Qualche tempo fa una giovane donna è stata vittima di uno stupro di gruppo in un’università nigeriana, e la reazione di molti giovani nigeriani, sia ragazzi sia ragazze, è stata più o meno questa: sì, lo stupro è una cosa sbagliata, ma cosa ci faceva una ragazza in una stanza da sola con quattro ragazzi?
Cerchiamo, se possibile, di mettere da parte l’orribile disumanità di questa reazione. A questi nigeriani è stato insegnato che la donna è per definizione colpevole.
E gli è stato insegnato ad aspettarsi così poco dagli uomini che la visione dell’uomo come creatura selvaggia priva di autocontrollo per loro è tutto sommato accettabile. Insegniamo alle ragazze a vergognarsi. Incrocia le gambe. Copriti. Le facciamo sentire in colpa per il solo fatto di essere nate femmine. E così le ragazze diventano donne incapaci di dire che provano desiderio. Donne che si trattengono. Che non possono dire quello che pensano davvero. Che hanno fatto della simulazione una forma d’arte.
(…) Il problema del genere è che prescrive come dovremmo essere invece di riconoscere come siamo. Immaginate quanto saremmo più felici, quanto ci sentiremmo più liberi di essere chi siamo veramente, senza il peso delle aspettative legate al genere. I maschi e le femmine sono indiscutibilmente diversi sul piano biologico, ma la vita in società accentua le differenze. E poi avvia un processo che si auto-rafforza.
Chimamanda Ngozi Adichie, tratto da We should all be feminists – 2014
Si potrebbe pensare che la situazione in Italia sia diversa, ma i meccanismi che si innescano di fronte all’esplosione della violenza maschile contro le donne è sempre la stessa, con la stessa dose di pregiudizi, stereotipi, colpevolizzazioni e rivittimizzazioni. Diffusissime sono le prescrizioni, i consigli paternalistici alle donne su come prevenire, difendersi, senza mai focalizzarsi su chi agisce abusi e violenza e sulle cause alle sue radici.
Sto frequentando un corso di perfezionamento all’università sulla violenza su donne e minori. Durante una lezione è stata citata la scrittrice e attivista femminista statunitense bell hooks (pseudonimo di Gloria Jean Watkins) che nel suo “Feminist Theory: From Margin to Center” del 1984, rileva come le femministe non siano riuscite a creare un movimento di massa contro l’oppressione sessista perché il fondamento stesso della liberazione delle donne “fino ad oggi non ha tenuto conto della complessità e della diversità di esperienza femminile. Per realizzare il suo potenziale rivoluzionario, la teoria femminista deve iniziare trasformando consapevolmente la propria definizione per comprendere le vite e le idee delle donne al margine.”
Ed è da una posizione di “confine”, dal margine che si coglie la multiformità e la complessità delle istanze, delle questioni, delle fragilità, della capacità di trovare risorse e costruire resilienza. Ed è qui che occorre intervenire, investendo sulle donne.
Per questo ritengo che sia cruciale e di valore il lavoro compiuto da WeWorld Onlus, e che possiamo leggere nella ricerca“Voci di donne dalle periferie – Esclusione, violenza, partecipazione e famiglia”.
Nelle indagini svolte negli anni è emerso quanto forti siano gli stereotipi tra la popolazione italiana in merito a ruoli, violenza e discriminazioni di genere e come sia difficile scardinarli.
Si è cercato quindi di comprendere quanto di questa cultura fosse presente tra le intervistate e se i percorsi seguiti negli Spazi Donna (progetto avviato nel 2014, di cui avevo parlato qui) avessero in qualche modo contribuito a cambiare punto di vista e la mentalità. La maggior parte delle intervistate si dichiara contraria a certi stereotipi di genere, sono favorevoli al fatto che anche le donne debbano e possano lavorare fuori casa e che in tal caso debba esserci, di conseguenza, una equa condivisione dei compiti di cura e dei lavori domestici tra marito e moglie. Al contempo permane l’idea che la donna sia più “adatta” a occuparsi della casa e dei bambini. Numerose donne hanno acquisito consapevolezza (anche grazie al lavoro compiuto negli Spazi Donna) in merito a certi modelli ancora diffusi nel proprio quartiere o nella propria città e iniziano a prenderne le distanze, cercando di educare diversamente le figlie, insegnando loro l’importanza dello studio e della realizzazione personale. È fondamentale che si fornisca loro strumenti per andare oltre il ruolo di mamme e mogli, riscoprendo “l’esigenza di sentirsi anche e soprattutto donne, con una dignità e un diritto a essere rispettate, contro qualsiasi stereotipo e/o atteggiamento sessista.” Un percorso di presa di coscienza di sé che significa anche saper riconoscere la violenza e le sue radici culturali, un modello di relazione tra i sessi patriarcale tramandato di generazione in generazione. Ecco che assume un’importanza cruciale l’educazione delle donne alla parità tra i generi e al rispetto, solo in questo modo si può fare prevenzione della violenza. Iniziare un cammino per consentire alle donne di uscirne, supportandole per un reinserimento sociale, per una loro autonomia. I benefici poi naturalmente si espandono e abbracciano anche i figli, le generazioni successive, interrompono un ciclo fatto di modelli relazionali e di abitudini nocive.
Questo 25 novembre, si fa fatica a scrivere, perché le parole risuonano sempre più inutili, cadono vane nel vuoto lasciato dalle donne alle quali la vita è stata interrotta, all’improvviso, perché un uomo ha deciso che quella vita non potevano, non meritavano di continuare a viverla.
E di anno in anno ci ritroviamo davanti a questo abuso che pesa sulle nostre esistenze, giorno dopo giorno a raccogliere frammenti di forza per non fermarsi mai di fronte a ciò che accade, lo dobbiamo a Violeta e a Jessica, a tutte le sorelle che non possiamo più abbracciare, ai loro sorrisi e ai loro sogni.
Jessica Faoro voleva farcela da sola, cercava di uscire dalle difficoltà con tutto il coraggio e l’orgoglio di una giovane donna, alla ricerca solo di un po’ di serenità e di un futuro meno doloroso della sua infanzia e adolescenza. La giustizia ora seguirà il suo percorso, ma a dirla tutta, tante altre responsabilità, oltre a quelle di Garlaschi che l’ha trafitta con 85 coltellate, resteranno nell’ombra.
Un silenzio che devo dirlo si stende su tutti i bambini e gli adolescenti che passano il tempo tra una famiglia affidataria e una casa famiglia.
Un silenzio che li travolge una volta maggiorenni, considerati evidentemente autosufficienti, nonostante sappiamo bene quanto questo non corrisponda ad un’analisi della realtà. E se alle domande che avevamo posto dopo il femminicidio di Jessica non ci è mai giunta risposta, se a qualcuno interessa il destino di giovani vite come quella di questa ragazza, se vi resta un po’ di coscienza, adoperatevi affinché venga fatta piena luce sulle ragioni che avevano costretto questa ragazza ad accettare l’ospitalità di colui che sarebbe diventato il suo carnefice.
Terribile che si continui a esercitare una rimozione ogni qualvolta accadono simili tragedie, eppure sembra di scorgere sempre la stessa sottovalutazione dei segnali di pericolo e di rischio, una sequenza che non riusciamo a interrompere. Per una volta smettiamola almeno con l’ipocrita messinscena e dedichiamo anche solo un briciolo del nostro tempo a sospendere tutte le diatribe, le logiche di calcolo, i veti incrociati, i veleni, i distinguo, i ragionamenti autoreferenziali per pretendere in modo deciso che in questo Paese la violenza contro le donne non passi più come un flash di cronaca, ma sia finalmente considerato una questione cruciale, centro di un impegno politico che nasce dalla piena consapevolezza che tutto questo è violazione dei diritti umani, che le numerose forme di controllo e di annientamento delle donne sono il prodotto mortifero della cultura patriarcale che continuiamo a coltivare e a diffondere a piene mani, uomini e donne.
Guardiamoci dentro e iniziamo, partendo da noi, un viaggio, lungo, certamente faticoso e doloroso, per sbarazzarci di quel senso di oppressione e di ineluttabilità. Indubbiamente non avremo risultati visibili nell’immediato, ma quanto meno ci saremo liberate da una serie di scorie eredità di secoli in cui i nostri corpi sono stati campi di battaglia, oggetto di ogni tipo di sfruttamento, crimine, puro dominio indiscusso maschile, che tuttora molti uomini si sentono legittimati ad agire, un diritto e in alcuni casi un dovere di “piegarle per rieducarle”.
Il racconto delle esperienze delle donne può esserci utile per impostare il lavoro che oggi occorre mettere in atto, perché non vi siano arretramenti, consapevoli che i diritti conquistati hanno bisogno di cura e di conferme costanti nel tempo.
“Attorno a me c’era una specie di combutta. Volevano difendermi da me stessa. Volevano regalarmi la vergogna, ma per me non era una vergogna, la vergogna erano loro. Io ero fiera di essere lesbica.”
Così parla Edda Billi, una ragazza che con tenacia ha attraversato anni difficili, di grandi cambiamenti, ma sempre con le idee chiare, limpide, con il coraggio della semplicità, coerente, spontanea, con naturalezza ha rivendicato i suoi diritti e il suo spazio. E questa ragazza che ha scelto di essere se stessa, semplicemente se stessa, vivendo intensamente, senza rinunciare a un solo attimo, a nessun sentimento. Nel suo racconto emergono le difficoltà, gli enormi ostacoli e pregiudizi incontrati, ma allo stesso tempo dal suo sguardo luminoso si comprende che il suo nucleo prezioso è rimasto intatto, la sua spinta a non fermarsi è lì, più solida che mai. Schietta, di una trasparenza cristallina, diretta, tanto da sentirla vicina, vicinissima al mio sentire, al mio approccio nella vita. Edda conosce la vita nelle sue pieghe di pioggia e di sole. Intenso il suo impegno, il suo crederci a fondo, la sua militanza nel movimento delle donne, ironica, dolce e autentica.
“I maschi avevano il sopravvento” e ancora oggi ne facciamo esperienza. Sceglie ragioneria, ma se ne pente; poi la ricerca di un impiego, le sfide quotidiane: “Meno male che è venuto il femminismo, che mi ha salvato.” Il suo racconto si snoda in un flusso di coscienza, di ricordi che però ci richiamano all’oggi.
Le donne del Movimento femminista romano di Via Pompeo Magno andavano anche nei mercati tra le donne, ecco lì dobbiamo tornare.
E poi lo sguardo al futuro:
“Io mi auguro e sogno un mondo senza etichette, perché un mondo senza etichette vorrebbe dire che c’è un mondo di persone, uomini e donne, persone.”
“Niente è per sempre, basta un niente per non averlo più. Noi abbiamo fatto abbastanza, ma abbiamo anche una certa età. Io continuerò finché avrò voce, ma se arrivasse un aiuto non farebbero un sol danno, ho l’impressione che le ragazze di oggi stiano in silenzio, sento troppo silenzio in giro.”
Lo so Edda, forse siamo rinchiuse in anguste dimensioni, piccole stanzette che non permettono di avere un respiro ampio, una diffusione e una pratica quotidiana, nel nostro quotidiano. Un esercizio di contorsionismi poco comprensibili. Eppure le difficoltà non sono poche, non ce la passiamo bene e come anche tu rilevi, basta un niente per perdere tutto.
Penso al fare le battaglie guardando in senso collettivo, per le donne tutte, anche quando non ci riguardano direttamente, quel saper guardare oltre i confini del proprio orizzonte personale: la legalizzazione dell’aborto è stata una di queste.
“Amo le donne dai grandi piedi, che poggiano con cura sulla terra”, ho trovato molto importante questo tuo richiamo, questa ricerca di un contatto con la terra, con le cose reali, alla ricerca di fondamenta solide che facciano da base al pensiero, all’agire. “Poggiare con cura”, e nelle tue parole ritorna spesso la “cura”, quasi un incessante tendere le azioni e l’orecchio in ascolto, operando oltre se stesse. Cura e costruzione di relazioni autentiche. Ecco, senza tanti orpelli ed elucubrazioni, si giunge all’essenziale, a ciò che dovrebbe fare da base e da guida per il lavoro delle donne. Con coraggio e concretezza, a partire da ciò che sentiamo sulla nostra pelle. Domandandoci sempre cosa avvertiamo, che sensazioni e ricadute sentiamo. Non ce ne dimentichiamo, anche se a volte mettiamo la nostra persona, il nostro ego davanti a tutto, mandando in frantumi tutto, anche le più buone intenzioni, i tentativi privi di circonvoluzioni personalistiche.
Accade quando una nostra compagna parla, si esprime e ci si comporta come se non avesse proferito parola, come se il suo contributo non avesse importanza, perché esiste qualcuna, investita o che si autoinveste, che stabilisce cosa è degno di ascolto e di considerazione e cosa no: un modo di fare molto maschile e da gerarchia machista molto diffuso.
Altrettanto diffuso è il negazionismo di chi sostiene che non esistono queste prassi da “schiacciasassi” tra donne. Forse vivo altrove, eppure a mio parere è come quando si cerca di negare che esiste una sproporzione tra le retribuzioni maschili e femminili (con tutte le conseguenze), che l’obiezione di coscienza ha di fatto svuotato la piena applicazione della legge 194, che esistono le discriminazioni nel mondo del lavoro aggravate dalla maternità, che il modello di organizzazione di lavoro è tuttora di stampo maschile ma va bene così.
Come quando ci dicono che se ce la mettiamo tutta possiamo tener tutto in equilibrio, perché siamo noi il problema, mica altri fattori. Se solo smettessimo di giudicare e di colpevolizzare saremmo a buon punto.
E di linguaggio verbale o nei fatti usato a mo’ di grimaldello per adunare e orientare le truppe ne abbiamo in abbondanza e direi che è da bandire se vogliamo progredire e andare da qualche parte. E uscire, incontrarsi, vedersi, approfondire i temi, ascoltarsi, perché poi certi meccanismi nocivi praticati da alcune donne risultano più difficili da esercitare di persona, non hanno il coraggio di metterli in scena quando si è faccia a faccia, al massimo mandano avanti le loro valvassine.
Edda incarna la forza delle donne, sorella femminista, poeta imprigionata in un corpo politico, ci piace un sacco così com’è, le sue idee, la sua energia, la sua passione contagiosa. Mano nella mano tra generazioni, mi sento orgogliosa di essere femminista, di aver incrociato il femminismo e tante compagne, proprio come Edda. Come ho detto in passato a Dale Zaccaria, queste ondate rigeneranti arrivano sempre al momento giusto e ti permettono di uscire dalle secche. Non a caso entrambe hanno il dono della poesia. Di questo sono infinitamente grata loro.
Ciò che ci trasmettono le esperienze di donne come Edda Billi a Roma e Daniela Pellegrini a Milano, è la strenue lotta al patriarcato, in tutte le sue conseguenze nocive, in tutte le sue ramificazioni, in ogni anfratto in cui si insinua e prospera ancora oggi.
È stato sempre molto difficile avere rapporti con il machismo, perché li vedevo dappertutto. Quando guardavo profondamente negli occhi un uomo, vi scorgevo una lucina “io valgo più di te”, io l’ho sempre visto.
Solo che spesso pensiamo al patriarcato come a un fantoccio del passato, un coacervo culturale superato, forse perché abbiamo disimparato a chiamare i fenomeni con il loro nome.
Di fronte alla realtà che viviamo non possiamo continuare a omettere la verità e la scia interminabile di violenze sulle donne lo dimostra. Ma a questo dobbiamo aggiungere che spesso si corre il rischio di non inquadrare il problema. La responsabilità spesso è talmente spalmata, è di tutti, ma proprio a causa di questa narrazione generalista, rischia di non essere di nessuno. Ecco ciascuno dovrebbe assumersi le proprie responsabilità, altrimenti sembra quasi un esercizio di retorica. Arrivare nelle case, dalle donne che hanno bisogno di aiuto è complicato. È un fattore culturale, si minimizza e si riduce a semplice conflitto. Nella cronaca si parla tuttora di follia, di raptus, di corresponsabilità delle vittime, di una rivittimizzazione delle sopravvissute. Non riusciamo a mettere a fuoco. Facciamo fatica, sembra quasi che non vogliamo vedere. Il problema è che chiedere scusa ha senso se da domani si cambia e si correggono le prassi, altrimenti se tutto resta così com’è, nessun impegno, nessuna ipotesi concreta, le donne continueranno a subire violenze e a perdere la vita, continueranno a non essere credute e magari chissà, con le nuove norme all’esame insieme al ddl Pillon, correranno il rischio di essere accusate di calunnia nel caso non fossero in grado di dimostrare le violenze domestiche.
E allora, sembrano incomprensibili alcuni veti e ostruzionismi che a volte si ergono come muri tra donne, ma non è in una lotta intestina tra donne che troveremo le soluzioni. Nella incessante e alacre opera di intralcio, che alcune donne mettono in atto, non è tanto rilevante il tentativo di far incespicare il cammino di una compagna che si compirà, quanto un danno a tutte le donne, causato alla lunga da una sistematicità di certe prassi. Guardiamoci intorno, la situazione non è rosea.
Arretriamo e il “niente” di cui parla Edda purtroppo lo tocchiamo con mano, in quel congedo di paternità obbligatorio, misura non rinnovata, nelle coperture per la legge “a tutela degli orfani da femminicidio” che andrebbe applicata, negli attacchi alla legge 194, nel lasciar correre l’opera di svuotamento dei movimenti no-choice, nel ddl Pillon e nei testi collegati, nel non voler intervenire in modo sistematico e strutturale sui problemi, nel cambio di cultura, nell’educazione, nelle misure a sostegno delle donne, nel voler sempre mettere in fila le priorità quando in realtà si dovrebbe avere uno sguardo ampio, che sia capace di non lasciare indietro niente e nessuna. Per me femminismo significa stare dalla parte delle donne, non permetterò che si perda tempo e che qualcuno ci distragga volutamente, quello è donnismo che fa il paio con il maschilismo, introiettato dalle donne. E poi si cavalcano alla meglio certi temi, ma non perché ci si crede veramente, bensì per fini strumentali, in cui si tira l’acqua al proprio mulino, tanto per far finta di tenerci. I risultati possiamo osservarli da sole. Per non tornare indietro, dipende da noi riuscire a bruciare il veleno che il patriarcato porta nelle nostre vite.
Come femminista e come attivista politica ho avvertito la necessità di scrivere, per non lasciare che la morte di donne come Violeta passi sotto traccia. Dobbiamo far sentire la nostra voce, oggi più che mai.
Ci sono le parole dell’articolo di Lea Melandri, pubblicato il 7 novembre sul Manifesto, che pongono tanti interrogativi, danno un quadro della violenza sulle donne, ci accompagnano nella riflessione necessaria sulla sequenza infinita di episodi che in vario modo sono sintomi di una volontà di sottrarre alle donne la libertà di autodeterminare la propria vita, per viverla finalmente e possibilmente lontano da soggetti abusanti. Ed è innegabile che su queste storie stia calando la percezione dell’ineluttabilità, di un pericoloso ripiegamento in una dimensione privata. Ma se la violenza è un problema culturale, strutturale e rappresenta plasticamente l’asimmetria di genere tuttora presente della nostra società, l’esercizio di potere e controllo dell’uomo sulla donna, la difficoltà di costruzione di nuove relazioni e di un nuovo maschile, perché la narrazione sui media e tra le persone parla ancora sempre di follia, di raptus, di corresponsabilità delle donne, addirittura di…
Da quando ho appreso la notizia del senatore PD Mauro Laus che per silenziare o “argomentare” a modo suo, si è rivolto alla senatrice del M5S Alessandra Maiorino con la frase: “Vai in cucina”, mi risuona nella testa la frase “Houston abbiamo un problema”, e non è la prima volta. Sessismo, becero maschilismo, espressioni di una politica che hal’orticaria al rispetto, una malabitudine dettata da una misoginia culturalmente iniettata, mai scalfita, mai messa in discussione. Anzi, magari punto di orgoglio di un maschile che al posto di argomentazioni significative, nel merito, come si addice a chi fa politica, indipendentemente dallo schieramento, si limita a sparare ciò che automaticamente associa alla figura femminile. Un “torna a casa, sei nel posto sbagliato, al massimo puoi pulire casa e cucinare, cambiare i pannolini, il tuo luogo naturale non è un’aula parlamentare”: questo il senso. Ma questo è un quadretto che poteva sembrare storicamente “normale” in una società come quella del contesto della fase Costituente, ma oggi appare come qualcosa di fortemente nocivo, testimonianza di come una certa mentalità è ancora tutta lì, radicata. È quella lucina del “io valgo più di te” di cui parlava la femminista e poeta romana Edda Billi, nell’intervista andata in onda domenica. Certe espressioni vanno a sedimentarsi e fuoriescono incontenibili e normali. Segna un “sappi stare al tuo posto”, non oltrepassare la linea che per il tuo genere è stata secolarmente definita dal patriarcato. Significa che anche se i tempi sono cambiati, o così sembra, anche se oggi godiamo dell’elettorato attivo e passivo, dobbiamo ricordarci che chi detiene il potere sono sempre gli uomini, che ci “consentono” di fare politica, di partecipare alla vita economica, sociale, solo nella loro ombra. Il segnale di un sistema che strizza l’occhio al paternalismo, dove per poter avere peso devi poter contare su una “protezione”, devi essere mansueta, l’angelo del focolare a cui rimanda Laus. Allora sarai premiata e forse se ti comporterai bene avrai la poltroncina. E ci fa ancora più paura un certo silenzio, come se quella frase potesse essere lasciata scorrere via, senza indignarci. Non cambierà nei fatti molto, se continueremo a predicare parità di genere, valorizzazione delle competenze e del contributo delle donne, maggiore partecipazione delle donne in ogni ambito, senza praticare nemmeno un briciolo di rispetto. Sarà un puro esercizio retorico per rubare la buona fede, per illuderci. E questo vale anche per le donne, perché dal maschilismo introiettato non siamo immuni. In questo essere femministe può segnare una differenza, perché hai fatto un percorso che ha smascherato questi aspetti e li ha portati alla luce, hai toccato con mano le implicazioni e le ricadute negative della cultura patriarcale, sai riconoscerne le caratteristiche. Il segnale va dato, perché altrimenti tutto il lavoro che si compie con le nuove generazioni sarà vano, se i modelli resteranno questi. Coerenza vuole che l’indignazione nei confronti di simili atteggiamenti sia sempre esplicitata, agita, ogni qualvolta qualcuno cerca di rimandare la donna al “suo posto”, meglio se anche muta. La mia solidarietà alla senatrice Maiorino. Non lasceremo passare questo tipo di comportamenti, mai stare zitte. Per coerenza io parlo. Il linguaggio denota i limiti del mondo di chi lo adopera, non dimentichiamolo.
Simona Sforza
Coordinatrice Democratiche Municipio 7
La ministra della salute Giulia Grillo ha inviato un contributo in occasione del congresso Sigo-Agoi-Agui tenutosi a Roma nei giorni scorsi. La ministra si interroga sulla fertilità, anche se sarebbe preferibile parlare di fecondità, così come avrei dato più spazio e risalto al ruolo dell’ostetricia sia in gravidanza, che in fase di parto, che nelle fasi successive. Ci si accorge di quanto nonostante tutto, si giunge alla gravidanza (e non solo) abbastanza impreparate e spesso ci si accorge delle cose che non vanno, le difficoltà pratiche e la sensazione di doversi orientare un po’ da sole, solo quando ci toccano da vicino. È inevitabile, forse, ma direi che possiamo, dobbiamo fare meglio e occorre iniziare a invertire la rotta per tutto ciò che concerne la salute sessuale e riproduttiva.
Mi preme soffermarmi sulle sue valutazioni da ministra, perché in questo periodo è necessario più che mai che chi ricopre incarichi istituzionali intervenga su questi temi.
“Salute e benessere della donna dalla pubertà alla menopausa a tutto campo: l’informazione sulla fisiologia, la contraccezione, la fertilità. Ogni medico sa che la salute non è semplicemente assenza di malattia, ma riguarda il benessere della sfera psico-sessuale e affettiva. Per questo va ripensato il sistema dei consultori familiari che devono essere valorizzati perché possono e devono svolgere un ruolo essenziale se presenti in modo capillare sul territorio e se dotati di risorse adeguate.
La contraccezione deve tornare a essere gratuita, per lo meno per le fasce fragili o a maggiore rischio sociale: la prevenzione in questo ambito non è mai un costo, ma un investimento. Sul corpo delle donne non si devono più fare battaglie ideologiche. Sulla legge 194 troppo è stato detto, ma continua a mancare la garanzia del diritto per ogni donna in ogni parte d’Italia. Le leggi dello Stato si applicano in tutte le loro parti e il ministro deve adoperarsi perché ciò avvenga.”
Parole che hanno un peso e che ci auguriamo trovino spazio presto nelle attività del ministero, perché l’impegno sia tradotto in fatti.
Intanto, qualcosa sul fronte contraccezione si smuove. Presto la pillola anticoncezionale potrebbe tornare ad essere nei Lea e quindi a carico del Ssn. Questo orientamento emerge dalla risposta a un’interrogazione presentata da Michela Rostan (Leu), che chiedeva alla Ministra della Salute: “se non ritenga di assumere una iniziativa, per quanto di competenza, per garantire l’accesso gratuito e universale alla contraccezione, come già previsto dalla legge n. 194 del 1978, includendo i contraccettivi tra gli ausili per la cura e la protezione personale erogabili gratuitamente e prevedendone la distribuzione nei consultori come previsto dalla legge n. 405 del 1975”. In Commisione Affari Sociali ha risposto il sottosegretario Armando Bartolazzi che ha reso noto che Aifa ha in corso “un approfondimento, finalizzato ad individuare i farmaci anticoncezionali caratterizzati dal miglior profilo beneficio/rischio da ammettere alla rimborsabilità, al fine di garantirne un equo accesso”. Seguiremo con attenzione i prossimi passaggi.
Nel frattempo continuano ad arrivare sempre nuove mozioni no-choice nei comuni italiani, da ultimo Zevio, Buccinasco (MI) e Modena. Una sequenza infinita di “città per la vita” e laddove la maggioranza è “amica” vengono anche approvate (come a Verona e a Zevio per ora).
A Modena segnaliamo che prima (16 ottobre) che venisse presentata la mozione leghista (il 18 ottobre), il gruppo MDP aveva presentato una mozione a sostegno della legge 194 “Condanna e forte preoccupazione per l’attacco alla legge 194 e per il sempre maggiore numero di obiettori che mette a rischio la sua applicazione”, con un testo che secondo me coglie un elemento fondamentale:
IL CONSIGLIO COMUNALE DI MODENA
a) nel 40° della sua approvazione conferma il riconoscimento e condivisione di una legge, la L. 194/78, che ha reso le donne del nostro Paese più consapevoli, libere e le ha protette dalle pratiche clandestine fonte di malattie e morte;
b) esprime totale dissenso verso tutti i tentativi di depotenziare, sul modello della espressione del Consiglio Comunale di Verona, cancellare o rendere più penalizzante e colpevolizzante il percorso informato e consapevole previsto dalla Legge 194/78;
impegna il sindaco
c) a verificare se, nel percorso previsto nei servizi ospedalieri e territoriali del nostro territorio, sono coinvolte associazioni o gruppi religiosi che in una qualche maniera prendano parte o entrino nell’iter attivato dalle donne e dai propri sanitari, e se queste vengano finanziati dal Comune o da altre Istituzioni Pubbliche;
d) se quanto ipotizzato al punto c) dovesse essere accertato, a sospendere i propri finanziamenti sino ad una comunicazione ad hoc in Commissione Servizi convocata per valutare la compatibilità di tali azioni con la dovuta neutralità del percorso per le donne;
e) a contrastare, con ogni mezzo le sempre più preoccupanti tendenze integraliste e invasive nella libertà delle donne, di alcuni partiti e istituzioni che hanno l’obiettivo di ostacolare la applicazione della legge 194/78.
Mi sembra una posizione chiara, precisa, che si preoccupa di verificare e rimuovere tutti gli elementi che possono esercitare pressioni colpevolizzanti o ridurre l’autodeterminazione delle donne. In Lombardia è così da più di un decennio, in Lombardia è già in atto tutto questo, ne parlavo qui, eppure nessuno ha messo mai in dubbio la compatibilità di certe presenze e di certe operazioni che avvengono dentro strutture pubbliche.
A Modena è stato presentato un importante ordine del giorno a firma di Federica Venturelli e altre/i consigliere/i (Pd) del Comune di Modena: Piena applicazione della L.194/78 e potenziamento della rete dei consultori familiari (qui il testo completo).
Questo testo centra molti aspetti importanti, soprattutto quando si parla di “tutela della salute della donna – nella quale è implicito il diritto all’autodeterminazione – ma anche la tutela sociale della maternità e l’importanza di scienza e coscienza medica”.
Il Comune di Modena non si sottrae alle sue responsabilità, ma si assume “un ruolo di programmazione e coordinamento con gli altri Enti operanti sul territorio”, cosa di cui spesso ci si dimentica.
L’impegno per il Sindaco e la Giunta, è per me molto rilevante, introduce e sostiene il principio alla laicità e riafferma per il Comune un ruolo attivo e di sollecitazione delle istituzioni di livello superiore:
1. Ad affermare che la città di Modena informa le sue politiche al principio di laicità ed è città dalla parte delle donne;
2. A proseguire le politiche e pratiche di sostegno alla maternità e paternità responsabile, sostenendo la piena applicazione della L. 194/78 ed il potenziamento dei servizi socio-assistenziali previsti dalla L. L. 405/75 e della L.34/96,
3. Considerato il ruolo del Sindaco di Presidente della Conferenza socio-sanitaria territoriale, di vigilare affinché la legge 194 sia applicata nelle nostra realtà sanitaria e di rappresentare al Presidente della Regione Stefano Bonaccini e al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte le nostre istanze affinché la Legge 194 venga applicata e garantita su tutto il territorio regionale e nazionale.
4. Ad inviare la presente mozione alla Giunta della Regione Emilia-Romagna, sollecitandola a:
a. assicurare adeguati parametri di personale sanitario, al fine di garantire la piena applicazione della legge;
b. adempiere ai compiti, di spettanza della Regione, di verificare che le Asl organizzino il controllo e garanzia del servizio di Ivg;
c. prevedere una verifica puntuale sulla presenza di ginecologi e anestesisti obiettori nelle singole strutture, di attivarsi affinché anche in Emilia-Romagna vengano garantiti alle donne tutti i diritti della 194, come l’accesso a contraccettivi ormonali nei Consultori. Inoltre chiediamo di valutare valori percentuali sopra i quali la Regione possa decidere, come già fatto dal Lazio, di attuare interventi specifici volti a garantire il pieno diritto di scelta della donna.
Queste mozioni ci confermano che è il momento di far sentire la nostra voce e di prendere posizione contro le derive oscurantiste, volte a indebolire la piena applicazione della legge 194 e a finanziare soggetti privati che da sempre lavorano per la sua abrogazione.
Non si può e non si deve sottovalutare l’impatto dell’operazione messa in atto dalla catena di mozioni no-choice, anche perché si moltiplicano e si espandono. Vi consiglio questo video, è molto utile per capire cosa avveniva in passato, in assenza della 194.
Di questi tempi è necessario tornare a ribadire che le donne devono poter esercitare la propria scelta in tema di diritti sessuali e riproduttivi, libere di decidere se e quando diventare madre, quanti figli avere, senza essere considerata la solita zolla fertile da seminare per garantire la prosecuzione della stirpe nazionale.
Sembra un’ossessione: assolutamente in linea con il fertility day, l’esaltazione delle mamme e il clima che aleggiava anche nella precedente legislatura, oggi viene proposta una nuova formulazione che sottende la medesima cultura e mentalità:
“..Patria, prole e terra. Fai un figlio in più (il terzo) e lo Stato ti concede gratis un terreno da coltivare per i prossimi vent’anni. È una delle misure previste dalla bozza della manovra per favorire la crescita demografica. E se compri casa in zona il mutuo avrà tasso zero..”
A mio avviso servirebbe un buon psicanalista a chi concepisce simili trovate, per capire da dove ha origine questa compulsiva riproposizione dell’associazione terra-figli-fertilità-semina-coltivazione-riproduzione. Anziché interrogarsi sui reali motivi per cui non si fanno più figli, se ne fanno sempre meno, i nostri governanti ci regalano qualche ettaro si suolo italico, dal valore patriottico inestimabile, previo terzo figlio. Le misure previste nella legge di bilancio “per la famiglia” sono un bel mix, il cui dettaglio ci converrà seguire con attenzione, perché ricordiamoci chi è il ministro per la famiglia: Lorenzo Fontana.
L’immaginario simbolico che si vuole suggerire è quello di un modello di famiglia che strizza l’occhio al passato, con l’auspicio che le donne tornino a stare a casa, ma a casa e basta, lontane anche da qualsiasi impegno sociale e di comunità, legate alla terra, un figlio su un braccio e una vanghetta nell’altra mano. Ci vogliono bene, con tanto di ritorno idilliaco alla terra, all’auto-sostentamento, a “tutta casa, terra e tomba” delle nostre aspirazioni. Non so se si rendono conto della situazione reale, non so se si rendono conto di quali sono i principali ragionamenti che incidono nella scelta di fare un figlio. Non siamo esseri umani, ma portatrici di utero e a quello ci dobbiamo dedicare secondo Fontana, Pillon & co.