciare o perdere la propria occupazione. La probabilità di lavorare con un contratto a tempo indeterminato o a tempo pieno, infatti, si riduce, dopo 36 mesi, rispettivamente dell’11 e del 16 per cento, mentre in media i giorni lavorati diminuiscono del 5 per cento. Se si considera l’andamento crescente del reddito nei tre anni che precedono l’inizio del congedo di maternità (….), lo scenario si aggrava: oltre al lento ritorno ai livelli precedenti la maternità, la nascita del figlio apre un divario fra il reddito percepito dalla donna e quello che avrebbe ricevuto in assenza della nascita – ipotizzando un trend costante – e il divario non si colma nel tempo.”

Le norme in Italia non mancano, ma occorre spingere per una loro piena e concreta applicazione.

La legge 125/91 rafforza il concetto con Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro: favorendo sulla carta misure di conciliazione (diversa organizzazione aziendale), istituendo il comitato Pari opportunità a livello nazionale e rafforzando il ruolo e l’operatività della figura regionale della Consigliera di parità.

Secondo l’articolo 46 del D.L. 11 aprile 2006 n. 198 – Codice per le pari opportunità fra uomini e donne – le aziende pubbliche e private che occupano oltre 100 dipendenti sono tenute a redigere un rapporto almeno ogni due anni sulla situazione del personale maschile e femminile, compresa la retribuzione effettivamente corrisposta (vi anticipo che a breve pubblicherò un approfondimento riguardante la Lombardia).

Considerando la composizione aziendale più diffusa in Italia, sarebbe auspicabile ampliare la platea di imprese coinvolte in questa indagine, includendo anche piccole realtà (chiaramente semplificandone la compilazione), in modo da avere un’analisi più completa.

Assolombarda spiega il suo punto di vista e a proposito di differenziali tra uomini e donne, anche a parità di mansioni svolte, li giustifica:

“alla luce di fattori che oggettivamente influiscono sull’evoluzione professionale: discontinuità legate alle maternità che rallentano l’accumulo di esperienza, la cura della famiglia che si traduce in vincoli alla mobilità e/o minori disponibilità in termini di orari di lavoro limitando così le scelte professionali, ecc.”

In pratica, ci sarebbero fattori che per l’imprenditore sono cruciale nel determinare la retribuzione: dal livello di scolarità, all’esperienza nel ruolo, al grado di qualificazione, ai livelli di responsabilità.

Quindi sembrerebbe una cosa “giustissima” penalizzare le donne, che chiaramente hanno una carriera più discontinua poiché si devono tuttora assumere quasi totalmente i compiti di cura (secondo l’ultimo rapporto Censis “l’81% delle donne cucina e svolge lavori domestici ogni giorno e al 97% di esse è demandata la cura dei figli”). Equo no?

Se ci capita di parlare nelle scuole medie o superiori di questi temi, troveremo più o meno le stesse considerazioni “imprenditoriali”: le ragazze e le giovani donne spesso sottovalutano il problema e a volte viene dato per immutabile, come qualcosa di connaturato al genere. In pratica spesso ci si ferma ben prima di iniziare a lottare per invertire lo status quo, sia in termini di compiti di cura che di parità nel mondo del lavoro. L’indifferenza e la rassegnazione non possono essere la risposta.Soprattutto, occorre capire cosa avviene nella contrattazione di secondo livello, come viene costruita la parte variabile della retribuzione, come vengono gestite le premialità ecc.

Colmare il divario retributivo di genere, il gender pay gap, è al centro dell’impegno dell’Ue, ma occorre un impegno a tutti i livelli nazionali, e quello regionale non può certo sottrarsi a questa sfida non rinviabile.

Dopo un lungo percorso di studi, incontri e analisi, coordinato e curato da Paola Bocci (qui La pubblicazione – https://www.pdregionelombardia.it/pubblicazione2-30aprile-post-stampa/), è stata elaborata una proposta di legge regionale, presentata alla stampa lo scorso 3 maggio.

 

 

Questo testo andrebbe a modificare la legge regionale quadro sul mercato del lavoro in Lombardia, la l.r. 22 del 28 settembre 2006. Tale legge, all’articolo 22 elenca le azioni per la parità di genere e la conciliazione tra tempi di lavoro e di cura, ma non prevede azioni specifiche per il raggiungimento della parità retributiva. È arrivato il momento di attivare azioni positive e provvedimenti mirati a ridurre il divario retributivo, agendo su diverse linee di intervento.

In primis occorre far emergere maggiormente il fenomeno, attraverso una maggiore trasparenza dei dati raccolti e pubblicizzazione/diffusione del rapporto biennale redatto dalle imprese con più di cento dipendenti e della Relazione della Consigliera regionale di Parità.

Come secondo elemento, è necessario dare sostegno e impulso all’orientamento agli studi e ai percorsi di formazione delle ragazze, che le prepari alle qualifiche professionali più richieste dal mercato del lavoro. Quindi contrasto alla segregazione di genere negli studi e aiutare le donne a migliorare le proprie capacità di contrattazione e avanzamenti di carriera.

“In Lombardia le studentesse universitarie sono oltre la metà (54%), ma solo il 33% sceglie una laurea STEM fra scienza, tecnologia, matematica e ingegneria, dove – nel caso specifico – abbiamo un tasso ancora inferiore del 24%.”

Stiamo attenti anche a legare troppo studi-richieste del mondo produttivo, perché queste ultime cambiano rapidamente e spesso non è facile prevederne gli sviluppi. Quindi un ruolo centrale sarà determinato dalla formazione continua e permanente. E poi, occorre sempre tenere presenti le inclinazioni personali che permettono anche di finire gli studi, perché scegliere unicamente in funzione di un ipotetico sblocco lavorativo può rivelarsi a volte controproducente e non portare a nessun risultato.

Dobbiamo altresì intervenire su un dato assai preoccupante:

“Quattro giovani donne italiane su dieci fra i 25 e i 29 anni sono “inattive”, cioè non studiano, non lavorano, non cercano lavoro. Sono le cosiddette NEET. Fra i ragazzi della stessa età la percentuale è del 28%, che pone questo gender gap al quinto posto fra i più alti dell’area OCSE. I dati parlano chiaro: per le giovani donne dunque vale l’adagio: meno studi, meno lavori e se lavori si va allargando il gap con i coetanei uomini: il divario fra tassi occupazionali di maschi e femmine è maggiore dove si studia di meno. In altre parole, lo svantaggio si accumula nel tempo.”

Il terzo livello di intervento riguarda il supporto a enti locali e imprese che promuovono la parità di genere anche salariale, attraverso:

– la costituzione e allo sviluppo di reti di imprese locali,

– l’istituzione di un Albo delle imprese virtuose,

– l’introduzione di premialità (da concordare con sindacati e associazioni datoriali, che possa anche incentivare a fini di ritorno d’immagine per le aziende),

– l’introduzione di una giornata dedicata,

il tutto avvalendosi di finanziamenti del Fondo Sociale Europeo e finanziamenti propri regionali.

La quarta linea di intervento è costituita da un insieme di azioni di sostegno al reddito per periodi temporanei, per integrare reddito e contributi previdenziali in caso di utilizzo di congedi parentali e di lavoro part-time o astensione facoltativa per motivi di cura e assistenza di familiari. A questo si aggiungerebbero percorsi di formazione e aggiornamento per chi rientra al lavoro dopo la maternità o assenze per cura di familiari.

È stato stimato un fabbisogno di spesa di 3 milioni di euro l’anno.

E per sviluppare azioni di promozione, sensibilizzazione, verifica e monitoraggio si prevede l’istituzione di un Tavolo di lavoro permanente che coinvolga Regione, organizzazioni sindacali, associazioni datoriali, università, CPO (Consiglio per le Pari Opportunità), Consigliera Regionale di Parità.

Dopo il deposito della proposta di legge, sarà necessario che si crei un consenso per discuterlo prima in commissione e poi in aula. Ci si augura una collaborazione dell’assessora alle Politiche per la Famiglia, Genitorialità e Pari Opportunità Silvia Piani e dell’assessora all’Istruzione, Formazione e Lavoro Melania De Nichilo Rizzoli.

Questo significa fare la differenza in politica, questo è il lavoro che ci aspettiamo che donne nelle istituzioni portino avanti, quindi grazie a Paola Bocci per aver saputo costruire, con metodo e convintamente, questo percorso, conclusosi con una proposta concreta e ben articolata. Abbiamo bisogno di capacità di questo calibro.

Il mio auspicio è che questa attenzione dedicata alle condizioni di vita delle donne si diffonda sempre più e che non siano considerate materia di serie b. La spinta propulsiva dobbiamo darla noi donne e dobbiamo accorgerci dell’importanza cruciale di questi aspetti, ne va del nostro futuro e di quello delle donne di domani. Sentire donne che continuano ad attraversare l’attività politica e le istituzioni in modo neutro, senza mai portare qualcosa di proprio o curarsi di adottare un approccio di genere, è assai triste e direi anche alquanto inutile. Aver cura di questi temi non è ghettizzante come qualcuno/a pensa e afferma, è ciò che hanno bisogno le donne e gli uomini di questo Paese.

Perché il benessere delle donne, la parità e la partecipazione eguale a tutti gli ambiti di vita fa bene a tutta la società. Uomini abbiamo bisogno che questo cammino lo facciate insieme a noi!

 

Per approfondire la proposta di legge regionale a prima firma Paola Bocci:

https://www.pdregionelombardia.it/conf_stampa_gpg-3maggio19/

https://paolabocci.wordpress.com/2019/05/03/un-progetto-di-legge-regionale-per-raggiungere-la-parita-salariale-materiali-e-comunicato-stampa/

https://www.pdregionelombardia.it/16147/

 

 

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Lavoro, statistiche e donne. Come stiamo?


È da poco passato il 1 maggio, festa dei lavoratori e delle lavoratrici. Come ogni anno si adopera questa data per fare bilanci e riflessioni sullo stato di salute della nostra occupazione e le domande sono sempre le medesime, con al centro il grande buco nero dell’occupazione femminile. Ho pensato che fosse utile scandagliare vari aspetti.

Secondo una ricerca Open Polis pubblicata il 30 aprile scorso, si rileva che:

“L’Italia è uno dei paesi europei con i livelli più bassi di occupazione femminile. Rispetto a una media Ue di 66,5 occupate ogni 100 donne tra 20 e 64 anni, il nostro paese si trova al penultimo posto con il 52,5%, appena sopra la Grecia (48%) (mentre, secondo i dati Istat del 2018 il tasso di occupazione è del 67,6% per gli uomini e del 49,5% per le donne tra i 15 e i 64 anni). L’Italia è anche il secondo paese con il più ampio divario occupazionale uomo-donna: 19,8 punti differenza rispetto a una media Ue di 11,5. Per fare un esempio, nei paesi scandinavi e del nord Europa le differenze sono molto più contenute: 1 punto in Lituania, 3,5 in Finlandia, 4 in Svezia. Il gap occupazionale aumenta se si confrontano i soli uomini e donne con figli. Rispetto a una media europea di 18,8 punti percentuali di distanza tra padri e madri occupate, l’Italia si trova al di sopra di quasi 10 punti (28,1). Un dato in linea con quello della Grecia e molto distante dagli 8,3 punti di differenza della Svezia.”

Il divario nella fascia di età 20-49 anni tra gli uomini e le donne con almeno un figlio (2017) è di 30 punti.

FONTE: elaborazione openpolis - Con i bambini su dati Eurostat (ultimo aggiornamento: mercoledì 13 Febbraio 2019)

FONTE: elaborazione openpolis – Con i bambini su dati Eurostat
(ultimo aggiornamento: mercoledì 13 Febbraio 2019)

 

“Lo squilibrio è ancora più significativo se si confrontano le occupate rispetto al numero di figli. Nel nostro paese le donne tra 20 e 49 anni senza figli lavorano nel 62,4% dei casi, contro una media europea del 77,2%. Tra le donne con un figlio, le italiane lavorano nel 57,8% dei casi, contro l’80,2% nel Regno Unito, il 78,3% in Germania, il 74,6% in Francia.”

FONTE: elaborazione openpolis - Con i bambini su dati Eurostat (ultimo aggiornamento: mercoledì 13 Febbraio 2019)

FONTE: elaborazione openpolis – Con i bambini su dati Eurostat
(ultimo aggiornamento: mercoledì 13 Febbraio 2019)

Nei maggiori paesi dell’Unione le donne con due figli partecipano al mercato del lavoro in misura maggiore delle italiane senza figli: +12 punti, se confrontata con Regno Unito e Germania, quasi +16 punti rispetto alla Francia.

Anche quando i figli sono 3 o più, la quota occupazionale femminile non è così dissimile da quella delle donne con un solo figlio in Italia.

Tornando in Italia, si rileva come i territori con più nidi sono spesso quelli dove più donne lavorano.

Continuiamo a ribadire, e i dati ce lo confermano, una relazione tra partecipazione delle donne al mercato del lavoro e diffusione e efficienza dei servizi per la prima infanzia. Nelle 4 regioni (Valle d’Aosta, Umbria, Emilia e Toscana) dove la presenza di asili nido e servizi integrativi per la prima infanzia supera il 33%, il tasso di occupazione femminile supera il 60%. In parallelo laddove mancano o sono carenti tali servizi si registrano i dati occupazionali più bassi (Campania, Sicilia, Calabria e Puglia).

FONTE: elaborazione openpolis - Con i bambini su dati Istat (ultimo aggiornamento: domenica 31 Marzo 2019)

FONTE: elaborazione openpolis – Con i bambini su dati Istat
(ultimo aggiornamento: domenica 31 Marzo 2019)

 

 

FONTE: elaborazione openpolis - Con i bambini su dati Istat (ultimo aggiornamento: lunedì 15 Aprile 2019)

FONTE: elaborazione openpolis – Con i bambini su dati Istat
(ultimo aggiornamento: lunedì 15 Aprile 2019)

 

Sono anni che si sottolinea come uno degli strumenti per veder lievitare l’occupazione femminile sia quello di fornire supporti per la conciliazione, per permettere a chi non alternative e soggetti a cui affidare i figli, di trovare quanto meno una risposta da parte di uno stato che martella sulla natalità e sulla necessità di fare figli e poi ti lascia nel pantano.

La Lombardia è un caso a parte, perché l’offerta di lavoro è più elevata che in altre regioni e in cui l’occupazione femminile (tasso occupazione femminile (25-34 anni) è al 67%, pur avendo posti al nido 0-2 anni in misura non eccezionale (28,1 posti autorizzati per 100 bambini di 0-2 anni (2016).

Ovviamente i servizi per la conciliazione naturalmente non possono essere l’unica chiave di analisi e di spiegazione dell’occupazione delle donne. Occorrerebbe pertanto analizzare la composizione del numero di donne che lavorano (non hanno figli? Il livello retributivo (che consente di supplire alla mancanza di servizi pubblici) e il tipo di lavoro svolto, i tempi di spostamento casa-lavoro, presenza di welfare familiare). Milano, per esempio, ha tassi occupazionali femminili maggiori rispetto alla media lombarda, ma un gran numero di loro non ha figli e crescono le famiglie unipersonali.

Quindi per analizzare il livello di occupazione femminile (e i fattori che lo incentivano o lo penalizzano) occorrerebbe andare anche a sondare quali costi e scelte ci sono dietro, anche rispetto a ciò che accade ai lavoratori. La statistica ci può aiutare, ma poi è evidente che le situazioni possono essere molteplici, così come è importante non pensare che tutte le scelte siano libere, quando spesso possono essere “obbligate” da vari fattori. Dobbiamo costruire un sistema che renda le scelte delle donne realmente libere. Così ancora non è visti i risultati del report Le equilibriste – la maternità in Italia (qui qui alcuni dettagli) di Save The Children* che evidenzia come il ricorso al part-time per le mamme sembra una scelta quasi obbligata.

 

Ogni anno continuiamo a vedere pubblicate storie di donne che hanno dovuto lasciare il lavoro. Non siamo affatto un esercito silenzioso. Parliamo noi e parlano i dati annuali. Ciò che manca sono le risposte e l’ascolto. Soprattutto cosa accade quando magari si cerca di rientrare dopo anche un paio o una manciata di anni e ti ritrovi con gli stessi problemi (aggravati) di quando cercavi lavoro e ti domandavano se fossi sposata e se avessi figli. Perché questo è ancora il livello. Non è che non ricevi più chiamate e che queste chiamate si trasformano in una ennesima occasione di umiliazione, perché sei meno appetibile, sei meno competitiva, ti reputano “difficilmente gestibile”. Eppure all’estero non sembrano farsi questi problemi, le aziende sanno che i genitori potranno contare su una rete di servizi di qualità.

Dal 2011 al 2017, secondo le rilevazioni annuali dell’Ispettorato del lavoro, 165.562 hanno lasciato il posto di lavoro, indicando come causa principale “incompatibilità tra l’occupazione lavorativa e le esigenze di cura della prole“. Nell’ultimo rapporto riferito al 2017, con 30.672 dimissioni e risoluzioni contrattuali di lavoratrici madri (il 77 per cento delle 39.738 totali, che comprendono anche quelle dei lavoratori padri) si è registrato il picco degli ultimi sette anni. Una crescita costante, una vera emorragia occupazionale al femminile, causata da problemi di conciliazione. Mantenere il lavoro e trovarne uno è una impresa titanica, e arriva già con il primo figlio. Ma i problemi sorgono anche quando ti devi prendere cura di un familiare malato.

Lo spiega bene in questa intervista Tito Boeri, a proposito di partecipazione delle donne al mercato del lavoro.

Uecoop, l’Unione europea delle cooperative, ha curato una rielaborazione sui dati dell’Ispettorato del lavoro in occasione della Festa della mamma.

“I ritmi della vita moderna, gli impegni sempre più pressanti, la precarietà di molte professioni, le crisi economiche e l’incertezza sul futuro stanno mettendo a dura prova la capacità di resistenza delle famiglie – spiega Uecoop – con il problema di trovare e pagare un posto alla scuola maternaper i figli. Negli asili nido italiani c’è posto solo per 1 bambino su 4, il 24% di quelli fino a tre anni d’età contro il parametro del 33% fissato dall’Unione europea per poter conciliare vita familiare e professionale e promuovere la partecipazione delle donne al mondo del lavoro. Il welfare privatoè ormai complementare rispetto al pubblico per rispondere a una crescente richiesta di servizi – sottolinea Uecoop – e se da una parte il 46% dei benefit più desiderati è legato alle spese scolastiche dei figli per tasse e libri di testo c’è un altro 22% che punta su asili nido e baby sitter. Per questo i servizi di welfare familiare sono sempre più importanti – spiega Uecoop – e quelli legati all’infanzia hanno ormai un ruolo strategico soprattutto in presenza di due genitori che lavorano entrambi e che non hanno parenti a cui affidare la prole nelle ore di assenza fuori casa. Non è un caso che per 6 dipendenti su 10 (59%) al primo posto nella classifica dei benefit aziendali preferiti – spiega Uecoop su dati Ipsos – ci siano quelli legati alle spese familiari, dall’asilo alla scuola dei figli. Infatti. Per rispondere a questa domanda di assistenza – sottolinea Uecoop – sono sempre più diffusi nelle grandi aziende anche asili per i figli dei dipendenti oppure iniziative di mini nido con “tate” che seguono piccoli gruppi di bambini in grandi appartamenti attrezzati. Servizi che sia nel pubblico che nel privato – evidenzia Uecoop – sono spesso realizzati insieme a cooperative in grado di offrire personale già formato e locali adatti. Purtroppo tutto questo a volte non basta e le mamme – conclude Uecoop – si trovano divise tra famiglia e lavoro con la necessità di lasciare il secondo per poter seguire la prima.”

Manca quindi un serio sostegno universale, che non lasci fuori nessuna. Non servono bonus che quando finiscono sei punto e a capo, ma servizi certi e strutturati, accessibili e fruibili da tutti/e.

Per un cambio di mentalità e per far sì che la conciliazione non sia un peso quasi esclusivamente sulle spalle delle donne, come accade ora, ma sia condiviso con il partner, sarebbe utile al più presto adempiere alla direttiva comunitaria recentemente varata in tema di congedi parentali e per i care givers.

Annalisa Rosselli su InGenere ha provato a stimare quanto costerebbero due mesi di congedo di paternità obbligatori.

“Abbiamo fatto un calcolo molto approssimativo (“sul retro di una busta” dicono gli economisti) sui dati del 2018, quando sono nati 449mila bambini. Abbiamo supposto che la percentuale dei padri con un lavoro dipendente sia la stessa che esiste tra tutti gli uomini della fascia di età 25-54 anni, cioè il 58 per cento (dati Eurostat). Quindi se avessimo dovuto pagare due mesi di stipendio al 58 per cento dei padri dei 449mila bambini nati nel 2018, senza fare distinzione tra stranieri e italiani, al salario medio lordo di 18mila euro l’anno il costo sarebbe stato inferiore agli 800 milioni o comunque inferiore, tenendo conto di un ampio margine di errore, a un miliardo l’anno.”

Meno di “quota cento” che beneficia chi ha avuto un percorso di carriera senza “buchi”, ancora una volta in maggioranza uomini.

La partecipazione nel mondo lavoro non è un percorso ancora eguale, ma soggetto fortemente alla dimensione di genere. In un Paese in cui i canali per trovare un lavoro sono spesso ridotti, subordinati a fattori assai poco paritari ed eguali (se non hai contatti, relazioni amicali o parentali…), le donne pur se qualificate e che potrebbero dare un buon contributo, spesso restano a casa.

Tuttora mi tocca leggere ancora inserzioni in cui viene richiesta “bella presenza” o si cerca “ragazza carina” come se fossero skill.

“Mettere ordine nel caos di assegni, detrazioni e bonus ora in vigore per le famiglie, che costano molto ma sono inefficienti, e sostituirli con un unico trasferimento diretto e universale. E investire le risorse che adesso sono destinate a quota 100 in servizi di qualità per la prima infanzia, partendo dalle zone più svantaggiate. In un colpo solo questo consentirebbe di ridurre le disuguaglianze di partenza che penalizzano i figli delle famiglie disagiate, creare domanda di lavoro per le donne e favorire la conciliazione per quelle che hanno redditi bassi e senza servizi sono costrette a smettere di lavorare quando diventano madri”.

la proposta della sociologa Chiara Saraceno.

I dati Censis pubblicati il 3 maggio su tasso attività femminile.

L’importante è tener conto dei vari report e analisi e adoperarli per stilare riforme e politiche attive effettivamente utili per superare i problemi. In pratica, ci si augura che non restino un esercizio di annotazione annuale, una fotografia inutilizzata e messa nello scaffale ad ammuffire.

 

*Le infografiche di Save The Children:

infografica le equilibriste - la situazione delle mamme in Italia 2019 - https://www.contenthubsavethechildren.org/Share/2yo10087t3mi368cvx5sj600f1q85h6i

infografica le equilibriste – la situazione delle mamme in Italia 2019 – https://www.contenthubsavethechildren.org/Share/2yo10087t3mi368cvx5sj600f1q85h6i

infografica Mother's index - la condizione delle mamme in Italia 2019 - https://www.contenthubsavethechildren.org/Share/2yo10087t3mi368cvx5sj600f1q85h6i

infografica Mother’s index – la condizione delle mamme in Italia 2019 – https://www.contenthubsavethechildren.org/Share/2yo10087t3mi368cvx5sj600f1q85h6i

Articolo pubblicato in anteprima su Dol’s Magazine

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Prospettive e propositi

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La Corte di Cassazione ha di recente ritenuto legittimo il licenziamento se l’azienda vuole aumentare i profitti. Una decisione sulla base dell’art. 41 della Costituzione, “se l’attività dei privata è libera, deve esserlo anche la possibilità di organizzarla al meglio.”

Dipende dai punti di vista. Se coltiviamo il miraggio di un sistema liberista che si autoregola, può essere anche una buona notizia. Al contrario ci troviamo di fronte a una ennesima pillola amara che segna l’abisso in termini di diritti dei lavoratori.

Un sistema produttivo estremamente cambiato, in cui il prodotto del lavoro si è smaterializzato, molte tipologie di lavoro sono diventate in via d’estinzione, i lavoratori sono intercambiabili e i contratti sempre più strozzati e al ribasso, le retribuzioni abbastanza ferme e stagnanti verso il basso. In questo contesto si continua a privilegiare il bene dell’impresa, fregandosene del bene dell’individuo che vede precarizzare la sua posizione lavorativa e di vita sine die. Ma sappiamo che il bene dell’impresa ormai si riduce a una navigazione a vista, alla ricerca di incentivi, sponde governative, sgravi, gare, appalti amicali, politici, cessioni di rami di azienda, acquisizioni in cui far affogare le perdite, speculazioni varie. Non importa il futuro. Ci siamo mangiati l’alimentare e tanto altro. Ci siamo mangiati professionalità perché tutti siamo o sembriamo sostituibili e intercambiabili, salvo poi avere risultati mediocri che qualcuno dovrà rattoppare a paghe misere.

Da qui dovremo ripartire, da questa pagina triste per tornare a sanare le ferite di un affievolimento dei diritti dei lavoratori sempre più devastante. Per chi non ha paracaduti.

In questi giorni riflettevo su una questione. Per molte persone è veramente difficile capire di cosa si sta parlando, quali sono i termini reali in gioco, perché non ascoltano. Fanno fatica a comprendere realmente la storia di una persona vicina, una persona che non è stata licenziata, nonostante fosse ancora in vigore l’art. 18, ma che è stata “invitata a dimettersi” se non tornava a “pieno ritmo” dopo la maternità (straordinari non pagati e orari che si dilatavano fino alla sera e nei weekend di lavoro non retribuiti, trasferte prolungate fuori regione e fuori Italia, reperibilità h24). Perché il pieno ritmo è lavorare senza limiti e soprattutto gratis. Una persona che per un po’ ci ha anche provato, che si è vista cancellare premi di fine anno, che a un certo punto ha chiesto un part-time temporaneo per reali esigenze anche inerenti a problemi di salute, vedendosi naturalmente negata questa opzione. Una persona che avrebbe potuto fare causa, ma ha mollato perché aveva ben altri pensieri più urgenti. Certo accade anche di peggio, ma rassegnarci non migliorerà la situazione. E noi donne solitamente siamo coloro che pagano più duramente un arretramento in termini di diritti e tutele.

Di questo dovremo occuparci, in un sistema che premia chi ha le spalle coperte e suggerisce agli altri di arrangiarsi. Un sistema che tiene dentro chi ha protezioni e non qualità. Un sistema che non offre grandi prospettive a chi vuole restare o che non può permettersi di andare all’estero. Un sistema che ignora le conseguenze negative di politiche deboli e poco diffuse di conciliazione e condivisione (molto più di un mini congedo di paternità obbligatorio di due giorni, che si prospetta diventeranno 4 dal 2018, coperture permettendo). Un sistema che non riesce a interpretare le esigenze delle donne che vogliono lavorare e non rinunciare a una vita privata. Per questo dovremo tornare a combattere nel 2017 e negli anni a venire, nonostante qualcuno dica che tornare a garantire tutele ai lavoratori è anacronistico e una zavorra per la ripresa e lo sviluppo economico. Dovremo tornare a ripensare al welfare tutto, pensando a un mondo che è cambiato ma non può rinunciare a garantire diritti e dignità alle persone. Pensando che le disparità non sono affare privato, ma politico.

Non dimentichiamo le parole del ministro Poletti. Non dimentichiamo i differenziali di potere, non facciamoci fregare per le briciole e per una guerra tra poveri, dove trova spazio chi può contare su influenti sponsor. Non dimentichiamo chi vuole rientrare nel mondo del lavoro e trova solo condizioni schiaviste, chi lavora in nero perché altrimenti non lavorerebbe, chi non ha altra prospettiva che un voucher.

Fare politica è innanzitutto porsi in ascolto. Marta descrive bene la situazione del lavoro in Italia. Non cerchiamo la luna nel pozzo, ma quanto meno rispetto per chi resta, per le condizioni che si è costretti ad accettare, per chi va via, per le difficoltà che si assumono. Perché di presa di responsabilità si parla, quando compiamo delle scelte molto spesso dettate dall’esterno, su cui noi abbiamo poco margine per incidere. Ci prendiamo le nostre responsabilità perché in un Paese dove è forte il familismo e l’ascensore sociale bloccato, non siamo rimasti a guardare. Ciascuno di noi ha preso la sua strada, ha investito il suo tempo in anni di studio, ha scelto l’emigrazione interna o all’estero, ha sperato con tutte le sue forze che prima o poi qualcosa sarebbe cambiato in meglio. C’è chi dopo anni di precariato ha visto finalmente arrivare il contratto a tempo indeterminato e poi lo ha visto sgretolarsi all’arrivo di un figlio. C’è tutta la storia di intere generazioni che hanno dovuto cambiare prospettiva talmente di frequente che è diventata un’abitudine non riuscire a programmare non dico il dopodomani, ma nemmeno il domani. Quanto meno lasciateci la dignità, il rispetto di non schernirci, di non abbatterci. Non volete vederci, ma almeno il rispetto dato dal silenzio. Perché intervenire sul lavoro non può avvenire a suon di bonus, perché il domani si può rendere meno oscuro se tornate a darci i diritti che ci sono stati tolti con la prospettiva di un’economia capace di risolvere le disparità e le differenze sociali. C’è chi è tornato indietro nella scala sociale, nonostante tutti gli sforzi e i sacrifici propri e dei genitori. C’è chi si accontenta di non avere garanzie e tutele pur di lavorare, perché questa è la prospettiva che gli è stata insegnata, a volte l’unica che ha conosciuto. Perché ci sono comparti in cui non arriva più nemmeno il sindacato, fortini dei “Padroni” dove la contrattazione avviene tra datore e prestatore di lavoro, senza intermediari, col nodo scorsoio che si stringe al collo, un affitto da pagare, una cig in corso da cui scappare (dal 2017 la Naspi, l’indennità di disoccupazione, sostituirà la cassa in deroga), una famiglia da mantenere. Se questi sono diritti, se questa può definirsi normalità. E intanto ti senti ripetere che questo è quello che c’è per chi non ha le spalle coperte. Se sei una donna le prospettive le viviamo sulla nostra pelle, scavano fino a riportarci nei nostri ruoli secolari. Per questo ho firmato per i referendum Cgil. Perché la nostra dignità è stata calpestata a favore del mercato e della concorrenza. Mi rimane solo l’orgoglio di aver trovato lavoro sempre con le mie sole forze, senza bisogno di sponsor familiari o amicali. Così continuo a far politica. Irrisa sì, ma libera da catene. Capace di un senso critico autonomo che non è servo di nessuno. Capace di evidenziare le cose che non vanno, senza paura di ritorsioni.

Tempo fa una giovane rampolla “lanciata” in politica da illustri capibastone, mi ha detto che le competenze in politica non sono una condizione necessaria, che l’importante è il cognome, la famiglia, le relazioni che può assicurare, il resto poi si farà, se proprio necessario. Una vera e propria resa di fronte a una cultura politica fondamentale, a un progetto, a un sistema di valori, a una direzione politica, a un impegno solido e profondo, con radici solide costituite di approfondimento autentico e personale, non finalizzato a una tornata alle urne o al mantenimento di bacini elettorali. Se non abbiamo una direzione e obiettivi di lungo periodo, una cultura politica che ci faccia da guida e legittimi le nostre scelte, senza costruire benessere diffuso e progettualità che salvaguardino tutti i cittadini, si tornerà (si è già tornati) alla politica delle clientele, degli scambi, del potere di capibastone e gestori di bacini elettorali, delle strane interconnessioni tra interessi privati e individuali e politica, di una prevalenza delle reti amicali, familiari e clientelari. Non risponderemo che a questo sistema, tralasciando tutte le istanze reali di tante/i cittadine/i.

Ogni tanto sarebbe utile allargare lo sguardo e capire che la crescita economica da sola non basta ad affrontare e risolvere la crescente disuguaglianza, che aumenta e non si risolve a suon di PIL. La politica si deve occupare anche di altri fattori se non vuole aumentare la forbice delle diseguaglianze.

Vi riporto questo articolo del Wef. Ogni tanto leggere non guasta per chi fa politica. Perché non si fa politica limitandosi a guardare ombre di realtà in una caverna buia. La realtà va compresa immergendovisi e comprendendo le istanze, ascoltandola e guardandola con i propri occhi, senza filtri.

“Un quarto di secolo dopo la pubblicazione nel 1990 del primo Human Development Report, il mondo ha fatto importanti passi nella riduzione della povertà, per migliorare la salute, l’istruzione, le condizioni di vita di centinaia di milioni di persone.Tuttavia è impressionante osservare come miglioramenti di questo tipo non siano stati equamente distribuiti. Permangono profonde disparità di sviluppo umano nei e tra i Paesi.

L’aspettativa di vita dei bambini come sappiamo non è omogenea, con fattori discriminanti che riguardano non solo il Paese di nascita, il reddito familiare, ma anche il livello di istruzione delle madri.

(…)

Queste differenze derivano da una serie di motivi. Esistono “disuguaglianze verticali”, causate da una distribuzione del reddito distorta, così come “le disuguaglianze orizzontali”, derivanti da fattori razziali, di genere ed etnia, e quelle che si formano tra le comunità, a causa della segregazione residenziale.

Molte persone sperimentano diverse e contemporanee forme di discriminazione, e il grado di esclusione è il risultato dell’interazione tra le diverse forme di discriminazioni. Una combinazione di disuguaglianze verticali e orizzontali possono causare forme di esclusione ed emarginazione estreme, che a loro volta perpetuano povertà e disuguaglianze di generazione in generazione.

Fortunatamente, il mondo è diventato sempre più consapevole degli effetti perniciosi della disuguaglianza sulla democrazia, la crescita economica, la pace, la giustizia e lo sviluppo umano. È diventato chiaro che la disuguaglianza erode la coesione sociale e aumenta il rischio di violenza e instabilità.

In ultima analisi, le politiche economiche e sociali hanno due facce della stessa medaglia.

Oltre al dibattito morale per ridurre le disuguaglianze, vi è anche quello economico. Se la disuguaglianza continua ad aumentare saranno necessari indici di crescita più elevati per sradicare la povertà estrema, che se i vantaggi economici fossero più uniformemente distribuiti.

Alti livelli di disuguaglianza sono correlati alla presenza di élite di potere che intendono unicamente difendere i propri interessi, bloccando le riforme egualitarie. Il problema non è solo di disuguaglianza, ma di come essa ostacoli il perseguimento di obiettivi collettivi e del bene comune; inoltre erige ostacoli strutturali allo sviluppo, per esempio, attraverso la tassazione insufficiente o regressiva e blocchi degli investimenti nel campo dell’istruzione, della sanità, o delle infrastrutture.

La crescita da sola non può garantire la parità di accesso a beni e servizi pubblici di alta qualità; sono necessarie politiche adeguate. La recente storia dell’America Latina, la regione più diseguale del mondo, fornisce un buon esempio di ciò che è possibile quando sono messe in atto certe politiche. La regione ha visto significativi miglioramenti in ambito di inclusione sociale, durante il primo decennio di questo secolo, attraverso una combinazione di dinamismo economico e di impegno politico per la lotta alla povertà e disuguaglianza, come i problemi interdipendenti.

Grazie a questi sforzi, l’America Latina è l’unica regione al mondo che è riuscita a ridurre la povertà e la disuguaglianza, pur continuando a crescere economicamente. Più di 80 milioni di persone sono entrate nella classe media, che per la prima volta ha superato la quota di popolazione dei poveri.

A dire il vero, alcuni hanno sostenuto che questo è stato reso possibile dalle condizioni esterne favorevoli, compresi i prezzi elevati delle materie prime, il che ha sostenuto l’espansione economica. Tuttavia, il World Bank’s LAC Equity Lab conferma che la crescita spiega solo una parte dei guadagni sociali dell’America Latina. Il resto è frutto della redistribuzione attraverso la spesa sociale.

Infatti, politiche progressiste erano al centro dell’espansione economica stessa: una nuova generazione di lavoratori più istruiti ha fatto ingresso nella forza lavoro, in grado di guadagnare salari più alti e raccogliendo dividendi di spesa sociale. I maggiori incrementi salariali si sono verificati nelle fasce di reddito più basse.

Ora che l’America Latina è entrata in un periodo di crescita economica più lenta, questi risultati sono stato messi alla prova. I governi hanno meno spazio fiscale, e il settore privato è meno in grado di creare posti di lavoro. Gli sforzi per ridurre la povertà e la disuguaglianza sono a rischio di stallo – o anche di perdere le conquiste fatte a fatica. I politici della regione dovranno lavorare duramente per mantenere i miglioramenti dello sviluppo umano a lungo termine.

L’importanza di affrontare le questioni legate alla disuguaglianza è sancita negli ideali della Rivoluzione francese, nelle parole della Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, e negli obiettivi per uno sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. Uno sforzo fondamentale per plasmare non solo un mondo giusto, ma anche pacifico, prospero e sostenibile. Se, come la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani dice, “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”, non dovremmo tutti essere in grado di continuare a vivere in quel modo?”

 

Un augurio per un 2017 in grado di mettere seriamente come priorità la lotta alle discriminazioni e alle disuguaglianze. Un 2017 che sappia essere ACCOGLIENTE e migliore per tutti. Per una vita dignitosa per tutti, nessuno escluso.

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Sulle molestie nei luoghi di lavoro l’Italia si allinea all’Europa

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Qui di seguito una versione più estesa dell’articolo pubblicato su Dols Magazine qui.

 

Un patto, un punto di incontro, una chiara intesa di collaborazione tra le parti sociali sul tema delle molestie e le violenze sul lavoro. Di questo si è parlato lo scorso 14 novembre all’interno del convegno tenutosi presso Palazzo Pirelli. Il pezzo è un po’ lungo, ma rappresenta un quadro utile della situazione attuale, su un tema che a mio avviso non ha ricevuto il giusto rilievo.

All’interno della Legge Regionale 3 luglio 2012, n. 11 – Interventi di prevenzione, contrasto e sostegno a favore di donne vittime di violenza, troviamo un chiaro riferimento anche al tema del convegno:

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Con l’Accordo siglato il 26 aprile 2016 Assolombarda Confindustria Milano Monza e Brianza, con Cgil Camera del Lavoro Metropolitana di Milano, Cisl Milano Metropoli, Uil Milano e Lombardia hanno recepito l’Accordo Quadro della parti sociali europee del 26 aprile 2007 e dell’Accordo Quadro sulle molestie e la violenza nei luoghi di lavoro del 25 gennaio 2016 tra Confindustria e CGIL, CISL e UIL.

Il documento vuole diffondere una cultura che prevenga e contrasti ogni atto o comportamento che si configuri come molestia o violenza nei luoghi di lavoro.

A tale fine si sostiene la necessità di promuovere iniziative di informazione e formazione all’interno delle aziende, anche utilizzando gli strumenti previsti dalle norme vigenti e dai contratti in materia di aggiornamento formativo. Vengono, inoltre, identificate strutture interne e esterne all’azienda alle quali le lavoratrici e i lavoratori vittime di molestie o di violenza possono liberamente rivolgersi per affrontare le problematiche dirette ed indirette collegate al tema, nel rispetto della discrezione necessaria al fine di proteggere la dignità e la riservatezza dei soggetti coinvolti. Viene anche istituito un tavolo di monitoraggio che, attraverso una valutazione del fenomeno, sia in grado di proporre azioni di sensibilizzazione degli attori che si occupano del tema a vario titolo sul territorio. A tal fine le parti firmatarie si impegnano ad incontrarsi semestralmente presso la sede di Assolombarda.

Esistono già buone pratiche aziendali, si pensi ai Comitati unici di garanzia (CUG) previsti da Regione Lombardia in ambito sanitario.

Le molestie sul lavoro sono figlie di rapporti di potere e di squilibri tra i generi. Esistono forme di violenza più nascoste e pertanto più difficili da combattere.

La professoressa Manuela Lodovici dell’Univesità Cattolica del Sacro Cuore di Milano ha rilevato come ci sia poca consapevolezza della gravità del fenomeno, dei costi non solo economici ma individuali ed aziendali che comporta. Per questo è necessario intervenire. L’ultima indagine Istat in materia risale al 2010 sugli anni 2008-2009, su 24 mila 388 donne di età compresa tra i 14 e i 65 anni. È difficile percepire la gravità di simili atti di violenza da parte delle donne, dell’azienda e della collettività. Spesso sono proprio le molestie psicologiche quelle più complicate da dimostrare e quindi che vengono denunciate.

Il fenomeno e i numeri

Dall’ultima indagine Istat emerge che:

“Circa la metà delle donne in età 14-65 anni (10 milioni 485 mila, pari al 51,8 per cento) hanno subito nell’arco della loro vita ricatti sessuali sul lavoro o molestie in senso lato come pedinamento, esibizionismo, telefonate oscene, molestie verbali e fisiche.

Negli ultimi tre anni sono state 3 milioni 864 mila (il 19,1 per cento del totale) le donne di 14-65 anni ad aver subito almeno una molestia o un ricatto sessuale sul lavoro. Le più colpite da questo fenomeno sono le ragazze di 14-24 anni (38,6 per cento).”

“Sono 842 mila (il 5,9 per cento) le donne di 15-65 anni che, nel corso della vita lavorativa, sono state sottoposte a ricatti sessuali sul posto di lavoro, l’1,7 per cento per essere assunte e l’1,7 per cento per mantenere il posto di lavoro o avanzare di carriera. Le donne a cui è stata chiesta una “disponibilità sessuale” al momento della ricerca del lavoro risultano essere quasi mezzo milione, pari al 3,4 per cento. Negli ultimi tre anni sono state 227 mila (l’1,6 per cento) le donne che hanno subito ricatti sessuali; all’un per cento è stata richiesta la disponibilità sessuale al momento dell’assunzione (per un totale di 140 mila donne), lo 0,4 per cento è stato ricattato per essere assunto (per un totale di 61 mila donne) e lo 0,5 per cento per mantenere il posto di lavoro o avanzare di carriera (per un totale di 65 mila donne). Ciò che caratterizza maggiormente le vittime di ricatti sessuali nel corso della vita è il fatto di avere un titolo di studio elevato: le donne che presentano il tasso di vittimizzazione più basso hanno, infatti, al massimo la licenza elementare (1,8 per cento nella vita e 0,1 per cento negli ultimi tre anni).”

Le reazioni

Quando una donna subisce un ricatto sessuale, nell’81,7 per cento dei casi non ne parla con nessuno sul posto di lavoro (80,2 per cento negli ultimi tre anni). Solo il 18,3 per cento di coloro che hanno subito ricatti nel corso della vita ha raccontato la sua esperienza, soprattutto ai colleghi (10,6 per cento).

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Quasi nessuna delle vittime ha denunciato l’episodio alle forze dell’ordine. La motivazione più frequente per non denunciare il ricatto subito nel corso della vita è la scarsa gravità dell’episodio (28,4 per cento), seguita dall’essersela cavata da sole o con l’aiuto dei familiari (23,9 per cento), dalla mancanza di fiducia nelle forze dell’ordine o dalla loro impossibilità di agire (20,4 per cento) e dalla paura di essere giudicate e trattate male al momento della denuncia (15,1 per cento). Negli ultimi tre anni, la scarsa gravità dell’episodio (31,4 per cento) e l’essersela cavata da sole o con l’aiuto dei familiari (28,4 per cento) sono in aumento tra le motivazioni della mancata denuncia, così come la paura delle conseguenze per la propria famiglia, mentre diminuiscono le vittime che hanno paura di essere giudicate o trattate male.

 

Le conseguenze

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Le conseguenze e i costi sono difficili da stimare, sia nel breve che nel lungo periodo, per i lavoratori, le imprese e la collettività. Ci sono impatti (le molestie possono riguardare anche gli uomini, ma in maggioranza si tratta di donne) di natura psicologica, fisica, economica (perdita lavoro, contratto, dimissioni) che pesano per lo più sulle donne. Crescono le spese mediche. Ci sono ricadute sulle relazioni familiari, effetti negativi sui colleghi di lavoro, un picco di assenteismo, peggioramento complessivo del clima aziendale, costi legati ai contenziosi, all’immagine esterna dell’azienda.

Il fenomeno è molto presente in ambienti molto competitivi o molto segregati per genere, in cui manca una cultura del rispetto, in fasi di ristrutturazione/cessione/crisi aziendali, in presenza di contratti precari e di una bassa autonomia lavorativa.

Incide anche il sistema di valori e la cultura nazionale italiana: cosa è accettabile o meno cambia da Paese a Paese e se la percezione è diversa, se c’è una minor consapevolezza il risultato è che le donne denunciano meno. Quindi la priorità è sensibilizzare.

Ivana Brunato, segretaria Cgil Metropolitana, ha illustrato l’accordo con Assolombarda. Alcuni CCNL come quello del commercio contenevano già prescrizioni in materia di molestie, prevedendo anche i provvedimenti disciplinari del caso che potevano arrivare anche al licenziamento dell’abusante. Negli enti pubblici nei primi anni 2000 nascevano i primi codici per le pari opportunità che prevedevano codici di comportamento ai quali attenersi.

Non siamo all’anno zero quindi, l’accordo si inserisce in un processo che deve sancire l’esigibilità di un diritto.

Sinora questo fenomeno è stato trattato come un problema legato alla salute. Ma sappiamo come molestie, parità di genere, cultura del rispetto, condivisione dei carichi familiari, quesitoni di genere sono tutti temi strettamente collegati. Occorre potenziare le strutture e servizi in grado di fare da punto di riferimento per le donne che subiscono molestie e violenze sul lavoro, che sappiano avere un approccio adeguato di supporto in questi casi. Naturalmente occorre investire risorse in questa direzione.

Occorre diffondere la consapevolezza che si possono far assistere dalle organizzazioni sindacali (ricordiamo il Centro Donna CGIL di Milano), che verrà garantita la riservatezza, che ci sono strutture di supporto per le vittime, che ci sono le Consigliere di parità, medici competenti, reti istituzionali antiviolenza, centri antiviolenza territoriali.

Ora l’intesa va applicata, promuovendo una cultura della correttezza delle relazioni personali.

Personalmente più che di correttezza parlerei di “rispetto”, che è qualcosa che dovrebbe essere fondamentale e radicata (ndr).

Ci sono risorse sufficienti per prevenzione e contrasto?

Per la formazione si potrebbe ricorrere ai fondi strutturali e di investimento europei e a formule di cofinanziamento pubblico-privato.

Silvia Belloni, avvocata penalista, ha sottolineato l’importanza della corretta descrizione delle condotte (cosa intendiamo per mlestie e violenze) e una definizione di modelli aziendali di contrasto e di intervento.

Viene richiamata la Convenzione di Istanbul che definisce le violenze “violazioni dei diritti umani”, a questo dobbiamo sempre rapportarci.

Occorre aumentare la consapevolezza e la conoscenza del fenomeno, identificare, prevenire e gestire queste violenze. Dichiarare da parte delle parti sociali che certi comportamenti sono inaccettabili è un buon segnale. Individuare gli interlocutori idonei e avere un monitoraggio sarà fondamentale.

Includere la tematica delle molestie nel bilancio sociale delle aziende sarebbe utile.

Oggi è un tema all’interno della tutela del lavoro. Silvia Belloni propone di inserirlo a livello di salvaguardia dei diritti umani.

È importante che sia istituita una figura terza in azienda (come la consigliera di fiducia degli enti pubblici), prevedendo un iter interno ed esterno (giudiziario) di risoluzione.

L’attività di formazione va tarata sulla realtà aziendale, per rilevare le tipologie di molestie più frequenti in quel contesto, adoperando strumenti ad hoc.

A inizio 2016 il Dlgs n.212/15, approvato dal Consiglio dei ministri in attuazione della direttiva UE che istituisce le norme in materia di assistenza e protezione delle vittime di reato, è entrato in vigore.

Il Dgls n.212 modifica la disciplina sulla prova testimoniale e sull’incidente probatorio nell’ottica di una maggiore tutela della persona offesa dal reato. Si vuole preservare la vittima di un reato che decide di deporre come testimone da potenziali ripercussioni negative derivanti da una sua testimonianza. Ne consegue che alla persona offesa è riconosciuto un particolare stato di vulnerabilità. È stato innovato anche il c.p.p.

Art. 90-quater. (Condizione di particolare vulnerabilità).

1. Agli effetti delle disposizioni del presente codice, la condizione di particolare vulnerabilità della persona offesa è desunta, oltre che dall’età e dallo stato di infermità o di deficienza psichica, dal tipo di reato, dalle modalità e circostanze del fatto per cui si procede. Per la valutazione della condizione si tiene conto se il fatto risulta commesso con violenza alla persona o con odio razziale, se e’ riconducibile ad ambiti di criminalità organizzata o di terrorismo, anche internazionale, o di tratta degli esseri umani, se si caratterizza per finalità di discriminazione, e se la persona offesa è affettivamente, psicologicamente o economicamente dipendente dall’autore del reato.

Sono necessari percorsi di sensibilizzazione per prevenire questi fenomeni. Le molestie e le violenze avvengono dentro e fuori i luoghi di lavoro, per questo è necessario impegnarsi per una diffusione della cultura del rispetto, che condanni ogni sopruso.

Maria Antonietta Banchero, dirigente Welfare Regione Lombardia, ha esordito ricordando la Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne (1993).

All’articolo 2 leggiamo:

La violenza contro le donne dovrà comprendere, ma non limitarsi a, quanto segue:

a) La violenza fisica, sessuale e psicologica che avviene in famiglia, incluse le percosse, l’abuso sessuale delle bambine nel luogo domestico, la violenza legata alla dote, lo stupro da parte del marito, le mutilazioni genitali femminili e altre pratiche tradizionali dannose per le donne, la violenza non maritale e la violenza legata allo sfruttamento;

b) La violenza fisica, sessuale e psicologica che avviene all’interno della comunità nel suo complesso, incluso lo stupro, l’abuso sessuale, la molestia sessuale e l’intimidazione sul posto di lavoro, negli istituti educativi e altrove, il traffico delle donne e la prostituzione forzata;

c) La violenza fisica, sessuale e psicologica perpetrata o condotta dallo Stato, ovunque essa accada.

Ha richiamato l’importanza dei Comitati unici di garanzia, obbligatori nelle aziende sociosanitarie e in tutta la pubblica amministrazione. In Lombardia la violenza è stata inserita nella delibera delle regole e negli obiettivi di valutazione a cui sono sottoposti i direttori generali delle Aziende sanitarie (valutazione sulle azioni messe in atto per contrastare la violenza).

Importante è realizzare un sistema di valutazione del rischio nei Pronto Soccorso.

Centrale è la prevenzione, con una dichiarazione esplicita che ci sarà tolleranza zero, con regole per arginare e contrastare il fenomeno.

Inoltre è necessario investire in formazione del management e degli imprenditori. Nelle micro e medie imprese va fatto un lavoro di sensibilizzazione su datori di lavoro e personale.

Viene ribadita la necessità di una figura esterna di controllo e di intervento sulle molestie.

Le lavoratrici vanno sostenute anche dopo l’evento e la denuncia.

Sarebbe utile introdurre nei moduli per la sicurezza e la salute nei luoghi di lavoro, anche un capitolo riservato alle molestie e violenze.

Si ritiene importante anche l’esistenza di formule di mediazione interna aziendale.

Sarebbe altrettanto utile la diffusione della figura del delegato sociale: in pratica si tratta di formare delegati sindacali che siano in grado di porsi come facilitatori per i processi di espressione del disagio e come intermediari tra l’ambiente lavorativo e i servizi sul territorio. Per approfondire qui.

Antonio Calabrò, vicepresidente Assolombarda, ha parlato di civiltà ed etica del lavoro, le persone sono la componente essenziale. Scelte di competitività e di produttività: chi è vittima di molestie produce meno e la qualità generale diminuisce. Si parla di sostenibilità del clima di lavoro e dell’ambiente lavorativo.

La fabbrica bella, il benessere dei lavoratori, con un richiamo a Olivetti.

Ha ribadito l’impegno per un monitoraggio dopo l’accordo sulle molestie. Ha fatto un richiamo sulla necessità di una formazione sui diritti e responsabilità, soprattutto tra le nuove generazioni di lavoratori, diffondendo maggiore consapevolezza sui temi della violenza.

Giuseppe Pitotti, Fondazione Sodalitas, ci ha parlato di etica degli affari, mobbing, cultura dell’organizzazione, conciliazione, sulla necessità di smontare l’abitudine secondo cui chi commette certi abusi la fa franca: comportamenti etici migliorano la reputazione e le performance aziendali.

Approccio che va tarato sull’azienda. Nei codici etici aziendali che vanno costruiti anche dal basso, dalla base dell’organizzazione aziendale. Il comitato etico aziendale deve avere il più possibile un ruolo “terzo”.

È fondamentale dotare le aziende di strumenti per facilitare la denuncia di comportamenti molesti o violenti (speak up policy), che assicurino riservatezza e protezione del denunciante.

Qui alcuni recenti lavori di Sodalitas:

http://www.sodalitas.it/fare/lavoro-e-inclusione/business-and-human-rights

http://www.sodalitas.it/public/allegati/_Human_Rights_Blueprint_2016411103438613.pdf

http://www.sodalitas.it/fare/lavoro-e-inclusione/carta-per-le-pari-opportunita-e-luguaglianza-sul-lavoro

Carolina Pellegrini, consigliera di parità Regione Lombardia, ha riportato la sua esperienza di “trincea” al fianco delle donne che subiscono queste violenze. Ricorda che il fondo delle consigliere di parità non è finanziato da tempo, con impossibilità di ricorrere in giudizio e di sostenere le donne in modo adeguato.

Ha ricordato il comunicato della Conferenza Nazionale delle Consigliere e dei Consiglieri di Parità prendono posizione in merito alla sentenza del Tribunale di Palermo – Sez. II penale – n. 6055/15 del 23 novembre 2015, con la quale si assolve un imputato accusato di comportamenti sessuali lesivi sul luogo di lavoro. Questa purtroppo è la realtà.

Nel codice delle P.O. Legge 198/2006, si parla anche di molestie sul lavoro:

Art. 26.

Molestie e molestie sessuali

(legge 10 aprile 1991, n. 125, articolo 4, commi 2-bis, 2-ter e 2-quater)

1. Sono considerate come discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.

2. Sono, altresì, considerate come discriminazioni le molestie sessuali, ovvero quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.

3. Gli atti, i patti o i provvedimenti concernenti il rapporto di lavoro dei lavoratori o delle lavoratrici vittime dei comportamenti di cui ai commi 1 e 2 sono nulli se adottati in conseguenza del rifiuto o della sottomissione ai comportamenti medesimi. Sono considerati, altresì, discriminazioni quei trattamenti sfavorevoli da parte del datore di lavoro che costituiscono una reazione ad un reclamo o ad una azione volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra uomini e donne.

 

Può essere utile introdurre la questione delle molestie anche a livello di contrattazione di secondo livello.

Il T.U.S.L. all’art. 28 richiama nuove categorie nella valutazione del rischio, connessi alla differenza di genere.

Nel pacchetto di formazione sulla sicurezza andrebbe introdotto un modulo specifico sulle molestie.

È stata ribadita l’importanza della responsabilità sociale di impresa, soprattutto per le Pmi.

Adoperare le reti esistenti per prevenire e contrastare il fenomeno delle molestie, delle violenze e delle discriminazioni (si pensi per esempio la rete territoriale di conciliazione).

Francesca Brianza, Assessora al Reddito di autonomia e Inclusione sociale ha richiamato il bando annuale “Progettare la Parità in Lombardia”, in coerenza con il Piano quadriennale regionale per le politiche di parità e di prevenzione e contrasto alla violenza contro le donne.

 

Per approfondire:

Il blog di Olga Ricci

Rimozione collettiva

 

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Dalla parte delle bambine e delle ragazze

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Lo scorso 11 ottobre, in occasione della Giornata mondiale delle bambine e delle ragazze ho scritto questo articolo per Mammeonline.

Ho focalizzato l’attenzione sul tema del lavoro, una parte molto interessante del rapporto di Terre des Hommes Indifesa.

Questo il mio auspicio:

L’#orangerevolution è nelle nostre mani, per le donne di domani. Istruzione di qualità, formazione e inserimento lavorativo, lotta allo sfruttamento delle bambine e delle donne, lotta alla tratta, alle discriminazioni sostegno ai minori durante le guerre e le migrazioni, azioni di sostegno all’empowerment femminile, tutela della salute, sono tutte leve fondamentali per migliorare le prospettive di vita di tante bambine, le future donne che guideranno il pianeta.

PUOI LEGGERE L’ARTICOLO COMPLETO SU MAMMEONLINE.NET QUI

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#Donne e #lavoro. Rivendichiamo la nostra differenza

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“Il problema è noto ma non è famoso: la questione delle donne che lavorano in Italia è nei fatti un tema un po’ “sfigato”. Non ne parlano volentieri le donne che lo subiscono: preferirebbero essere uguali a tutti gli altri, oppure a quelle donne mitiche che invece “ce la fanno”, non hanno voglia di essere portavoce di quelle che invece no, non ce la fanno, o ce la fanno a stento e, come ha detto Beppe Severgnini, a prezzo di grandi sacrifici. Non ne parlano volentieri neanche le donne che in effetti “ce l’hanno fatta”: intanto hanno fatto una gran fatica e preferirebbero lasciarsi la faccenda alle spalle, e poi è stato provato che le donne che cercano di portare avanti le altre vengono penalizzate in termini di carriera.”

Leggo l’incipit di questo pezzo e penso che la mia percezione è un po’ diversa.

Non è vero che noi donne non ne parliamo volentieri. Ne parliamo eccome, anche se in pochi ci ascoltano. Ne parliamo e c’è chi raccoglie le nostre testimonianze. Ci sono giornaliste brave e attente che se ne occupano, cito una in particolare, Laura Preite che su La Stampa qualche anno fa diete spazio alle nostre storie, con la stessa sensibilità che leggo in ogni suo lavoro giornalistico. Laura Preite torna periodicamente sul tema. Lo dico perché non esistono solo i casi mediatici, raccolti da firme famose, che magari non hanno a cuore nemmeno le nostre storie e i problemi delle donne. Esistono le tante donne che in solitaria vanno avanti e magari decidono che un figlio non se lo possono permettere, schiacciate da una precarietà vera e permanente. Esistono i moduli pre colloquio che sondano la vita privata, numero di figli in primis, quasi come se fosse più importante delle competenze. Parola che a quanto pare interessa ormai a pochi. Così come dedicare la giusta attenzione a ciò che da anni denunciamo, anche se non formalmente, per vie giudiziarie.

Il tema del work-life balance necessita della giusta attenzione, non di riflettori che si accendono una volta all’anno, sull’onda di una polemica. Non dev’essere trendy, deve essere una priorità perché se ne comprende pienamente l’impatto in tanti ambiti. Nella nostra società abbiamo ormai un approccio consumistico per tutto. Se non ci si può lucrare sopra in termini commerciali e di mercato, il fenomeno sembra non esistere. Su questo dovremmo ragionare, sul fatto che per ottenere interventi seri e strutturali sul work-life balance, lo dovremmo far diventare un prodotto che fa tendenza, di cui si parla, non importa come, basta che se ne parli. Ed è qui il problema. L’approccio è sbagliato. Le istituzioni di questo Paese se ne devono occupare perché si tratta dei diritti fondamentali di tutt*, così come ha affermato di recente il Parlamento Europeo. E se ne devono occupare con gli strumenti e l’approccio più adeguati, non per tentativi. Non chiediamo le luci della ribalta, lustrini e paillettes, ma soluzioni che migliorino la qualità della vita di tutt*.

Personalmente di donne e di lavoro ne parlo da anni e non è mai stato un problema. Ne ho passate troppe per starmi zitta. Ho rotto il silenzio da un bel po’… ma in pochi se ne accorgono o fanno finta di niente. Lo faccio in ogni occasione, anche quando vedo lo sguardo basso e indifferente dei miei interlocutori, spesso interlocutrici e questo fa ancora più male.

Personalmente parlo di questi temi e non parlo solo della mia esperienza, ma cerco di fare proposte politiche concrete, che però non vengono ascoltate perché è politicamente più semplice e vantaggioso dare qualche bonus e qualche pacco alimentare, anziché intervenire strutturalmente. Si preferisce investire le risorse pubbliche in misure che possano tornare utili alle successive urne. Così come si dovrebbe parlare di misure per promuovere l’autonomia e l’emancipazione femminile che siano slegate dalla nostra capacità riproduttiva. Ce la fate a capire che non tutte siamo e vogliamo essere madri?

Non è sufficiente parlare di riorganizzazione del lavoro, ma rendere vantaggioso per le aziende italiane creare condizioni di lavoro flessibile, che come ho detto più volte non significa assenza di regole e tutele. Anche perché un full time che finisce alle 20 o alle 21, se va bene, è dimostrato che è improduttivo. Ma li leggete gli studi, le risoluzioni europee che potrebbero darci un indirizzo e una lettura obiettiva del contesto in cui viviamo? Oppure vi piacciono le favole e non volete smettere di credere ad esse? Quindi se volete continuare a torchiare i lavoratori siete liberi, ma sappiate che state sbagliando strada. Mi direte che tanto non pagano più gli straordinari e che quindi le ore extra sono vantaggiose per l’azienda, ma alla fine avrete degli zoombie e non dei lavoratori. Pagateci con i voucher, fateci lavorare in nero, ma poi non puntate il dito contro le nostre scelte di vita e di genitorialità.

Non è un tema trendy perché in Italia si preferisce mettere i problemi delle donne sotto il tappeto o darci qualche obolo per anestetizzarci.

Ogni tanto spunta qualche indagine o studio sul tema, ma siamo pronti a voltar pagina in fretta, dopo aver versato una manciata di lacrime di circostanza.

I problemi che viviamo nel mondo del lavoro non si misurano solo per numero di vertenze o denunce, ma anche per i numeri di dimissioni volontarie che silenziosamente racchiudono mesi, anni di difficoltà, discriminazioni e di soprusi. Perché i tempi della giustizia non permettono di essere ottimista e si preferisce chiudere una fase dolorosa al più presto. Paghiamo le conseguenze anche di una cultura e presenza sindacale sempre meno diffuse, radicate e forti. Quanto sembra lontana l’atmosfera dei tempi di “Sebben che siamo donne” che si univano in lega. Abbiamo delle belle buone lingue, dobbiamo semplicemente ricordarcene e farci sentire.

Non se ne parla a sufficienza perché fondamentalmente si richiede e si pratica il faidate, perché alla fine la qualità e il valore di una donna in Italia si misura ancora in numero di figli (grande disonore per le madri dei figli unici e per loro stessi) e capacità di far tutto senza lamentarsi, compreso per ciò che riguarda il lavoro. Il lavoro, metro di giudizio e di emancipazione unico. Quando in realtà noi donne siamo e possiamo essere tante espressioni diverse, realizzarci in mille modi e trovare risposte soddisfacenti nonostante quello che ci viene chiesto da questa società ferma all’800. Non riusciamo nemmeno a capire che non accadrà niente di buono finché ci faremo appiccicare ruoli e sensi di colpa.

Se c’è una cosa che manca alle donne è il respiro collettivo che dovrebbero avere le battaglie, da vivere e da agire collettivamente. Invece, spesso anche tra donne non c’è solidarietà e ci sono tanti “io ce l’ho fatta” che non parlano mai del prezzo che è costato farcela e dei pezzi che inevitabilmente si son persi per strada.

Non si parla spesso di #conciliazione e di #condivisione perché come molti mi fanno notare, poi ti ghettizi e diventi quasi ridicola nella tua lotta quotidiana. Perché noi donne siamo brave e piacevoli finché non ci lamentiamo. Poi diventiamo scomode, noiose e da marginalizzare. Se non riesci a barcamenarti e non accetti di essere schiacciata, sei un problema, sei la scheggia impazzita di un sistema che non è in grado più di reagire con forza.

Io reagisco con forza, faccio domande scomode e non mi interessa di essere additata come quella che si lamenta e basta. Perché rivendico il diritto a sottolineare che questo Paese ci ha fregate e ci ignora. Esistiamo solo come balie, fattrici e lavoratrici, meglio se sottopagate e sfruttate. Per la serie: “Stai zitta, sacrificati e accontentati.”

Lavoratrici nello Stabilimento Metallurgico Delta di Genova, Cornigliano-1937

Lavoratrici nello Stabilimento Metallurgico Delta di Genova, Cornigliano-1937

 

Non scrivo a Severgnini, preferisco uno spazio più a misura dei miei pensieri e riflessioni, come Mammeonline.net perché so che qui c’è ascolto e attenzione sincere. Grazie di cuore Debora Cingano.

I problemi non sono visibili a sufficienza perché ci hanno convinte che dobbiamo stringere i denti, che tra una o più tate, nonni, badanti per i genitori anziani, nidi, esternalizzazione del problema, orari scolastici dilatati, a suon di denaro possiamo superare le difficoltà. Siamo capaci di impegnarci se ci riducono di un quarto d’ora l’orario di uscita dalla scuola del figlio, ma quando si chiede di ampliare lo sguardo e l’ottica ce ne freghiamo e ognuna torna a pensare per sé. Il discorso del dito e della luna. Ci siamo dimenticate che fare tutto non è la priorità o non ci rende persone migliori, soprattutto non ci assicura risultati migliori. Ci siamo dimenticate di toglierci la corazza del “must” e di indossare un “might”. Ci siamo convinte che la nostra liberazione e parità passassero attraverso un giro nel tritacarne da wonderwoman. Ci siamo dimenticate che la parità prevede un cammino non solo delle donne, ma anche degli uomini, il cui impegno e ruolo deve maturare e deve cambiare. Sembra che giudizio e colpe ricadano sempre e soltanto sulle donne.

Ci ritroviamo con un welfare sbriciolato, non sappiamo più come agire compatte, perché pensiamo che sia inutile, superfluo. Perché il privato ha preso il sopravvento sulla dimensione pubblica. Perché non ci ascoltiamo. Perché l’importante è aver sistemato grossomodo la nostra esistenza. Non importa a che prezzo. Perché biasimiamo sempre le scelte altrui e mai mettiamo in discussione la cultura e gli stereotipi che ci hanno portato a dover far tutto e farlo bene, altrimenti non esistiamo. Esistiamo eccome, dentro e fuori il mondo del lavoro, nelle mille differenti scelte che compiamo. E parliamo, non abbiamo mai smesso di parlare e di studiare, suggerire strade alternative. Che non ve ne siate accorti è il sintomo di come vi rapportate alle donne in questo Paese. Con quello sguardo torvo o indifferente di chi non vuole cambiare realmente le cose, perché altrimenti si dovrebbe pensare come sostituire il welfare familiare gratuito prestato dalle donne. No, troppo complicato superare una volta per tutte la splendida abitudine di scaricare tutto sulle spalle delle donne. Badate bene, questa non è solo la mentalità maschile, ma appartiene anche alle donne, quando continuano a gestire il potere per delega o su modello maschile, contribuendo a mantenere lo status quo immutato. Siamo differenti e non vogliamo essere omologate e racchiuse in ruoli o cliché, rivendichiamo la nostra differenza, uguali diritti e rispetto in ogni ambito, qualunque sia la nostra scelta di vita. Siamo soggetti pienamente titolari di diritti, non subordinati a ruoli o funzioni familiari o materne. Sinora siamo state costrette a integrarci in un modello maschile di lavoro, con tempi e modalità che non hanno contemplato la differenza delle donne. La politica deve lavorare su una uguaglianza più piena e per la concreta autonomia delle donne, indipendentemente dai loro ruoli secolari. Dalla crisi e dai problemi non se ne esce senza donne. Dal 1974 non sembra essere cambiato molto.

1974

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Conciliazione: approcci all’italiana

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L’Europa, lo abbiamo visto nella recente risoluzione del Parlamento, parla di conciliazione in termini di tempo sufficiente da dedicare allo sviluppo personale, quindi dei tempi di lavoro che lo consentano. L’Europa parla di conciliazione come una serie di misure modulari che coprano e si adattino alle esigenze di ciascuno e alle varie fasi della vita.
Conciliazione come concetto e problema ampio. Lotta alle discriminazioni, alle disparità, alla povertà, alla precarietà. Conciliazione in Europa significa condivisione delle responsabilità dei compiti di cura e domestici. Quindi politiche che coinvolgano uomini e donne.
Non c’è un discorso che privilegi una fascia d’età o di reddito, l’approccio deve ricomprendere tutti, “La conciliazione tra vita professionale, privata e familiare deve essere garantita quale diritto fondamentale di tutti”.

Creare dei privilegi definendo chi usufruisce delle misure e chi no, denota uno sguardo chiuso. Le risorse sono poche, ma se guardiamo attentamente, non possiamo continuare con bonus destinati solo alle madri, voucher baby sitter o nidi che non servono e non sono realistici con i costi reali di questi servizi, sconti fiscali per prodotti per la prima infanzia.

Dobbiamo puntare a misure che incentivino la partecipazione delle donne al lavoro, che le aiutino a entrare, restare, rientrare, che incentivino la condivisione, altrimenti lo stereotipo della donna che ha il carico totale dei compiti di cura non si allevierà. La conciliazione non è solo “questione da donne”, per questo dobbiamo parlare anche di condivisione.

Dobbiamo pensare che i compiti di “care” sono molteplici e non necessariamente legati a un figlio. Se facciamo politiche di conciliazione con la sola ottica dell’incremento delle nascite siamo fritti. L’approccio l’ha indicato l’UE, benessere, qualità della vita, approccio modulare per tutte le fasi della vita, abbattimento delle discriminazioni per chi si prende i congedi, sostegno alle madri single, attenzione ai compiti di cura per familiari anziani o malati, contrasto alle discriminazioni per persone LGBTI, lavorare per retribuzioni paritarie, rendere le donne indipendenti economicamente. Tutto questo fa bene al PIL, alle aziende e all’andamento demografico. Ma prima di tutto c’è l’attenzione al giusto equilibrio vita-lavoro.

Il problema della conciliazione non lo si può far coincidere con la prima infanzia, come se una volta superati i 6 anni la strada sia in discesa e non ci fossero più ostacoli. Quando si parla di cicli di vita significa ragionare su politiche che coprano l’intero arco dell’esistenza, in cui i compiti di cura variano.

 

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​La #conciliazione non è un lusso di pochi. La #conciliazione è un diritto fondamentale di tutti.

 

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Italia 2016. Tra fertility day, prestigio della maternità, fertilità bene comune e altre ciliegine “risolte” tutte in “un semplice errore di comunicazione”, “correggeremo la campagna”, va in scena la solita rappresentazione. Per fortuna c’è chi fa notare che l’impianto ideologico alla base del piano nazionale per la fertilità è anacronistico e lesivo per tanti motivi e per tante persone (qui e qui). Sta di fatto che anziché accogliere i suggerimenti, cogliere dalle critiche un approccio diverso e avviare un percorso multidisciplinare, si preferisce far finta di niente. Poi forse si metterà una toppa.

Ci sarebbe bisogno di interventi organici e strutturali, di ristrutturare un welfare sulla base delle esigenze attuali, assicurando a tutt* un buon work-life balance, che non è “quella roba lì da donne”, ma riguarda l’intera comunità.

A quanto pare per l’Unione Europea la parità di genere è una questione centrale e nonostante i suoi limitati poteri di intervento negli ambiti delle politiche del lavoro e sociali, per sussidiarietà ancora in gran parte di competenza degli Stati membri, periodicamente si adopera per poter sollecitare affinché si ragioni e si intervenga per cambiare lo status quo.

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Le nostre scelte riproduttive ci appartengono

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Ci risiamo. Ieri quando ho letto questo pezzo di Enrica di Narrazioni Differenti mi è venuto un déjàvu. Speravo che l’idea che la Ministra Lorenzin coltiva dal 2014 si fosse arenata. Invece no.

Fertility day: la bellezza della maternità e paternità. Affrettatevi, siamo deperibili, prodotti soggetti a scadenza. È sotto i nostri occhi il magnifico Piano nazionale di fertilità del Ministero della Salute. Viene in mente l’immagine di una popolazione assimilata a un campo da preparare per la semina intensiva. Come i piani di bonifica del Duce. Peccato che siamo esseri umani e non acri di terra.
Scarsa natalità? Calo demografico? Una soluzione degna del Ventennio in versione 2.0, quando si incentivavano le nascite e si chiamavano i figli Benito. Una “rieducazione” non richiesta alla maternità, un grande piano nazionale di fertilità con tanto di fertility day il 22 settembre 2016. Cosa facciamo, mettiamo le donne in batteria, come le galline?
Se poi affrontiamo la questione della maternità in età sempre più elevata, la Ministra dovrebbe anche ricordarsi che si diventa mamme più tardi perché studiamo più a lungo, perché il lavoro è precario, scarso, mal retribuito e la stabilizzazione stenta ad arrivare, se arriva. Quindi, se da un lato la fertilità è maggiore da giovani, non è detto che vi siano anche adeguate condizioni di vita.
Siamo un paese in cui i servizi di sostegno scarseggiano e le politiche di conciliazione e di condivisione sono chimere. Insomma, anacronismo e una distanza abissale dalla realtà.
Tra cartoline e fertility game, per lo Stato italiano siamo ancora patrimonio dello Stato, destinate a sfornare figli per la patria. Peccato che non ci si renda conto del contesto, del perché non facciamo figli o della possibilità di scegliere o meno di diventare genitori. Non è mica un destino obbligato.
La nostra fertilità ci appartiene in toto e non è assolutamente un bene comune, per cui nessuno può sostituirsi a noi nelle nostre scelte di riproduzione. Tanto meno lo Stato. Ricordiamo che la Legge 194/78 riconosce alla donna la possibilità di interrompere volontariamente la sua gravidanza.
Essere genitori in Italia non è proprio una passeggiata semplice.
Spesso basta un dettaglio e ti ritrovi con stipendio e carriera bloccate, se non fuori dal mercato del lavoro. Diventare madre è uno di questi motivi. Non ci siamo ancora liberate dal gender gap.
L’Italia può vantare il primato del “costo più basso dei licenziamenti a livello mondiale”.
L’inchiesta de L’Espresso del 2015 parla chiaro: “negli ultimi cinque anni in Italia i casi di mobbing da maternità sono aumentati del 30 per cento. Secondo le ultime stime dell’Osservatorio Nazionale Mobbing solo negli ultimi due anni sono state licenziate o costrette a dimettersi 800mila donne. Almeno 350mila sono quelle discriminate per via della maternità o per aver avanzato richieste per conciliare il lavoro con la vita familiare”.
Ripristinare la normativa contro la pratica delle dimissioni in bianco è stato solo il primo passo, occorre ostacolare le modalità che vengono messe in campo per “invitare” le donne a dimettersi “volontariamente”.
Perché potersi dedicare anche alla propria vita privata non sia un lusso, una strada impraticabile se non a costo della rinuncia al lavoro (ovviamente questo vale per uomini e donne). Un giusto equilibrio non deve essere lo stigma, ma un cambiamento culturale necessario, che produce benefici sul dipendente e ricadute positive sul lavoro. Perché occuparsi di un figlio o di un familiare non può essere considerato una fonte di peso aziendale. Deve cambiare l’organizzazione aziendale oppure perderemo terreno e risorse umane. Quindi lasciateci scegliere e progettare i nostri tempi di vita-lavoro. Sono state presentate anche proposte di legge a riguardo, per fornire sostegni in questi casi.
Quando parliamo di sostegni non parliamo di bonus o di assegni una tantum subordinati a Isee irrealistici. Parliamo di un sistema strutturato, che incentivi a lavorare e dia sostegni concreti, anche di deduzione fiscale significativa. Parliamo di congedi di paternità retribuiti e con durate pari o simili a quelle previste per le donne, per incentivare la condivisione. Parliamo di servizi a prezzi calmierati. Parliamo di permettere a tutti di scegliere soluzioni part-time. Soluzioni che incentivino l’emersione dal nero delle donne che lavorano, rendendolo conveniente, restituendo in questo modo alle lavoratrici i loro diritti.
Non parliamo solo di nidi, perché sappiamo che non sono una soluzione sufficiente (certamente i costi attuali sono troppo elevati e gli orari sono spesso incompatibili con orari di lavoro full-time). Parliamo di flessibilità e incentivi per i genitori, non solo per le mamme.
L’uso dei bonus una tantum, che aiutano a tamponare, ma non rappresentano una soluzione reale dei problemi per cui si sceglie di non fare figli. Serve un approccio redistributivo della ricchezza, che permetta di vivere in condizioni dignitose. Il bonus per le mamme è antitetico a una politica strutturata di fuoriuscita dal bisogno. Si tratta di soluzioni che generano discriminazioni e una volta terminate lasciano il vuoto.
Ci piacerebbe che si parlasse maggiormente di servizi di conciliazione, magari a prezzi calmierati, come per esempio incentivare la creazione di una rete di sostegno di mutuoaiuto tra cittadini (volontaria e gratuita) per rendere più agevoli tanti piccoli aspetti della vita dei genitori. È questione di prospettive favorevoli non solo di breve/brevissimo periodo. Un figlio ha dei “costi” crescenti, di varia natura.
Dobbiamo spiegare e insegnare alle persone che mettere al mondo figli è una responsabilità personale, implica una capacità di comprensione di cosa significa crescere dei figli, crescere che non significa nutrire solo con un piatto di pasta, ma nutrirli culturalmente, trasmettergli un sistema di valori, seguirli, sostenerli, educarli, dargli opportunità per un futuro dignitoso, per essere dei cittadini attivi e non passivi.
Chiediamo alla Ministra Lorenzin come si possono mettere al mondo e crescere i figli se si è senza lavoro, si è precari e la rete dei servizi è spesso carente?
“Negli ultimi 2 anni sono aumentati del 30% i casi di donne licenziate o costrette a dimettersi; almeno 350 mila sono state discriminate per via della maternità”: che fare?
Essere genitori è un compito di responsabilità, ed è il motivo per cui in molti decidono di non potersi permettere questo impegno, perché tante condizioni non lo permettono. Quindi anziché stigmatizzare chi sceglie consapevolmente di non fare figli perché si rende conto del contesto ostile, dovremmo occuparci di diffondere questa consapevolezza e aiutare in modo strutturale le persone. Non basta l’obolo una tantum o il pacco di beni alimentari, che sono ottime soluzioni tampone (senza le quali la situazione sarebbe ancor più drammatica) ma che non risolvono una questione così enorme, difficile, che ha una matrice anche culturale e di mancanza di opportunità reali. Non siamo in grado o non vogliamo guardare alle radici dei problemi. Offriamo piuttosto un sistema efficiente di collocamento o ricollocamento lavorativo con annessa formazione, condizioni di conciliazione reali e alla portata di tutt*, supporti educativi e di sostegno per far maturare una consapevolezza alla genitorialità. Vogliamo sostenere una genitorialità in modo finalmente organico e non emergenziale, come se poi dovesse arrivare una mano divina a risolvere tutto? Certo che se non applicheremo delle misure radicali che vadano a monte delle difficoltà, la natalità continuerà a crollare e chi farà figli sarà alla mercé della buona o cattiva sorte. Esattamente come nell’800. Vogliamo davvero tornare indietro?

Dobbiamo crescere cittadini/e attivi/e e genitori che capiscano pienamente che cosa significa l’impegno di un figlio. Dobbiamo spiegare che dei figli che continuano gli studi saranno dei cittadini migliori, dobbiamo spiegare che la vita di una donna non coincide solo col mettere al mondo figli. C’è altro e ci deve essere altro nella vita delle ragazze e delle donne.
Auspichiamo un futuro diverso, in cui tutti siano resi autosufficienti e consapevoli. Questo è il compito di uno Stato efficiente e lungimirante, questo è il compito di chi si ritiene progressista. Così come dovrebbe essere prioritario osare e spingere verso un reddito di base (articolabile con varie modalità) con programmi di (re)inserimento nel tessuto produttivo e sociale.
Sul tema della conciliazione, vedremo che risultati porterà il Ddl per il lavoro agile o smart working “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”. Il lavoro agile deve essere flessibile e produttivo, fondato su un patto tra datore di lavoro e dipendente proprio per raggiungere questi obiettivi. Flessibilità che fa rima con possibilità di conciliare vita privata e lavoro. Flessibilità del luogo di lavoro che deve tradursi in un aumento della produttività. Agile non significa che non siano previsti periodi in cui lavorare in azienda, per non perdere gli aspetti positivi del lavoro di squadra e dell’affiatamento derivante dall’appartenenza al medesimo progetto aziendale.
Si tratta di un segnale importante di come sia maturato un diverso approccio alle modalità del lavoro e di quanto poco c’entri la produttività con le ore di permanenza nel luogo di lavoro e alla scrivania. Certo lo smart working non è adatto a tutti i tipi di lavoro, non piace a tutti, ma può essere preferito in alcuni periodi della propria vita perché consente di mantenere insieme vari “pezzi” degli impegni quotidiani.
Ripristiniamo il Fondo nazionale per le Consigliere di Parità, figure che intervengono nelle discriminazioni collettive e individuali nel mondo del lavoro e promuovono concrete politiche di pari opportunità di genere.
Meno bonus una tantum e più politiche strutturali e diffuse. Per capirci, facciamo girare ricchezza e risorse, niente pacchetti di aiuto a pioggia, ma frutto di una verifica sul campo e di una strategia di lungo corso. Si chiama politica della redistribuzione, e qualcuno dovrà sacrificarsi o iniziare a pagare equamente, in base alle proprie possibilità. Le risorse di trovano attraverso una seria lotta all’evasione.
Quali potrebbero essere le soluzioni alternative per una efficace azione informativa ed educativa?
Vi ricordate i consultori? Ebbene, se funzionassero ancora, con le caratteristiche originarie (luoghi nati dal lavoro delle donne, come spazi per le donne, per una sessualità vissuta liberamente, senza le coercizioni di stampo patriarcale) e fossero attivi e presenti con sufficienti e adeguate risorse sui territori (ricordiamo che la copertura prevista non è stata mai raggiunta), forse non avremmo bisogno di una campagna ministeriale ad hoc e di un ennesimo giorno dedicato a un tema che dovrebbe essere parte della cultura di base di ciascun individuo.
E non è certo accettabile che questa campagna, così strutturata, con questo approccio, possa essere diffusa dai consultori o dalle scuole.
Preoccuparsene in questo modo non so che senso possa avere, se a monte, nei restanti 364 giorni non si fa educazione a una sessualità consapevole e responsabile, nelle scuole e nei centri frequentati dai ragazzi, anche e soprattutto in pre-adolescenza. Incoraggiare le persone a prendersi cura della propria salute, fare prevenzione, diagnosi precoci di eventuali patologie è una cosa sana (se non è finalizzato a un disegno riproduttivo “obbligato”), ma allora perché non investire seriamente nei consultori e nei servizi preposti? Certe informazioni devono essere fornite in modo capillare e permanente, è un lavoro di cui devono occuparsi i consultori laici, perché la laicità deve essere nel dna di uno Stato che vuole trasmettere i giusti messaggi ai propri cittadini. Non lasciate che il lavoro e le caratteristiche originali dei consultori vadano lentamente disperdendosi e che al loro posto restino solo delle campagne una tantum, con approcci di questo tipo. La cura e la conoscenza di sé, del proprio corpo, dei propri desideri non la si fa con un fertility day, ma si diffonde consapevolezza, si diffonde un messaggio che sappia accogliere ogni scelta e non sia ansiogeno come quello di una clessidra, che per chi ha costruito la campagna può anche sembrare innocuo, ma non lo è. Non si può entrare a gamba tesa, a freddo, nelle esistenze delle persone, il lavoro da fare è più ampio e strutturato. Soprattutto lasciando sempre libertà di scelta, se diventare o meno genitori. Facciamo entrare dei messaggi di questo tipo nelle scuole, perché ci sia consapevolezza, ma non si veicolino ruoli e destini predeterminati. La resistenza a una educazione sessuale e affettiva con un approccio laico, tra i NoChoice e la fantomatica teoria gender, produce disastri. Se questa è la modalità con cui si intende fare propaganda, non ci stiamo.

Provvediamo a varare una nuova legge sulla fecondazione assistita che aiuti chi vuole diventare genitore (che sia veramente accessibile anche in termini di costi), che sani gli errori, i danni e la voragine lasciata dalla Legge 40, svuotata dagli oltre trenta pronunciamenti della Corte.
Insomma, recuperiamo ciò che c’è e investiamo in modo lungimirante. Non è parlando di “prestigio della maternità” o di “prepare una culla nel tuo futuro” che si esce dalla denatalità.
Non puntiamo il dito sulle donne, sui loro uteri e sugli ovuli che non si trasformano in prole per la patria. Puntiamo a comprendere tutti i fattori che oggi influiscono sulle scelte, tutte, non solo quella di fare o meno un figlio.
Non ci preoccupa che si facciano meno figli, ma che le prospettive per tutti siano sempre più difficili, incerte e che non vi siano proposte politiche che vadano a migliorarle. La questione non è “fare più figli”, ma che futuro dargli, nel caso decidessimo di diventare genitori.
Come abbiamo visto la questione va ben oltre il mero approccio o dato biologico. Richiede il coinvolgimento di più Ministeri e di ragionare in più ambiti. E la sessualità non è unicamente destinata alla riproduzione della specie. Pensavamo che almeno questo fosse chiaro e assodato. Non tutto ciò che è biologicamente predisposto deve essere per forza realizzato o considerato fondamentale per definire un individuo “completo”. Seguendo le indicazioni del Ministero, visto che siamo biologicamente portati a riprodurci, a questo punto dovremmo anche massimizzare i risultati, accoppiandoci più volte, con più persone il 22 settembre. Buon settembre a tutt*!

 

Per approfondire

http://www.mammeonline.net/content/conciliazione-famiglia-lavoro-buone-pratiche-welfare-aziendale-le-indicazioni-ue

https://simonasforza.wordpress.com/2015/01/08/no-quiero-hijos/

https://simonasforza.wordpress.com/2016/03/07/donne-lavoro-e-discriminazioni/

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Dall’UE un accordo quadro in materia di congedo parentale

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Lo abbiamo letto nel report del McKinsey Global Institute dal titolo The power of parity: la parità di genere potrebbe contribuire con 12 trilioni di dollari al PIL mondiale da qui al 2025, ossia l’11% in più di quanto succederebbe con uno scenario ordinario. Non si tratta solo di spingere verso la parità nel mondo del lavoro, ma di creare le condizioni perché si abbia un riequilibrio sociale uomo-donna. Per raggiungere questo obiettivo si dovrebbe investire sulle seguenti aree: istruzione, pianificazione familiare, salute materna, inclusione finanziaria, inclusione digitale e previdenza sanitaria con congedi per malattia retribuiti.

L’incremento della spesa annuale ammonterebbe a 1,5/2 trilioni di dollari entro il 2025, un aumento del 20-30% degli investimenti. Non poco, si potrebbe dire, ma si avrebbero delle ricadute ben più ampie su tutta la popolazione e sul PIL. Ce lo ripetiamo da tempo. Una litania che non si riesce a tradurre in fatti. Da qualche parte si deve iniziare a invertire la rotta.

Per colmare il gap di genere ci vuole volontà politica. Se non si colma è perché chi cerca di portare avanti politiche di parità viene marginalizzata. Perché questi temi vengono avvertiti sempre come secondari, roba da donne. Invece è roba che riguarda tutta la popolazione, l’intero Paese. Se continuo a portare avanti certe battaglie è per dare testimonianza che c’è un modo altro di intendere le priorità e risolvere i problemi. Sinché continueremo a non avere uno sguardo d’insieme sulle questioni, brancoleremo nel buio e annasperemo nel fango. Esistiamo anche noi donne e non potete relegarci sempre a fondo pagina dell’agenda politica. Non potete abbandonarci a un destino secolare, perché così è stato e sempre sarà. Noi quello spazio ce lo prendiamo e dovrete ascoltarci prima o poi. Noi continueremo a martellare sempre su certi tasti, sino ad avere le risposte che tutta la comunità di uomini e donne merita. Non si esce dal pantano a pezzi, ma tutti insieme.

 

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http://www.mammeonline.net/content/dall-UE-accordo-quadro-in-materia-di-congedo-parentale

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Di voucher in bonus bebè

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Siamo tra i Paesi in cui si lavora per più ore al giorno e dove gli straordinari sono una costante. Va da sé che le donne sono le più penalizzate, ma il problema non è solo femminile: avere dei padri assenti non è il massimo, e il fatto che ad oggi il congedo per i padri ammonta solo a due giorni è un palese segnale di uno squilibrio.

Se è vero che un incremento della partecipazione delle donne al mercato del lavoro porterebbe notevoli benefici in termini di PIL, allora sarebbe utile capirne a fondo tutti i vantaggi. Come in un circolo virtuoso, laddove le donne in età fertile lavorano, si ottiene maggior ricchezza/benessere/sicurezza, con una maggiore propensione a mettere al mondo più figli. Questo dovrebbe portare (in un Paese sano) a sviluppare la domanda di beni e servizi, con conseguente aumento di occupazione e di PIL.

Finora, si è scelto di delegare la conciliazione lavoro-vita privata al faidate: si organizzi chi può, come meglio crede. In pratica si è scelto un liberismo del welfare familiare, con servizi a macchia di leopardo e che nulla fanno per portare avanti un processo di condivisione dei compiti di cura.

 

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Possiamo permetterci un figlio?

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Il mio nuovo pezzo per Mammeonline.net per parlare di genitorialità‬ e dati occupazionali.

Possiamo permetterci un figlio? Nonostante la natalità sia in caduta libera, siamo paralizzati e mostriamo sempre una certa incredulità di fronte alle sue cause. Per alcuni sembra inimmaginabile riflettere attentamente sulle responsabilità che comporta diventare genitore oggi.
Per molti decisori politici è difficile avere un approccio sistemico e strutturale a queste questioni, e si procede casualmente, a singhiozzo, con misure quasi sempre poco efficaci e che non incidono se non marginalmente nelle vite reali, che non consentono di avere prospettive positive verso il futuro.

Nella relazione del convegno “Possiamo permetterci un figlio?” (qui la registrazione video http://www.uilweb.tv/webtv/default.asp?ID_VideoLink=4142 e la relazione finale), organizzato dalla Uil e dal Coordinamento Pari Opportunità, leggiamo il seguente quadro italiano: “Si fanno sempre meno figli: secondo i dati Istat, nel 2015, le nascite sono state 488.000, 15.000 in meno rispetto al 2014, minimo storico dall’Unità d’Italia. Per il quinto anno consecutivo, nel 2015 si è registrata una riduzione del numero di figli per donna, sceso a 1,35 (1,29 per le madri italiane). Una delle principali cause della bassa natalità è costituita dagli ostacoli economici e culturali che incontrano le donne, soprattutto quando decidono di diventare madri.”

 

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Rimozione collettiva

toglimi le mani di dosso

 

Oggi PRIMO MAGGIO, festa del lavoro, dei lavoratori e delle lavoratrici, mi sembra il giorno ideale per parlare di un tema su cui ci si sofferma troppo poco, forse, anzi certamente perché scomodo.

Rimozione collettiva delle molestie sul lavoro. In Italia tra tutti i numerosi tentativi (spesso riusciti) di rimozione c’è anche il tema delle molestie sul lavoro, “un sopruso che contribuisce a mantenere le donne in una posizione subalterna”, come sottolinea Olga Ricci, l’autrice di “Toglimi le mani di dosso“, 2015 Chiarelettere. E’ da un po’ che cerco di scriverci su, ma non è un libro, una storia che può stare racchiusa in un post di un blog.

Questa è la storia di una donna in carne ed ossa, che ci scuote per riportarci con i piedi per terra, per ricordare a coloro che sostengono che nel mondo del lavoro le donne abbiano raggiunto la parità, che così non è, che il sistema non si è ancora liberato di questi mostri che si sentono padroni delle donne, come se fossero soprammobili e oggetti a loro completa disposizione. Questo racconto vivo arriva come un pugno, perché parla a noi donne e riesce a portare a galla il senso di impotenza, di confusione, di frastornamento, di solitudine e di isolamento e anche di incredulità che ci travolge quando ci troviamo ad affrontare simili abusi.

Uno schiaffo a tutte le nostre competenze, aspirazioni legittime, a fare semplicemente bene il nostro lavoro, quello per cui siamo disposte a lavorare per pochi euro, senza orario, senza prospettive, senza contratto, solo per passione, perché non ci si riesce a immaginare in un altra occupazione. Perché le nostre competenze dovranno pur valere? Oppure è una chimera, un mito?

La precarietà ci avvolge in una nube permanente, ma quel sogno non va messo nel cassetto, bisogna resistere. Le molestie arrivano a rendere ancora più infernale e invivibile una realtà lavorativa già terremotata per altri motivi.

Ciò che è accaduto a Olga secondo una indagine Istat tra il 2008 e il 2009 si stima che coinvolga 1.308.000 donne che nell’arco della propria vita lavorativa hanno subito molestie o ricatti. Poche le denunce, non per mancanza di normativa adeguata, ma per i tempi lenti dei processi, che pesano sulla vittima e sui testimoni, la difficoltà di riuscire a dimostrare la violenza e per la paura delle ricadute sul proprio lavoro. Gli strumenti per difendersi, come accade anche per i casi di discriminazioni sul luogo di lavoro, ci sono, ma il fatto di non avere la certezza di uscire dal tunnel schiaccia in partenza molti tentativi di far valere i propri diritti. Lo so, l’ho raccontato più volte. Ma il senso di paralisi che ti avvolge è vero e la necessità di buttarsi alle spalle tutto questo “brutto” spesso è prioritaria, a volte serve a salvare se stesse.

Ma per quanto ancora dovremo continuare a urlare che queste continue violenze di ogni genere sulle donne non le accettiamo più, non devono vivere al nostro fianco, distruggere le nostre esistenze e le nostre speranze. Perché dobbiamo continuare a ignorare ciò che è un problema non privato, personale ma che riguarda l’intera collettività? Ci tenete fuori dal mondo del lavoro, ci rendete infernale la permanenza, ci discriminate in ogni modo, ci chiudete gli orizzonti, andiamo bene solo come oggetti sessuali e strumenti riproduttivi (quando però decidiamo di fare figli diventiamo un peso aziendale). Questa è la realtà delle donne, non sono e non sarò mai disposta a smettere di essere scomoda e pesante, sì, me lo sento ripetere spesso, perché quando parlo di questi problemi ad alcuni sembro “ossessionata”, dovrei prendere le cose in modo più easy. Le nostre vite le prendiamo come crediamo sia meglio, il peso o la leggerezza con cui affrontiamo le cose spetta a noi deciderlo, non ad altri e se nessuno ne vuole parlare, io me ne prendo un pezzo di onere e lotterò per dare spazio a queste storie e a questi macigni che pesano sulle nostre vite. Ho la percezione che questo tema non piaccia, sia scomodo, bene, non deve piacere, deve essere ripugnante perché la violenza questo è. Solo riconoscendola come nociva e inaccettabile si possono porre le basi per combatterla seriamente. Certamente combattendo da sola le cose sono più difficili e complicate, ma non si può far finta che non esista o sia marginale. Deve interessare tutti, uomini e donne, è necessaria una presa di coscienza collettiva.

Parlarne, diffondendo consapevolezza, è il primo imprescindibile passo per iniziare a fare terra bruciata attorno a coloro che compiono molestie e violenze sul lavoro.

Questo resta il mio impegno e nonostante mille ostacoli lo onorerò. Perché ci faremo sentire, eccome!

 

Questo articolo è pubblicato anche su Dol’s Magazine:

http://www.dols.it/2016/05/01/toglimi-le-mani-di-dosso/

 

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Il rispetto che non c’è

Immagine tratta dalla copertina del libro "Non è un paese per donne"

Immagine tratta dalla copertina del libro “Non è un paese per donne”

 

Ho saltato la giornata dell’8 marzo, anche se bollivo in pentola qualcosa. Ho pensato di tornare a parlare quando il brusio e l’eco della giornata si fossero dissolti. Tanto poi si torna nell’ombra e le questioni delle donne tornano sotto il tappeto, insieme alla polvere di una sorta di indifferenza allergica a tutto ciò che non va al suo posto e si ostina, ma guarda un po’, a non andarci. Ma come, non ci aiutiamo da sole? Ma come non ce la facciamo? Ma sì, lasciateci pure dove siamo, dimenticatevi di noi per il prossimo anno, fino alla prossima “festa”. Tanto nel nostro Paese non è obbligatorio rispondere alle domande, alle richieste, non sembra necessario dare conto delle cose che non vanno e che andrebbero sanate. Si può soprassedere, passandoci sopra tra una mimosa e un occhio pesto.

Secondo il recente report di Job Pricing, il trend di presenza di donne nel mercato del lavoro è cresciuto negli ultimi dieci anni, nonostante la disoccupazione incomba e pesi su uomini e donne; preoccupa l’incremento del dato disoccupazionale del 12,1% per la fascia di donne 15-29 anni.

Il gender pay gap, calcolato da Job Pricing nel 2015 sulla base della RAL, vede le donne guadagnare il 10,9% in meno degli uomini, anche considerando la flessione dello 0,7% delle retribuzioni femminili. La media è € 29.985 per gli uomini e € 26.725 per le donne. Secondo i dati Eurostat sul 2014, calcolati sul salario orario lordo medio, l’Italia è all’8° posto su 31 stati, in termini di pay gap. La differenza retributiva è più evidente nei servizi. A pagina 20 sono evidenziati i settori con differenze salariali a favore degli uomini o delle donne.

Siamo più istruite, e questo trend è in crescita, basta guardare il numero di laureati/e.

C’è un dato da brividi, il gender pay gap tra i laureati raggiunge quota 36,3%. Raccapricciante. E non penso che sia destinato a salire il salario delle donne, se partiamo basse non riusciremo mai ad eguagliare gli uomini. A guardare queste medie mi accorgo che ero proprio fuori range, fuori mercato. La mia RAL come consulente ultraspecializzata era da fame, ben al di sotto di quota 25, come se avessi fatto fino alla scuola dell’obbligo. La media come al solito funziona come nelle statistiche dei consumatori di pollo. E poi mi si chiede come mai non ho resistito.

Secondo Manageritalia in collaborazione con AstraRicherche, l’Italia è “al 41° posto su 145 paesi (22° in Europa su 45 paesi) sul fronte delle pari opportunità: gli stereotipi socio-familiari resistono e il 71% degli italiani (50% la media europea) ritiene che gli uomini siano meno competenti delle donne nello svolgimento dei compiti domestici e il 43% (29% media europea) crede che un padre debba anteporre la carriera al doversi occupare dei figli piccoli”. Insomma, con soli due giorni di congedo di paternità retribuito, il futuro sembra roseo, cambiamo con calma la cultura…

Il Centro studi di Bnl In Italia, ci trasmette una nota positiva: nel 2015 il numero delle imprese fondate da donne è cresciuto di 14.352 unità. Mi piacerebbe anche conoscere la longevità di queste imprese.

I dati Ocse ci dicono che una donna su due non lavora.

Questo grafico realizzato da The Economist, che rappresenta l'”indice del tetto di cristallo”, evidenzia bene come siamo posizionati noi italiani.

Italy glass-ceiling index

Italy glass-ceiling index

 

Un diagramma che dal 2013 recupera vari dati di 29 Paesi (l’accesso delle donne all’istruzione superiore, la loro partecipazione alla forza lavoro, retribuzioni, programmi di alternanza studio-lavoro, la rappresentanza nel senior management, i costi di cura dei bambini, e da quest’anno la misurazione dei congedi di maternità/paternità retribuiti) evidenzia i punti deboli italiani. Non occorrono commenti. Vorrei solo evidenziare l’arretratezza sui congedi di paternità retribuiti. Numerosi studi dimostrano che laddove i neo-papà prendono il congedo parentale, le madri tendono a reinserirsi nel mercato del lavoro, l’occupazione femminile è più alta e il divario di reddito tra uomini e donne è più basso. I nostri due giorni sono veramente ridicoli. L’idea di fondo è che applicando periodi di congedo similari, si riduce il divario di carriera tra uomini e donne, e lo slittamento di carriera tra le donne in età fertile è ridotto. Ma le culture sono difficili da cambiare e lo sappiamo che è principalmente un fattore culturale che impedisce la risoluzione di questo tipo di gap. Inoltre, sappiamo benissimo quanto può costare anche agli uomini richiedere le ore di allattamento o i congedi, non sono rari i casi di neo-papà mobbizzati che si sono rivolti alla Consigliera di parità per essere tutelati e che sono andati in causa per questo tipo di discriminazioni.

A tal proposito, anche l’OCSE dedica il suo policy brief di marzo al tema del congedo di paternità. Sul grafico risulta ancora la vecchia normativa di un giorno retribuito, ma la sostanza non è cambiata.

paternità

 

Il mondo del lavoro italiano vede ancora come una sciagura la genitorialità, che porta con sé i compiti di cura e di accudimento che devono essere condivisi. Diventare genitori non può essere percepito come un disastro dal datore di lavoro, ma va gestito, va sostenuto, va organizzato. Due son le cose, o non si è capaci o non si ha la minima intenzione di progredire verso un modello più sostenibile di lavoro e produzione. La ri-produzione sembra restare “roba da femmine”, considerate ancora individui di secondo livello, sacrificabili e alle quali si chiede di sacrificarsi.

L’Unione Europea continua a produrre report, roadmap, suggerimenti per raggiungere un equilibrio di genere. Da ultimo questo documento della Commissione Europea “Impegno strategico per la parità di genere 2016-2019” , frutto di una consultazione pubblica e di una valutazione dei punti di forza e di debolezza della Strategia per la parità tra donne e uomini (2010-2015). Esso identifica più di trenta azioni chiave da attuare in cinque settori prioritari, con scadenze e indicatori per il monitoraggio. Inoltre, si sottolinea la necessità di integrare una parità di genere nella prospettiva di tutte le politiche dell’UE, nonché nei programmi di finanziamento comunitari. La Strategia del 2010-2015 focalizzava la sua azione su queste macroaree:

– pari indipendenza economica per le donne e gli uomini;

– parità delle retribuzioni per un lavoro di uguale valore;

– parità nel processo decisionale;

– dignità, integrità e fine della violenza nei confronti delle donne;

– promozione dell’uguaglianza di genere fuori dai confini dell’UE;

– questioni orizzontali (ruoli di genere, strumenti normativi e governativi).

Sono stati compiuti passi in avanti, come ad esempio, il più alto tasso di occupazione mai registrato per le donne (64% nel 2014) in UE e la loro crescente partecipazione ai processi decisionali in ambito economico. Tuttavia, questa tendenza al rialzo è compensata dalla disuguaglianza persistente in altre aree (retribuzione).

Nel suo programma di lavoro, la Commissione ha ribadito il suo impegno a continuare il lavoro di promozione della parità tra uomini e donne. Ciò significa mantenere al centro della politica di parità di genere le cinque aree tematiche prioritarie esistenti:

1. incremento della partecipazione delle donne al mercato del lavoro e la pari indipendenza economica delle donne e degli uomini;

2. riduzione del divario retributivo e pensionistico di genere, quindi lotta alla povertà tra le donne;

3. promozione della parità tra donne e uomini nel processo decisionale;

4. lotta contro la violenza basata sul genere e la protezione e il sostegno alle vittime;

5. promozione dell’uguaglianza di genere e dei diritti delle donne in tutto il mondo.

 

Qui di seguito una presentazione riassuntiva sugli obiettivi che si intendono raggiungere:

Altro aspetto rilevante è l’integrazione di una prospettiva di genere in ogni tipologia di intervento UE. Naturalmente è necessario assicurare anche un finanziamento di queste politiche per raggiungere una parità di genere, cooperando strettamente con tutti gli attori responsabili.

Fin qui un mondo ideale, in cui tutto può migliorare e volgere al meglio. E tanti Paesi europei sono sulla buona strada, quanto meno ci provano.

Che dire sull’Italia, dove le pari opportunità sono relegate nell’angolino, non meritevoli neppure di un dicastero dedicato? Che dire del clima che si respira nel Bel Paese medievale degli attacchi quotidiani alle donne? Il cammino per noi è tutto in salita.

Dopo la campagna disgustosa per il referendum sulle trivelle, che non linko perché preferisco non rilanciare simili livelli di disumanità e di degrado culturale, leggo un’altro esempio di tale degrado. Inqualificabili e di una violenza inaudita i metodi con cui in questo Paese ci si rivolge alle donne. Solidarietà a Patrizia Bedori e a tutte le donne che quotidianamente ricevono attacchi sessisti, misogini e indegni di un Paese civile. Chiaramente si tratta di un grosso ritardo culturale e di una sorta di resistenza al cambiamento. Trovo altrettanto grave quanto detto da Bertolaso a Giorgia Meloni. Noi donne, come gli uomini, possiamo fare ed essere tante cose, rivestire più di un ruolo nonostante ci sia ancora chi ci vuole mantenere in determinati ruoli e ghetti. Non ci lasceremo ingabbiare e fregare ancora. Possiamo scegliere di avere più ruoli, anche diversi nelle varie fasi della nostra vita, ma assegnarci un destino in quanto donne è violenza. Insultare e considerare una donna inadeguata perché non conforme a un canone che ci vuole tutte giovani e belle, è violenza. E questo purtroppo avviene anche da parte di molte donne che hanno interiorizzato questa mentalità. Mi sembra che gli attacchi si moltiplichino. A quando un Paese che sappia esprimere e praticare rispetto verso le donne? Quando capiremo che il benessere e la realizzazione piena delle aspirazioni delle donne porta vantaggi per tutti? Se partecipano le donne progredisce tutto il Paese, se non partecipano resterà quella provincia sperduta, arretrata, distante anni luce dalla civiltà e da una cultura del rispetto. La nostra partecipazione a tutti gli aspetti della vita culturale-sociale-economica-politica dell’Italia è fondamentale se vogliamo competere e crescere.

Qualche giorno fa avevo pubblicato questo appello per la mia zona, per sostenere la partecipazione attiva delle donne alla vita politica e nelle istituzioni di ogni livello. A quanto pare il mio auspicio è più che attuale.

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Donne, lavoro e discriminazioni

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Durante questi anni di crisi economica ci siamo concentrati sulle ricadute occupazionali, sulla difesa dei posti di lavoro a qualunque costo. Forse questo impegno ha lasciato da parte il discorso del contrasto a fenomeni di discriminazioni nei luoghi di lavoro. La partecipazione al mercato del lavoro ci vede sempre in posizioni molto basse nelle classifiche internazionali. Ricordo che l’Italia è al 111° posto (del segmento economic participation and opportunity, siamo al 91° posto per labour force participation) su 145 paesi del Global gender gap report 2015 del WEF, con il 13% di disoccupazione femminile, 2 punti sopra quella maschile, solo il 54% delle donne contro il 74% che partecipa al mercato del lavoro (è occupata o sta cercando) e che guadagna però la metà del suo collega. Nessun paese avanzato è messo male come il nostro, ci collochiamo tra gli ultimi insieme a Cuba, Messico, Arabia Saudita, Bangladesh. Negli ultimi dieci anni abbiamo solo peggiorato.

Lo scorso 22 febbraio ho seguito il convegno organizzato dalla Consigliera di Parità della Lombardia presso l’Auditorium Testori di Milano. Questa figura, poco conosciuta e valorizzata, in qualità di pubblico ufficiale, ha l’obbligo di agire in giudizio per accertare e rimuovere gli effetti delle discriminazioni collettive e individuali (che coinvolgono uomini e donne). Inoltre, promuove concrete politiche di pari opportunità di genere, coinvolgendo tutte le figure che operano nel mercato del lavoro: dalle lavoratrici e lavoratori alle istituzioni, dalle parti sociali ai soggetti privati.

Il Fondo nazionale per le Consigliere di Parità per il triennio 2015-2017 è stato azzerato, da qui la domanda che ha aperto il convegno: ha ancora senso parlare di parità di genere nel mondo del lavoro? Il convegno è stato anche l’occasione per fare un bilancio di chiusura del mandato della consigliera di parità Carolina Pellegrini e della sua supplente Paola Mencarelli.

Qui una presentazione che riassume chi si rivolge alla Consigliera di Parità, quante segnalazioni arrivano all’ufficio regionale e cosa denunciano, i canali informativi che portano a rivolgersi all’ufficio, i settori lavorativi (spesso sono anche le P.A. a discriminare), le tipologie di approccio per risolvere i vari casi, l’esito delle denunce.

32 accessi nel 2012, diventati negli anni 70, 73, 66 nel 2015. I numeri sono importanti, ma vanno contestualizzati. Se li esaminiamo insieme al fatto che in tante aziende, in alcuni settori, la rappresentanza sindacale manca o ha poco potere, per cui spesso il dipendente discriminato si trova da solo a fronteggiare questi problemi e non sa nemmeno della possibilità di rivolgersi all’ufficio della Consigliera di Parità, capiamo quanto ogni singolo accesso è un successo, una importante possibilità di far valere i propri diritti. Cosa viene denunciato: violenze di genere 2%, vessazioni/molestie/mobbing 12%, mobilità/C.i.g. 2%, licenziamento 10%, normativa/servizi/progetti 6%, discriminazione economica 4%, demansionamento 10%, convalida dimissioni 2%, contrattazione 3%, conciliazione lavoro famiglia 32%, carriera 2%, altro 16%.

Il dato più elevato è quello che corrisponde alle questioni di conciliazione, un segnale forte di sofferenza reale. Dietro ogni numero c’è una storia, una persona. Ci siamo noi. Avevo da poco rassegnato le dimissioni dal mio lavoro quando partecipai a un incontro in cui era presente Carolina Pellegrini. Eppure tornare a sentir parlare di questi temi mi provoca una sofferenza che gli anni non hanno saputo attenuare. Ogni volta che ne scrivo provo le stesse sensazioni laceranti, quella sensazione di solitudine e sconfitta che provai al momento della convalida delle mie dimissioni. Sconfitta perché dovevo dichiarare la mia volontarietà, pur sapendo che quella era una scelta obbligata da una serie di risposte negative del mio datore di lavoro, da mesi passati a resistere e dalla mancanza di supporti che mi permettessero di conciliare vita privata e lavoro. Mi sentivo e mi sento schiacciata da una mancanza di alternative, schiacciata da un sistema che mi stava espellendo come se improvvisamente la mia maternità mi avesse trasformato in un corpo estraneo, una scoria da smaltire e da rigettare. Io non mi sono rivolta alla consigliera di parità, e se lo avessi fatto sarei finita nella schiera di coloro che dopo una prima consulenza decidono di non proseguire. Perché le pressioni sono tante e perché non sempre hai la forza di opporti, di affrontare l’ennesimo scontro, quando sai che le hai veramente provate tutte. Nella mia vita ho resistito alla precarietà, a stipendi da fame, a singhiozzo, a c.i.g., a tutto, ma non ho saputo fronteggiare e reagire di fronte alla “scelta” di dimettermi. Non è la strada giusta, la strada giusta è lottare e farsi aiutare. Per questo si dovrebbe tornare a pretendere che quel fondo per le Consigliere di Parità si torni a riempire.

Non essendoci una consigliera di parità provinciale, dopo la decadenza della Provincia, la consigliera regionale ha dovuto occuparsi anche degli atti di carattere individuale, non solo collettivo. L’approccio ha sempre privilegiato la collaborazione con altri enti, organismi e assessorati, cercando di intervenire attraverso interventi programmati. Ci sono state importanti collaborazioni, ma non è sempre stato facile.

Le risorse azzerate non facilitano certo il compito di questa importante figura. Mancano i soldi per sostenere le spese degli avvocati che devono difendere le persone in caso di causa in tribunale, quando la conciliazione e gli accordi informali tra ditta e lavoratore falliscono.

Ogni anno viene inviata una relazione al Ministero del Lavoro QUI

Le segnalazioni arrivano dal singolo dipendente, dal suo legale o dal delegato sindacale. Gli interventi autonomi della Consigliera sono altresì possibili, se si individuano discriminazioni in seguito all’esame delle relazioni sul personale che le imprese con più di 100 dipendenti sono tenute a presentare, ma che in poche presentano. La prassi prevede l’audizione del denunciante e del datore di lavoro, che solitamente è disponibile a collaborare. Si cerca di privilegiare una conciliazione condivisa, che permetta di conservare il posto di lavoro, rimuovendo gli atti discriminatori.

Si interviene per esempio su richieste di part-time negato, di premi produttivi non erogati a donne a causa di periodi di astensione dal lavoro per maternità obbligatoria. Altri problemi si riscontrano nell’usufruire dei congedi parentali. Insomma i diritti legati alla maternità e alla paternità continuano ad essere vissuti come oneri insostenibili dai datori di lavoro, nonostante la Costituzione, il Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, aggiornato, da ultimo, con le modifiche apportate dal D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 80 e, successivamente, dalla L. 7 agosto 2015, n. 124. QUI

Si fa fatica con una legislazione disordinata, che fatica a individuare quale sia la misura utile per garantire parità di genere, con troppi gradi di giudizio e una difficoltà a intervenire in casi di discriminazioni multiple (genere, nazionalità ecc.). Questo l’intervento dell’avv. Alberto Guariso. Prendiamo in esame casi di discriminazione per genere e per età. L’anzianità di servizio va premiata, secondo il contratto a tutele crescenti previsto dal Jobs Act. Sappiamo che le donne sono coloro che più sono soggette a interruzioni e quindi risultano le più svantaggiate da un sistema che premia la permanenza e l’anzianità aziendale. Questi sistemi penalizzano le donne. Ancora troppo ambigua la norma che riguarda l’onere della prova:

Codice delle pari opportunità (Dlgs 198/2006)

Art. 40.

Onere della prova

(legge 10 aprile 1991, n. 125, articolo 4, comma 6)

1. Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discriminazione.

Finché le sanzioni saranno esigue, discriminare converrà ai datori di lavoro. La paura di intaccare la libertà di contrattazione del datore di lavoro incide sul tipo di intervento e sul tipo di sanzione. Ci devono essere sanzioni diverse da quelle pecuniarie e che devono dissuadere dal compiere comportamenti discriminatori. Discriminare costa molto in termini economici, ma culturalmente non è ancora una questione percepita dai datori di lavoro.

Andrea Rapacciuolo della Direzione Interregionale del Lavoro di Milano sottolinea l’importanza di diffondere le informazioni per consentire alle persone di sapere a chi rivolgersi in caso di abuso. Ci ha parlato di un nuovo modello per la convalida delle dimissioni per genitori con figli fino ai tre anni. Hanno aumentato le domande, ci dicono che questo serve a far riflettere maggiormente il dipendente dimissionario. Non siamo noi a dover riflettere, quando arriviamo a convalidare le dimissioni ne abbiamo passate già tante, siamo stremati, siamo ormai in balia della rassegnazione, abbiamo le lacrime agli occhi, è come se stessimo firmando la nostra condanna. Le strade per noi si sono già chiuse. Se questo questionario ha solo finalità statistiche e ti trovi davanti un funzionario annoiato che non vede l’ora che tu finisca la compilazione per passare alla persona successiva, mi spiegate a che serve tutto questo? Sono solo parole al vento. Più domande? Caspiterina, ci dimettiamo perché costrette e senza alternative, voi leggete che abbiamo chiesto un part-time per problemi legati a un figlio, non ce lo hanno concesso e non intervenite, ci porgete solo un questionario più prolisso? Pensate che questa sia una prassi sufficiente per contrastare pratiche discriminatorie? Infatti, il fenomeno è in costante crescita:

10.400 dimissioni con convalida, di cui circa 7.000 in Lombardia (1.200 padri), 2.500 circa in Piemonte, 220 in Liguria, 103 in Valle d’Aosta. Da marzo 2016 è prevista la convalida telematica QUI.

Carolina Pellegrini e Paola Mencarelli e Graziella Carneri, Segretario CGIL Lombardia, ci riportano l’esperienza del corso di formazione dedicato ai delegati sindacali per consentirgli di svolgere attivamente il processo di prevenzione e individuazione precoce delle situazioni di discriminazione legate al genere. Un corso in cui si sono illustrate le leggi in materia, i diritti, gli organismi e gli strumenti di difesa.

Carneri dice che le donne devono poter lavorare, far carriera e fare figli. Ci parla di condivisione e di congedo di paternità obbligatorio, di come sono stati fatti passi in avanti, anche nella cultura aziendale. Ripeto che a mio avviso la realtà non è rosea: tante aziende sbandierano la loro responsabilità sociale, ma poi mobbizzano e discriminano silenziosamente i propri dipendenti. Quindi se il lavoratore/la lavoratrice viene lasciato/a solo/a, che probabilità ha di difendersi e di impugnare un licenziamento per giustificato motivo che in realtà copre la discriminazione? I delegati sindacali intervenuti parlano proprio di questa necessità di non lasciare i lavoratori da soli.

Si è parlato anche di sicurezza nei luoghi di lavoro, in ottica di genere: Paola Mencarelli e Nicoletta Cornaggia, Regione Lombardia, con Mariarosaria Spagnuolo, Assolombarda. Perché l’approccio del D.L. 81 su salute e sicurezza QUI è generalmente neutro, come se tutti i corpi fossero uguali e reagissero allo stesso modo agli agenti chimici, alle sostanze, come se l’usura non fosse contemplata in mansioni ripetitive, tipicamente femminili a causa della segregazione orizzontale. L’usura da lavoro è difficilmente dimostrabile, spesso gli effetti si vedono quando si è già in pensione. Si è accennato a una indagine qualitativa su alcune aziende, su focus group (non campioni rappresentativi) in tema di sicurezza, che rispecchia i risultati degli studi di settore. Nelle aziende sono sentiti i temi relativi alla conciliazione, allo stress, alla fatica. Non c’è consapevolezza della diversità dei rischi uomo-donna, dell’importanza di dispositivi di sicurezza differenziati in base al genere. Le norme sono utili più a sanzionare che a prevenire. È importante adeguare la sorveglianza sanitaria, introducendo statistiche di genere, considerando chi svolge le mansioni. Soprattutto considerando gli oneri familiari e di cura che ancora pesano sulle donne.

Infine problemi relativi alla sicurezza riguardano il nuovo disegno di legge sullo smartworking. La stessa rappresentazione del lavoro agile delle donne è ancora stereotipato, alle prese con figli e cura della casa, mentre lo smartworking al maschile è sempre iperprofessionale e business oriented.

C’è da auspicare una maturazione culturale, che faccia diventare le aziende più propense a valutare forme di flessibilità positive.

Cosa fa la Regione Lombardia? Qui qualche info sul programma per la conciliazione famiglia-lavoro.

Intanto, come emerge da questo articolo, “tra il terzo trimestre del 2014 e lo stesso trimestre del 2015 le donne inizialmente disoccupate e successivamente divenute occupate sono diminuite dello 0,9%, mentre quelle rimaste disoccupate sono diminuite del 6,1 per cento. L’inevitabile conclusione è che, in un anno, la percentuale di donne inizialmente disoccupate che hanno abbandonato il mercato del lavoro nel trimestre successivo è aumentata del 7 per cento.”

Non è una maggiore flessibilità contrattuale, con una semplificazione in uscita e incentivi all’ingresso, che può portare a un incremento della partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Si tratta di fornire strumenti, servizi e mettere a sistema pratiche di conciliazione per uomini e donne, di cambiare la cultura aziendale. L’inattività non è un destino, una scelta obbligata, lo diventa se più fattori rendono più oneroso lavorare, se gli oneri familiari e di cura non vengono condivisi e gravano in gran parte sulle donne, se i servizi di sostegno mangiano una fetta cospicua di stipendio, se la flessibilità richiesta significa lavorare senza limiti orari e regole certe, se lavorare diventa incompatibile con la vita personale.

Atti del convegno:

L’intervento di Daniela Manassero, Avvocata esperta in diritto del lavoro e antidiscriminatorio.

Dimissioni delle Madri e dei Padri – anno 2015

 

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Un “tagliando” per le pari opportunità

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Il Parlamento Europeo ha da poco pubblicato questo documento: http://www.europarl.europa.eu/thinktank/en/document.html?reference=EPRS_STU(2015)547546

che compie una sorta di “tagliando” alla Direttiva 2006/54/CE del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego. In pratica a distanza di tempo sei ricercatrici indipendenti tracciano un bilancio dei risultati di questa direttiva, cercando di suggerire anche possibili quadri di intervento per il futuro. Il principio di parità di remunerazione era contenuto già nel trattato del 1957 che fondava la CEE.

La percezione della discriminazione sulla base del genere ci vede ai livelli più alti. Abbiamo visto dall’ultimo indice EIGE che questa percezione è fondata (QUI).
Visto che come al solito questi interessanti lavori se li leggono solo gli addetti ai lavori, ho pensato di passare qualche ora della mia vita a studiare questo documento, cercando di fornirvene un quadro con i punti essenziali.

Ho realizzato anche una infografica che mette in evidenza i contributi più interessanti dello studio.

https://magic.piktochart.com/output/7842670-gender-equality-in-employment-and-occupation-d-200654ec

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Lo so è un post lungo, siamo disabituati a leggere tanto, ma è su questa pigrizia che molti contano per fregarci. Facciamo tesoro di queste valutazioni e non lasciamole nel cassetto.

Ma scendiamo nel dettaglio del documento.

Sul principio della parità di retribuzione

Il principio della parità di retribuzione per uno stesso lavoro e lavoro di pari valore ha uno scopo economico e sociale, laddove l’obiettivo economico secondario rispetto a quello sociale.
– La nozione di retribuzione di cui all’articolo 157 TFUE è ampia e comprende piani occupazionali, sociali e di sicurezza.
– La discriminazione salariale tra uomini e donne è vietata, qualunque sia il sistema che dà luogo a disparità di retribuzione (ad esempio, una classificazione professionale o di un sistema pensionistico).
– La trasparenza richiede che il principio di parità di retribuzione venga osservato nel rispetto di ciascuno degli elementi di remunerazione.
– La raccomandazione della Commissione sul rafforzamento del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne attraverso la trasparenza fornisce un approccio utile per promuovere la trasparenza dei salari e questo merita un’ampia diffusione e attenzione.
Il principio della parità di retribuzione tra uomini e donne non si applica se il differenze di retribuzione non possono essere ricondotte a un unico datore di lavoro. Questa limitazione è problematica in caso di esternalizzazione. (E non è dettaglio da poco, ndr)

Fattori che causano la disparità di retribuzione
Sia il Gender Pay Gap (GPG) e che il divario di genere in materia di pensioni (GGP) sono diminuiti nel periodo 2006-2012 nei paesi in cui è stata applicata la direttiva.

The Gender Pay Gap and Gender Pension Gap for EU27 for 2006-2012
– L’impatto dell’introduzione della direttiva deve essere valutato tenendo conto degli elementi strutturali dei mercati del lavoro nazionali che influenzano l’evoluzione delle disparità di retribuzione nel tempo (scelta del percorso formativo, la segregazione orizzontale e verticale, la paternità e le responsabilità di assistenza agli anziani, le carriere interrotte, ecc).
l’aumento della percentuale di lavoratrici con un più elevato livello di istruzione porta a un ridimensionamento del divario retributivo di genere (la differenza tra il salario orario medio lordo degli uomini e quello delle donne).
– La struttura occupazionale settoriale ha un effetto importante sulle differenze pensionistiche, infatti se aumentano le quote di uomini in settori tipicamente femminili come l’istruzione, la sanità e la P.A. si nota un decremento dei differenziali pensionistici uomo-donna. Un numero maggiore di donne nei servizi porta invece a un incremento delle disparità nelle pensioni.
– I fattori istituzionali sono importanti. Le principali differenze salariali sono rilevate in quei Paesi caratterizzati da una segregazione più elevata in termini di attività di cura, che si riflette anche in termini di differenze pensionistiche. L’incremento del pay gap emerge nei Paesi che vedono poche donne al comando delle aziende quotate o nelle banche. Sì, lo so, la legge Golfo-Mosca ha incrementato i numeri, ma si deve ancora migliorare, il rischio di tornare indietro è sempre attuale.
– Sistemi retributivi poco trasparenti.

Promozione dell’uguaglianza di trattamento e di dialogo sociale
– Gli organismi di parità hanno un ruolo importante a livello nazionale nel far rispettare le disposizioni della direttiva. Tuttavia le restrizioni di bilancio e la mancanza di indipendenza di tali organismi potrebbe ostacolare la realizzazione ottimale dei loro compiti. (Quello che sta accadendo da noi in Italia e di cui mi lamentavo qui, ndr)
– Il monitoraggio delle politiche e delle prassi a livello nazionale può essere migliorata attraverso lo sviluppo di strumenti di monitoraggio sull’applicazione del principio della parità di retribuzione e della parità di trattamento sul posto di lavoro, sulla formazione professionale, ecc e diffondendo questi strumenti nel modo più ampio possibile.
– La tutela contro le ritorsioni viene ampliata con una pertinente codificazione giuridica.

L’applicazione della Direttiva per quanto concerne il congedo per maternità

Abbiamo sperimentato sulla nostra pelle quanto può influire la maternità sulla vita lavorativa di una donna, pregiudicandone spesso il mantenimento del posto. Sicuramente in Europa esiste un quadro molto differente tra gli stati, in materia di protezione della donna in questa fase. Differenze che in alcuni casi riguardano non solo la legislazione in materia, ma il settore lavorativo e la dimensione aziendale. Inoltre, si parla della frequente pratica che vede non rinnovare i contratti a tempo determinato. Si registra come la pratica dei ricorsi contro i licenziamenti illegittimi sia poco diffusa (per mancanza di prove da portare a supporto, non si desidera passare per una “piantagrane”, oppure perché di solito si tende a indurre la dipendente a rassegnare volontariamente le dimissioni).
Si consigliano due condizioni per salvaguardare la protezione di questi casi di maggiore vulnerabilità:
– un sistema giudiziario efficiente;

– una consapevolezza sociale diffusa (intesa come conoscenza dei propri diritti, ma anche delle sentenze giudiziarie in materia).
C’è anche una parte che analizza gli impatti positivi del coinvolgimento degli uomini nelle attività domestiche, sottolineando la maggiore propensione a fare figli man mano che cresce la condivisione dei compiti di cura.

Le raccomandazioni
Occorre verificare che la Direttiva rispetti i trattati internazionali che sono stati ratificati dai membri europei (trattati delle Nazioni Unite, le convenzioni ILO). È preferibile rendere più omogenei e coerenti tra loro gli strumenti legislativi europei. Manca per esempio un riferimento all’articolo 8 TFEU per l’eliminazione delle disuguaglianze e per promuovere l’uguaglianza uomo-donna in ogni attività (vedi anche l’articolo 10 TFEU).
Si fa riferimento a discriminazioni di tipo multiplo, come nel caso di persone transgender.
Si auspica l’integrazione delle raccomandazioni della Commissione:
– del 7 marzo 2014 sul rafforzamento del principio di pari retribuzione uomo-donna attraverso la regola della trasparenza (2014/124/EU).
Si chiede di risolvere il problema del gap salariale in caso di lavoro in outsourcing.
Inoltre si dovrebbero rafforzare le misure per consentire la conoscenza delle procedure di selezione per chi sostiene un colloquio di lavoro (sappiamo che anche in questi frangenti pesa la differenza di genere, ndr).
– Monitorare e prevenire le discriminazioni, e in caso di molestie e di violenze sessuali. È necessario implementare misure preventive per informare in merito a pregiudizi o stereotipi negativi e su come contrastarli. In tal senso sono importanti i progetti nazionali che vanno in questa direzione (in linea con l’articolo 5 CEDAW).

Article 5 – Stereotyping and cultural prejudices
States shall take appropriate measures to eliminate stereotyping, prejudices and discriminatory cultural practices. States shall also ensure that family education includes a proper understanding of maternity as a social function and the recognition of the roles of men and women in the upbringing of their children.

La necessità di agire sulla disparità di paga è importante per le donne come individui per ragioni di equità, per il benessere economico dei loro figli e delle famiglie, ma anche per la società in generale, in quanto un miglioramento della posizione delle donne nel mercato del lavoro – compresa la parità di retribuzione – è cruciale per la crescita economica.

Combattere la disparità retributiva è necessariamente un obiettivo a lungo termine che richiede:

  • la combinazione di una varietà di strategie e politiche;
  • il coinvolgimento di diversi attori e delle parti interessate a diversi livelli. Un ruolo chiave per l’Unione europea è quello di mettere insieme questa varietà di iniziative e i molteplici attori coinvolti nella promozione della parità del mercato del lavoro.

Il lavoro per la rimozione di disparità di retribuzione deve essere portato avanti simultaneamente e in stretta collaborazione a livello europeo, nazionale, settoriale e organizzativo.
Si parla anche di un ruolo decisivo del Parlamento europeo per dare maggiore impulso alle politiche nazionali in termini di divario pensionistico. Una parziale copertura dei lavoratori autonomi è assicurata dalla direttiva 2010/41/EU sul lavoro autonomo e la direttiva 2004/113/EC su beni e servizi, ma andrebbe migliorata.
Gli organismi di parità come già detto, svolgono un ruolo cruciale nell’applicazione della direttiva. Essi dovrebbero essere indipendenti e dovrebbero ricevere un budget che permetta loro di adempiere ai compiti richiesti.
Il monitoraggio da parte della Commissione europea in questo settore è uno strumento per garantire tale indipendenza, ma gli stati hanno anche una responsabilità specifica in questo senso. Questo è
particolarmente vero in relazione alla parità di genere. Nel breve termine, si può cercare di migliorare l’efficacia della direttiva attraverso una cooperazione tra tutti gli attori coinvolti.

Per migliorare l’accesso femminile al mondo del lavoro, possono essere creati dei processi di selezione gender neutral, nelle descrizioni delle mansioni lavorative, nella valutazione/classificazione per le fasi del processo di ricerca e selezione del personale.
– Formulazione di annunci di lavoro gender-neutral.
– Creazione di valutazioni gender-neutral per i partecipanti.

Ecco, per il futuro dovremmo cancellare dalla faccia della terra quei questionari che ti fanno la radiografia del tuo stato di famiglia, chiedendoti anche se intendi pianificare di avere prole e marito. Vorrei che ai colloqui il tuo essere madre, in coppia o single non facesse alcuna differenza, vorrei non sentire più “abbiamo optato per un uomo, sa com’è..” Oppure quando una donna, capo del personale, ti consiglia di non far emergere il fatto che sei sposata e hai figli, perché al colloquio tecnico potrebbe nuocermi. Ma scusa, mi assumi per le mie capacità oppure in base alla mia vita privata?
Per ridurre il divario retributivo di genere, si dovrebbe incrementare la trasparenza sui salari di partenza e la rilevanza del genere nella retribuzione dovrebbe essere ridotta. I principi di neutralità di genere per la valutazione del lavoro dovrebbero essere adoperati anche sui premi produzione.
La nozione di “parità di retribuzione per lavoro di pari valore” deve includere il concetto di “parità di retribuzione a parità di performance”.
Si suggerisce anche di avviare indagini e interviste a coloro che sostengono colloqui di lavoro su questo tipo di elementi. Inoltre dovrebbe essere cura degli stati membri avviare analisi periodiche sui fattori sopra descritti che causano disparità di trattamento.

Sulla protezione della maternità
La Commissione europea dovrebbe assicurare che ciascuno stato segua quanto prescritto dall’UE. Dovrebbe seguire da vicino i casi di discriminazione in materia di occupazione e, riguardo al loro numero, alle tipologie, e nei casi di ricorso legale. Mentre il quadro giuridico attuale negli Stati membri per lo più è in linea con le disposizioni delle direttive, le sanzioni in caso di violazioni e di disparità di trattamento differiscono significativamente. Quindi occorre intraprendere azioni per quanto riguarda il miglioramento della conoscenza dei casi di molestie/discriminazione tra i cittadini europei, in particolare in relazione alla gravidanza, al congedo di maternità, al congedo parentale, di paternità e di congedo in caso di adozione.
I sondaggi dimostrano che c’è ancora un grande lavoro informativo da compiere.

The percentage of respondents who would not know their rights in case of discrimination or harassment 2012
I sondaggi dell’Eurobarometro potrebbero essere utili per questo tipo di monitoraggi. Sempre utile è incrementare la conoscenza delle donne sui propri diritti legati alla maternità, e più in generale ai congedi parentali.
Il Parlamento europeo dovrebbe prendere in considerazione ulteriori misure per quanto riguarda il monitoraggio e la valutazione dell’impatto della direttiva sulla lotta contro la discriminazione delle lavoratrici gestanti, e dei congedi di maternità e paternità. Dovrebbe continuare a varare iniziative volte a sottolineare le lacune dei sistemi giuridici degli Stati membri, soprattutto in merito a specifiche categorie quali i lavoratori “atipici” e autonomi. Si auspica un intervento più attivo delle parti sociali in caso di comportamenti discriminatori, soprattutto in caso di ricorsi legali.
Si parla anche del compito dell’EIGE (European Institute for Gender Equality) che dovrebbe prestare maggiore attenzione all’analisi delle ragioni delle discriminazioni basate sulle differenze di genere in tema di genitorialità e di cure parentali. Dovrebbe prendere in considerazione l’impatto socio-giuridico delle singoli sanzioni sulla realtà pratica delle discriminazioni di genere in un contesto più ampio. Si suggerisce l’implementazione di un database di buone pratiche nel campo della lotta contro le discriminazioni di genere sul posto di lavoro.

Per concludere
I progressi nella riduzione del divario retributivo di genere sono ancora estremamente lenti. Il divario di genere sulle pensioni tende addirittura ad aumentare (soprattutto nel caso di carriere lavorative non continuative o che si interrompono in una età in cui è più complicato reinserirsi nel mercato del lavoro). Questo mette a rischio la giustizia sociale e di fatto rende alcune parti della società vulnerabili alla povertà.
Pertanto, le misure per garantire la parità di genere in materia di occupazione e impiego, e in particolare per ridurre il divario retributivo di genere e il divario di genere nelle pensioni, dovrebbero essere perseguite con determinazione.
Questo vale a maggior ragione dopo la valutazione d’impatto della Commissione del marzo 2014 sui costi e sui benefici delle misure per migliorare la trasparenza delle retribuzioni, che ha mostrato che alcune misure vincolanti in forma di direttive sono molto più efficaci di una semplice misura “volontaria” per la riduzione del GPG. L’altra buona notizia della valutazione d’impatto è stata che tali misure hanno anche un forte effetto positivo sull’economia nel suo complesso.
Pertanto, la raccomandazione della Commissione del marzo 2014 è stata solo un passo nella giusta direzione, ma non è riuscita a lanciare la procedura legislativa per misure più incisive.
misure. La Commissione può ancora farlo e dovrebbe farlo (http://ec.europa.eu/priorities/docs/pg_en.pdf), questo non sarebbe solo a favore della parità di genere sul posto di lavoro, ma porterebbe benefici per l’intera economia europea. Ciò sarebbe in linea con l’articolo 157 del TFUE, con le numerose risoluzioni del Parlamento europeo e con l’attuale relazione della commissione FEMM sull’applicazione della direttiva 2006/54 / CE.

Ci sono degli ottimi spunti di lavoro, soprattutto volti alla cooperazione tra le parti a più livelli, senza scartare nessun corpo intermedio, perché ogni tassello è importante per riuscire a ricucire le distanze uomo-donna nel lavoro e non solo. Bisogna monitorare costantemente il panorama nazionale, lavorare a livello culturale per rimuovere stereotipi e abitudini nocive. Io continuo a non mollare e a chiedere che il nostro Paese reintroduca una politica seria in materia di pari opportunità e trattamento.

Ho letto questo articolo, in cui si parlava di asili aziendali e ci si chiedeva:

E’ questa quindi la strada per aiutare la genitorialità in Italia? Investimenti da parte delle aziende nella creazione di strutture che facilitino la conciliazione per i propri dipendenti. E per tutti gli altri?

La mia risposta… quando lo stato si ritira dal welfare e dai servizi, le disuguaglianze possono solo crescere.. Il “fai da te” che oggi dilaga e viene richiesto alle famiglie crea solo i presupposti di un allargamento del gender gap e di una più ampia disuguaglianza tra le persone. Non possiamo affidare il benessere e la felicità al caso, alla fortuna, al censo, alla lungimiranza imprenditoriale, in sintesi a fattori esterni. Le politiche di condivisione e conciliazione non possono essere pratiche a singhiozzo, frutto del caso, ma devono essere parte di un programma organico in cui tutti gli attori devono fare la propria parte, stato in primis.

In questo quadro proiettato al futuro, mi piacerebbe che ci si interrogasse maggiormente sulle politiche per aiutare le donne a reinserirsi nel mercato del lavoro dopo una pausa forzata o volontaria, perché come sappiamo dopo una certa età (forse prima degli uomini) diventiamo poco appetibili e facciamo fatica a trovare un impiego. Occorre varare politiche che sostengono non solo i giovani, ma anche chi ha superato i 40/50 anni, perché l’assenza di misure e di incentivi per queste forme di ri-occupazione comportano gravi conseguenze per la vita delle donne e non solo. Ida, la mia amica “vicina di blog” 😉 , me ne parlava qualche giorno fa in un commento. Sì, Ida, si pensa sempre che in qualche modo ce la caveremo, perché a qualsiasi età, se precarie o disoccupate, ci consigliano sempre la stessa cosa, di affidarci a un uomo che possa provvedere per noi. E così, con una pacca sulle spalle ci invitano a barcamenarci, fino alla pensione, se mai arriverà, tanto sarà sicuramente peggio. Una politica miope che di fatto ci ignora, al massimo ci concede qualche zuccherino come si fa con gli animali che devono tirare i carretti o l’aratro. La condizione della donna resta sempre quella, dobbiamo mettere al mondo figli, far girare l’economia, sacrificarci e poi magari avere un bel calcio nel sedere quando meno ce lo aspettiamo. Preferibilmente, dobbiamo scegliere di restare in silenzio, per non disturbare il naturale ordine delle cose. Ma come avrete capito, non è mia abitudine.

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Conciliazione famiglia e lavoro e buone pratiche di welfare aziendale: le indicazioni UE

maternità

 

Il mio nuovo articolo per Mammeonline tra pratiche per la conciliazione e qualche considerazione sull’urgenza di avere una rappresentanza istituzionale in grado di portare in primo piano nell’agenda politica le questioni delle donne.

Qui di seguito un estratto,  potete leggere l’intero articolo a questo link: 

http://www.mammeonline.net/content/conciliazione-famiglia-lavoro-buone-pratiche-welfare-aziendale-le-indicazioni-ue

 

Come promesso, in pieno solleone estivo, la commissione europea ha appena pubblicato una roadmap (quanto ci piace fare tabelle di marcia chepoi nessuno tradurrà in fatti) che definisce le opzioni politiche in programma per affrontare le sfide della conciliazione lavoro-famiglia per genitori che lavorano.
Il sole di agosto produce questo documento. A poco serviranno delle tabelle di marcia, se poi non ci metteremo in marcia seriamente.

(…)
L’UE in definitiva consiglia soluzioni “mix”. Ma in pratica la roadmap appare debole, indebolita da quella sussidiarietà di cui parlavo in precedenza e che ha portato al fallimento della direttiva a giugno. Ci si scontra sempre con i veti interni e le difficoltà interne di ogni singolo Paese a varare soluzioni che vadano in una direzione unitaria.

(…)
Non abbiamo più ritenuto necessario e urgente avere un ministero dedicato alle pari opportunità e questo a dice lunga. Nonostante le varie pressioni e richieste nulla ancora si muove. Non ci basta qualcuno che ci sciorini dati, ci vuole competenza, attenzione e conoscenza delle problematiche delle donne, a livello nazionale e locale, qualcuno che sia una interfaccia credibile in sede europea, che sappia dialogare con le parti sociali. Saremo sempre indietro se non riusciremo a invertire la rotta. Non ci bastavano ieri e non ci bastano oggi le rassicurazioni che si prenderanno cura delle questioni delle donne.

 

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Un cuore che si ferma

 

La storia di Paola, di Mohamed e di tutti i braccianti che hanno perso la vita nei campi ci riporta alla realtà, ci costringe a guardare in faccia cosa sia il lavoro in agricoltura, oggi, 2015, Italia.

Nonostante ennemila leggi sul lavoro, sulla sicurezza, sui contratti. Nulla sembra scalfire il vuoto di tutele e il caporalato che affliggono l’agricoltura made in Italy, dai pomodori alle olive. Perché fare agricoltura non è fare l’imprenditore agricolo. Ricordiamoci il sudore di chi nei campi ci lavora sul serio. Non è l’orticello borghese sul balcone o il giardino pensile pensato da qualche architetto e venduto caro. Stiamo parlando di un sistema che si regge in gran parte solo grazie alle sovvenzioni europee, composto da tanti italiani che figurano come braccianti ma non hanno mai toccato una zolla di terra, gente che riceve tot euro dall’UE per ogni pianta presente nel suo appezzamento. Ci sono interi campi che vengono piantati e poi non si procede nemmeno alla raccolta, perché sarebbe troppo oneroso. L’agricoltura ha spesso questo volto: semino, ma non raccolgo, tanto mi basta dimostrare che coltivo. Fiumi di denaro che arrivano sì, ma evidentemente nelle tasche sbagliate. Non faccio fatica a chiamarli criminali, perché le morti e lo sfruttamento neo-schiavista sono questo. Ci sono caporali e caporale: non ve li immaginate come personaggi alieni. Nella vita di provincia sono il gancio per racimolare qualche soldo, naturalmente senza nessun tipo di sicurezza e di garanzia. Prendere o lasciare. Per molti questa è considerata una cosa normale, inevitabile, per qualcuno sono anche dei benefattori. Ci sono anche “caporali” mogli di professionisti, gente che gestisce il patrimonio terriero di famiglia, insomma un tessuto umano variegato. In paese godono di tutto il rispetto e la stima possibili. Ne conosco di casi, di persone che hanno usufruito di tutti i sussidi sociali possibili, i cui mariti professionisti affermati sono fieri di andare in giro a dire che non si possono pagare tutte le tasse, che è un salasso ingiusto. Gente che si muove benissimo tra le maglie di leggi e di regolamenti pieni di scappatoie. Ci sono caporali italiani e stranieri. Alcuni lavorano a stretto contatto con le cooperative agricole, perché la rete è essenziale, in questo l’organizzazione non manca. Ci si muove anche semplicemente tra conoscenze. Son coloro che figurano con un reddito quasi inesistente, fanno manbassa di agevolazioni statali, niente tasse, niente contributi per la scuola, semi-sconosciuti al fisco. E poi ci sono coloro che per una manciata di euro si spaccano la schiena e rischiano di morire nei campi. A loro non resta molto, ma in certi contesti non ci sono alternative e ci si adatta. La storia di Paola ha risposto a tutti coloro che cianciano e sostengono che il lavoro c’è, basta sacrificarsi. Paola quel sacrificio lo ha fatto, ma chiediamoci a che costo. Paola che non vedrà mai crescere i suoi figli, lei come tanti altri che sono considerati semplicemente degli strumenti di un’agricoltura che non è mai maturata e non si è mai affrancata da metodi disumani e schiavistici. Da Andria a Ragusa, a Nardò, lungo il nostro stivale, per tutte le donne e gli uomini sfruttati, vittime di violenza o che hanno perso la vita in questo inferno che è l’agricoltura A.D. 2015.

Non è il km0, il bio o le mele DOP coltivate lungo l’autostrada, queste sono solo le ultime forme imbellettate e narcisistiche di un’agricoltura in asfissia totale: di regole, di rispetto dei diritti umani e di onestà. Questa è la nostra brutta Italia, questa nell’anno di EXPO che parla di cibo. Un cibo ripieno di violenza. In un silenzio indifferente, rotto solamente quando ormai non c’è più nulla da fare. E dopo poco si continua, facendo finta di niente. Mai come in queste occasioni ci sta un: “che paese di m*!”

La nostra indifferenza mantiene in piedi un sistema criminale e bastardo, che pensa che qualcuno sia più sacrificabile di altri. Agli sfruttatori dico: quei soldi di cui vi riempite le tasche sono pieni di sangue e quel cibo che producete pure. Vigliacchi che poi inneggiate al “sano” e solidale made in Italy!

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