Nuvolette di pensieri

Mormora l'acqua del ruscello

Quando la tv produce “diseducazione di massa”


Nel flusso ininterrotto e interminabile delle forme attraverso le quali si normalizza la violenza, non vi è dubbio che la tv concorra a sfornare una consistente fetta dei produttori di “diseducazione di massa”.
Quando si tratta di far passare messaggi nocivi pur di fare audience, i reality sono al primo posto e purtroppo, avendo un buon seguito, riescono a fare danni su un gran numero di persone, specialmente giovani e giovanissimi. Non c’è filtro, non c’è controllo, nemmeno a posteriori, tutto passa e scorre come l’acqua, pur essendo spesso altamente pericoloso. Tra luci, lustrini e vip, che di importante non hanno nulla, passa veramente ogni cosa come, ad esempio, al Grande Fratello Vip, che ha già in passato dato prova di riuscire a sfornare episodi pessimi, serviti senza la capacità di fornire un freno, una stigmatizzazione, un limite. Quest’anno, è la volta di Ivan Cattaneo che ha tranquillamente formulato questo pensiero:

“Rifiutare una donna è peggio che violentarla. Perché nel secondo caso almeno si sente oggetto del desiderio”.

Abbiamo davanti una ennesima declinazione del concetto per cui “alle donne alla fine, tutto sommato, piace subire violenza”. Nessun trauma, nessuna ferita psicofisica, nessuna traccia, solo benefici a quanto pare per le donne, che restano oggetti sessuali, si badi bene, a disposizione e conseguentemente da consumare. Non è comprensibile la genesi di una frase di questo genere, indigesta, intrisa di pregiudizi, ma soprattutto tagliente, malefica e capace di reiterare la violenza, addirittura moltiplicandola.
Chi ha subito uno stupro si sente annientata sentendo quelle parole andate in onda, mentre chi lo ha commesso viene riabilitato, apparendo quasi un benefattore. In questo giro di frittata, viene servita su un piatto d’argento una porzione di puro machismo nostrano, che davvero appare talmente radicato nella mentalità da essere espresso con naturalezza e disinvoltura in ogni occasione, nella colpevole assenza di chi avrebbe potuto stigmatizzare a sufficienza e riconoscere come inaccettabili e altamente lesive certe espressioni.
Se tutto andato in onda su Mediaset Extra, che segue la diretta del programma di Canale 5, mercoledì sera intorno alle 23.30, ci pensa anche la carta stampata a peggiorare ulteriormente il livello. Difatti Il Giornale al riguardo della frase di Cattaneo si interroga: “Ma si può dire che una donna si senta oggetto del desiderio quando viene violentata?”. Ci si sente arbitri di un ipotetico confronto ideale sull’argomento, così come i giudici della trasmissione in questione. Tanto immersi nel loro preconfezionato ruolo che paventano al cantautore l’espulsione per essere rimasto nudo davanti alle telecamere in fascia protetta e poi non considerano più che sufficiente mandarlo via per quanto affermato in merito alla violenza sessuale.
Certo sappiamo quanto siamo ben lontani in certi ambiti dal dare il giusto peso e valore alle parole, visto che ognuno si sente legittimato a esprimere concetti sempre più indegni, a sdoganare e accarezzare i peggiori comportamenti, deformando la realtà, negando quanto devastante sia l’esperienza di uno stupro, sottraendo forza al lavoro di quanti da anni si impegnano per cambiare la cultura alla base della violenza. Dovremmo imparare a fare ascolti senza assecondare la cultura dello stupro.
Non possiamo voltare la testa dall’altra parte e considerare quanto avvenuto al Grande Fratello Vip parte dello show, perché questa spazzatura servita spesso e volentieri non ci permette di costruire un immaginario diverso, una società in cui la violenza sulle donne non abbia alibi e non sia qualcosa su cui costruire battute.
La violenza lascia segni indelebili, non dimentichiamolo mai. Come ammenda Mediaset dovrebbe innanzitutto chiedere scusa e poi accogliere le testimonianze delle donne che hanno subito violenza, mostrare la realtà così com’è, perché si ha come l’impressione che non la conoscano o non vogliano vederla.
Simona Sforza e Maddalena Robustelli per Chi Colpisce Una Donna, Colpisce Tutte Noi
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Violenza di genere. Chi sensibilizzare?


Ci sono violenze che non emergono mai, fino a che non accade qualcosa di irreparabile, il femminicidio. La violenza è ancora percepita come un fatto privato e invece dobbiamo dire che no, non è così, a più livelli, ciascuno con le proprie competenze e responsabilità, dobbiamo accompagnare le donne affinché riescano a intraprendere un percorso di fuoriuscita dalla violenza, affinché riescano a denunciare ciò che hanno subito.

Scrivo perché desidero poter dare il mio micro contributo per diffondere informazioni, notizie, condividere battaglie e in qualche modo a creare consapevolezza. Ci sono tanti modi per farlo, io lo faccio con i mezzi e gli strumenti che ho a disposizione. Scrivere serve anche a me stessa per mettere a fuoco pensieri, opinioni, riflessioni, dati e fonti. Ma soprattutto penso da sempre a un punto essenziale: le donne non devono essere lasciate sole, non devono restare isolate con ciò che la vita mette loro davanti, devono sentire che al loro fianco c’è chi le sostiene, le ascolta, gli crede e può aiutarle. Per questo è importante mettere in circolo le informazioni e fare passaparola. Ho ricevuto più volte dei segnali che le mie parole riescono ad essere utili, soprattutto riescono a fare emergere il desiderio di raccontare le proprie esperienze, di condividere la propria storia, perché non accada ad altre, affinché le cose cambino, ci sia un miglioramento. Questo vale a maggior ragione quando si tratta di un caso di violenza, quando si vive una delle esperienze più dolorose, capaci di segnarti nel profondo. Spesso si chiede alle vittime di violenza perché non hanno denunciato prima, perché hanno aspettato. Ci sono violenze che non emergono mai, fino a che non accade qualcosa di irreparabile, il femminicidio. La violenza è ancora percepita come un fatto privato e invece dobbiamo dire che no, non è così, a più livelli, ciascuno con le proprie competenze e responsabilità, dobbiamo accompagnare le donne affinché riescano a intraprendere un percorso di fuoriuscita dalla violenza, affinché riescano a denunciare ciò che hanno subito. Dobbiamo mettere in campo tutti gli strumenti per proteggerle effettivamente ed efficacemente, e se hanno figli minori, assicurare loro altrettanta protezione. In caso di stupro o stalking non dobbiamo sfoderare il consueto armamentario volto a rivittimizzare le donne.

Ringrazio V. (iniziale fittizia) la donna che ha voluto condividere la sua storia. Penso che la sua testimonianza, insieme a quella di altre donne, possa servire a ribadire ciò di cui le donne hanno bisogno, a chiedere che le cose cambino al più presto. Ho rimosso ogni riferimento che potesse rendere riconoscibile questa donna, la sua esperienza ha un valore universale.

Quando trovi la forza e il coraggio di uscire dalla “gabbia” della paura, e decidi di chiedere aiuto, la violenza che hai subito fino a quel momento, in qualche modo l’hai accettata, vorresti e cerchi di voltare pagina.

Magari, puoi anche accettare e fare i conti con l’insensibilità e l’omertà intorno a te, ma l’omertà e l’abbandono da parte delle Istituzioni a cui ti rivolgi, per chiedere tutela, protezione, aiuto e supporto…PROPRIO NO, NON SI PUO’ E NON SI DEVE ACCETTARE!!!!”

Esordisce così, V. in quella che è una esperienza di stalking da parte dell’ex, “un’enorme sofferenza e disagio, difficile da spiegare e quasi impossibile da comprendere”. Prova “un senso finalmente di sollievo”, pensando che la accoglieranno, dandole tranquillità e serenità e un senso di protezione; “invece, sin dal primo approccio, incontri atteggiamenti ostili”. V. vorrebbe sentirsi dire “tranquilla, ora ci siamo noi”, invece trova scarsa considerazione, atteggiamenti volti a scoraggiarla, sguardi solo di curiosità, nessuno che le creda. Si è ritrovata sballottata da un ufficio all’altro, una pratica che passa da un dipendente all’altro. Rimbombano le parole “non accoglienza”, “leggerezza”, avverti tutte le difficoltà che le si sono frapposte davanti alla denuncia, nel momento in cui ha finalmente trovato la forza di farlo. La documentazione allegata, l’insistenza con cui il suo stalker non demorde e continua a perseguitarla non sembrano sufficienti per un intervento tempestivo di allontanamento.

 

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Oggi è nato un fiore rosso

Vi aspettiamo domani pomeriggio a Quarto Cagnino per l’inaugurazione!

Circolo Pd Fratelli Cervi - Milano7

di Simona Sforza

Oggi è nato un fiore rosso, nel quartiere di Quarto Cagnino, nel nuovo giardino Zoia 105, riconsegnato alla cittadinanza. Vista da lontano questa panchina spicca come un fiore rosso all’orizzonte.

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Riconoscere valore, dare esistenza


Non avrei voluto tornarci su. Un po’ per non voler alimentare le consuete atmosfere da trincee contrapposte, un po’ perché ho già in passato lungamente cercato di spiegare il mio punto di vista, partendo da me. Ed è da qui e solo da qui, da questa piccola finestra, che posso partire ed esprimermi, perché oltre mi sostituirei alle altre donne. Se c’è una cosa che ho imparato dal femminismo è la sospensione e la rinuncia ad atteggiamenti e pensieri giudicanti, la necessità di un esercizio costante di ascolto, un partire da se stesse senza la presunzione, l’intenzione, l’abitudine a sostituirsi all’altra. Le esperienze sono molteplici, diverse, uniche anche se sembrano simili, i caratteri, le possibilità diverse e mutevoli, le scelte mille, le soluzioni variegate.

Mi sono trovata davanti a questo articolo.

“la condizione delle nostre donne che lavorano in casa, curando le attività domestiche e i familiari. Ossia un’attività di lavoro a tempo pienissimo, sabato e domenica inclusi, che le impegna decine di ore a settimana e per la quale non esiste alcuna retribuzione. Manca persino una qualsiasi forma di riconoscimento sociale. Una condizione che non è esagerato assimilare a una sostanziale schiavitù.”

“Persino in un periodo di promesse politiche mirabolanti come quello che stiamo vivendo, la condizione delle donne italiane che lavorano per la casa e i familiari non suscita alcune attenzione.

(…) Il 71% delle ore di lavoro gratuito svolto in Italia nell’anno 2014 (oltre 50 miliardi) è stato svolto da donne per attività domestiche. Si tratta, spiega Istat, di “un valore superiore al numero di ore di lavoro retribuito prodotto dal complesso della popolazione”. Le casalinghe da sole hanno regalato all’Italia 20 miliardi di ore di lavoro.”

Mi ha fatto piacere constatare che l’autore di questo articolo fosse un uomo, perché sembra a volte che ce la cantiamo e ce la suoniamo da sole.

Due giorni fa sono stata contattata per una indagine Doxa proprio sul tema lavoro. Mi sono trovata a rispondere alle domande che di solito leggo nelle statistiche, mi è stato anche chiesto se le leggessi. Sono anni che le leggo, le analizzo e ne scrivo (qui uno dei miei ultimi scritti). Ma siamo sempre lì. Lo so che ci sarà qualche voce femminile che mi dirà che un lavoro se non è retribuito non può definirsi lavoro. Lo so che ci faremo ancora del male tra di noi. Lo so che continueremo a lapidare le donne. Lo so che molte donne mi diranno che senza busta paga si è parassite e improduttive. Eppure, forse basterebbe chiamare le cose con il loro nome. Sapete, nell’indagine Doxa c’era anche qualche quesito che serviva a rilevare l’ascensore sociale, i titoli di studio ecc. Mi sono accorta ancora una volta che non solo è fermo, ma non fanno manutenzione da un pezzo. Mi sono resa conto che mentre rispondevo alle domande era come quando ho compilato il modulo per confermare le mie dimissioni. Una x in una casella e poi tutti a casa.

La sensazione di un disinteresse si fa strada, e poi le leggi per toglierci anche quelle poche briciole, per schiacciarci. Siamo quelle delle “rendite parassitarie” come dice Timperi. Siamo quelle da annientare, e in questo gioco al massacro partecipano anche tante donne. Perché siamo sempre in prima fila quando si tratta di essere le prime e più efficienti nemiche di noi stesse. Sempre pronte a ferirci, sempre pronte a strapparci di mano un sogno, una speranza, un desiderio.

Questo articolo ci ricorda come siamo messe, finché non dimostreremo un po’ di solidarietà tra noi, saremo sempre ferme. Prima o poi dovremo affrontare questo passaggio, quanto meno parlarne. Per farlo occorrerà far tesoro di tutte le riflessioni che ci hanno regalato le donne delle generazioni precedenti, poi dovremo perdonarci, dovremo accettare le scelte delle altre, anche se non le comprendiamo o non le condividiamo, anche quelle che scelte non sono, dovremo accogliere le storie di ciascuna come un unicum e rispettarle, dovremo non anteporre le soluzioni ai desideri di ciascuna, dovremo essere capaci di smontare certezze che ci siamo costruite per poter andare avanti, dovremo non avere l’ansia di poter dover far tutto, dovremo abbandonare l’idea che un tipo di vita e di occupazione sono migliori di altre, dovremo smantellare modelli di lavoro costruiti dagli uomini e a loro convenienti, dovremo rifiutare la minestra e la ricetta che ci è stata imposta quando secoli fa siamo entrate nel mondo del lavoro retribuito. Dovremo sovvertire il sistema non solo di produzione, ma anche di welfare pubblico, che al momento si assottiglia sempre più e che necessità una ristrutturazione. Il lavoro che doveva emanciparci e liberarci non è stato la chiave delle nostre catene. Questo dobbiamo ammetterlo. Ci ha elargito qualche briciola, ma la sostanza che appesantisce la qualità delle nostre vite non cambia.

Forse occorrerebbe uscire da sé e ampliare l’ottica, liberarsi di catene e di ansie da prestazioni, con il bilancino alla mano. Il reddito fuori casa non sempre toglie le catene, altrimenti non ci sarebbero certi fenomeni e come donne avremmo raggiunto altri traguardi. Io mi guardo in giro e non ritrovo benessere ma equilibrismi. Essere qualcosa che gli altri ci suggeriscono non è mai gratificante. Io posso parlare però esclusivamente per me e guardare cosa accade fuori da me. Esistono innumerevoli donne che pur lavorando perpetuano modelli opposti all’autodeterminazione e profondamente arcaici.

Se l’autonomia economica genera vantaggi, più capacità di autodeterminarsi, non si spiegherebbe la violenza economica su donne che lavorano, negarla non si può .

Forse c’è qualcosa che ci inchioda di più profondo dell’assenza di un reddito proprio, una cultura che rende possibile il controllo anche laddove si potrebbe ipotizzare una maggiore possibilità di liberarsene e di sottrarvisi. La cultura genera prassi che rendono di fatto tutto più complicato e meno scontato. Non è per sentito dire che ne parlo.

Spiegatemi perché si continua a voler invisibilizzare una quota di produttività. Perché non si riesce ad andare oltre le statistiche e attuare politiche che valorizzino e inizino a comprendere quali meccanismi reggono il sistema. Chiediamoci perché tanta resistenza al trovare fondi per un congedo di paternità obbligatorio di durata pari a quello materno, perché continuano a ripeterci la frase “basta organizzarsi”, perché seri strumenti di work life balance sono ancora chimere e rarità, perché le donne sono sempre più chiuse in una dimensione privata e come gli struzzi hanno perso l’energia e l’abitudine ad alzare la testa, perché il welfare è ancora prepotentemente qualcosa di femminile e di autogestito, perché non è visibile, gratuito e lo si dà per scontato. Non è che se si parla di reddito alle casalinghe ci vogliono fregare, ci stanno già fregando da tempo e forse non ce ne accorgiamo nemmeno.

Spiegatemi perché si continua a mantenere un modello lavorativo di stampo maschile.

Due anni fa scrivevo:

“La nostra gestione simultanea dei due globi di vita pubblico-privato, familiare-produttivo, produzione-ri-produzione, hanno cercato di trovare un equilibrio, un’equiparazione tra questi ambiti. Per molto tempo abbiamo visto differenza e uguaglianza come due cose separate, inconciliabili, inseguendo la seconda, rifuggendo dalla memoria della prima.

Per poter entrare e permanere in certi contesti lavorativi abbiamo dovuto assecondare il fatto che il modello maschile si rifiutasse di integrare la differenza sessuale nella cultura del lavoro creata dagli uomini. L’accettazione e l’integrazione esigevano la negazione di ogni specificità, soluzione diversa, e l’invisibilità del genere con cancellazione della differenza. Quindi abbiamo avuto l’accesso, ma la parità è rimasta teoria, poco reale. Al contempo, in lavori tipicamente femminili, sono state riversate alcune capacità sviluppate in ambito domestico.”

Forse occorrerebbe guardare ciò che abbiamo accettato passivamente e a cui abbiamo rinunciato a dare un’altra forma, un altro corso. Perché farci sopraffare dall’ansia di dover dimostrare sempre qualcosa agli altri, per interpretare ruoli che ci ingabbiano. La libertà è nella nostra testa, nel non dover “per forza”, nell’insubordinarsi a meccanismi mentali indotti da una cultura secolare.

Cristina Borderías, nel suo “Strategie della libertà”, Manifesto Libri, 2000, scrive: “Produzione e riproduzione esigono dalle donne logiche di accettazione e di esercizio di valori radicamente contrapposti. Per questo la doppia presenza ha significato non solo la difficoltà di accumulare due giornate di lavoro o di assicurare una presenza simultanea nella famiglia e nella professione, ma necessità di tenere insieme e mettere in relazione le logiche dispari delle due culture del lavoro.”

Quindi è necessario cambiare i tempi, trovare una nuova forma di organizzazione sociale e di regolare i compiti di pubblico e privato. Trovare un nuovo centro, ma che ciascuna possa definire.

Pretendere un intervento pubblico nei servizi di sostegno al care, significa colmare una grave fonte di discriminazione tra donne di censi diversi.

La divisione sessuale del lavoro (produzione-uomo; riproduzione-donna) non è mai passata di moda, e le condizioni socio-economiche attorno la alimentano. La gestione emergenziale, ognuna per sé, reggere a ogni costo, dimostrare sempre qualcosa in più per poter esistere, avere un posto nella società, nella famiglia, nel lavoro.

Sarebbe da proporre un nuovo contratto sociale, in cui si dovrebbe creare una rinegoziazione dei tempi del lavoro tra uomini e donne.

Cambiare cultura del lavoro serve a cambiare le relazioni tra i generi. Riorganizzare il lavoro nella sua complessità e globalità.

I compiti di cura fanno parte pienamente del sistema economico, anche nell’invisibilità e nella scarsa considerazione di cui hanno goduto. In questo vortice di “lavori” la nostra forza politica è sempre stata silenziata, sbriciolata, la nostra lotta sacrificata su un modello di partecipazione fittizia.

Non sbraniamoci sul reddito alle casalinghe, non restiamo a questo livello di interazione, non arrocchiamoci nella polemica per evitare di discutere di altro. Il punto non è reddito sì vs reddito no, alziamo lo sguardo e riflettiamo su cosa potrebbe essere davvero utile. A mio avviso il senso dell’articolo è riportare alla luce un dato che spesso viene invisibilizzato, è uno stimolo a sviluppare un’analisi, un confronto, al di là della proposta che può essere condivisibile o meno, ma che non deve generare lotte intestine o tra porzioni di popolazione. Dobbiamo essere capaci di analizzare una realtà complessa e fuori dalle banali reazioni. Oltrepassiamo la monetizzazione di ogni minima cosa, chiediamoci cosa continuano a nasconderci. Per esempio, pensiamo al fatto che la retribuzione più bassa e più vantaggiosa delle donne non è sufficiente a preferire le donne, perché c’è la necessità di perpetuare il “servizio” femminile in ambito domestico, vitale perché gli uomini si possano dedicare completamente all’attività lavorativa. Per questo c’è tuttora il gap salariale di genere e il tentativo di escludere le donne dai lavori meglio retribuiti.

Oggi che sono adulta, sono madre, vorrei solo dire a mia madre di perdonarsi, di non avere più sensi di colpa. Ogni tanto parliamo di quando ero piccola. Io ho ricordi precisi, come se fosse ieri, lei li ha persi nel turbine che è stata la sua vita di insegnante, madre, care giver per decenni. Le mancano questi avvenimenti, i dettagli, le sensazioni, ciò che abbiamo vissuto insieme le è scivolato via per i ritmi indiavolati di quegli anni. Io ho avuto un’esperienza analoga ma per tempi più brevi. Ma so che per ognuna di noi è diverso per ennemila motivi e so che raffronti non si possono, non si devono fare. Qualcosa si perde inevitabilmente, così come qualcosa si guadagna ma ripeto, dobbiamo salvarci e perdonarci, qualsiasi scelta facciamo. E ne possiamo fare di diverse nel corso della nostra vita. Dobbiamo capire che ci sono situazioni e situazioni, circostanze e variabili imprevedibili, fuori dal nostro controllo diretto, cose che lasciamo indietro, bivi che prendiamo.

Precarietà, retribuzioni incerte e basse, tempi di lavoro e modalità di lavoro super-flessibili come si conciliano con l’autodeterminazione delle donne, quanto determinano scelte obbligate e vere e proprie nuove forme di schiavitù?

Quante di noi hanno la possibilità di contrattare nuove forme di vita e di lavoro?

Adele Pesce a metà degli anni ’80 (in Lavoratrici e Lavoratori) parla di dilemma uguaglianza/differenza:

“rivendicare una trasformazione dei rapporti di potere tra uomini e donne nello spazio di lavoro senza omologarsi al modello maschile, cioè conservando e rendendo significativo il valore della propria differenza senza che questo porti a una svalorizzazione del proprio lavoro e della propria identità.”

È giunto il tempo del non giudicare e di smetterla di punirci. Siamo produttivi e produttive in vario modo, al di là di ciò che il sistema capitalistico ci ha fatto credere. Il contributo delle donne è visibile, basta avere occhi per guardarlo. Basta sensi di colpa, basta generalizzazioni, basta con la rassegnazione. La doppia presenza ci dovrebbe consentire di sviluppare soluzioni, modelli, cultura del lavoro nuove e diverse. Dovremmo davvero smetterla di accettare una pappa secolare patriarcale, paternalistica, che regge anche per un sistema che si fonda su un accesso al mondo del lavoro non sempre sano e paritario. Adoperare le variabili a nostro vantaggio, plasmare una flessibilità che non ci riduca in poltiglia e schiacciate dalla precarietà, agire empatia e solidarietà. A volte vedo solo che ci hanno abituato a ragionare per orticelli. Occorre comprendere che “attività produttiva” contiene molte più sfaccettature di quelle che ci hanno abituato a vedere. Si tratta di una rivoluzione in primis culturale. Parliamone, senza fraintendere il senso di emancipazione, con gli occhi che sappiano accogliere e includere le differenze. Riconoscere la realtà è riconoscere il valore di ciascun contributo.


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Prostituzione, oggettivazione e violenza su donne e bambine: quali i denominatori comuni?


Ho letto la notizia questa estate, un bordello con bambole in silicone apre a Torino. Ho sospeso ogni riflessione esplicita perché qualcosa maturasse, senza inseguire tempi e urgenze.

Il patriarcato è tutto qua, più evidente di così! In questo ricercare sempre nuovi modi di agire qualsiasi tipo di espressione dei suoi fondamentali, ovvero sperimentare violenza e dominio assoluto. Perché l’abuso e lo stupro a pagamento di donne prostituite e tutto quello che gli uomini intendono fare su bambole in silicone appartengono al medesimo universo culturale: ciò che ancora in molti/e continuano a non voler vedere e a non voler ammettere quando si parla di prostituzione e della violenza a cui sono costrette donne e bambine.

Ovvero, la più antica forma di oppressione. La pratica dell’uso di corpi umani come mercato è stata normalizzata dal sistema economico neoliberista, tanto da non riconoscerne più i tratti schiavistici e di sfruttamento. La tratta di esseri umani per molti è una questione da tenere separata dal resto, eppure sappiamo che così non è, serve a tenere in piedi il mercato del sesso, al pari dello sfruttamento delle difficoltà di chi vive situazioni marginali, di difficoltà e non ha alcuna alternativa di sopravvivenza.
Riconoscere questo è il primo passo per comprendere l’operazione in corso nella sua interezza.

Non è assolutamente rassicurante l’idea di aprire bordelli con simulacri umani da adoperare come banco di esercizio di pratiche che vengono esercitate purtroppo su donne reali, che non termineranno di certo con l’apertura di simili strutture.
Perché non vi è separazione, perché è tutto parte di una medesima mentalità, prassi, di un agire violento, che troviamo anche nel consumo di pornografia, nella ricerca di un consumo compulsivo di sesso avulso da tutto.

Un ennesimo elemento che illustra esattamente a che punto è l’espressione maschile, l’immaginario, le abitudini, le pretese, la capacità di emanciparsi degli uomini da catene secolari. Perché se le donne hanno affrontato un percorso di consapevolezza, più o meno intrapreso e riuscito, molti uomini vivono una sorta di schizofrenia, scegliendo di incarnare sempre il medesimo modello, forza, assenza di sentimenti, rapporti basati sul dominio e la sopraffazione, nessun coinvolgimento emotivo, perché le emozioni non appartengono al loro genere…

E questo tipo di bordelli non possono essere letti come antidoto alla solitudine, non può esserlo, non può trovare banalizzazioni, letture bonarie e consolatorie. Perché dietro a questa domanda c’è un mondo da leggere e di cui occuparsi e preoccuparsi. Perché è alla base di quella mostruosa escalation di violenza a cui assistiamo giorno per giorno, alla base di tutto questo appropriarsi dei corpi e delle vite delle donne, c’è questo pensiero unico.

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Dobbiamo pensarci noi, chi sennò?


Riprendo dall’ultima frase adoperata in questo mio recente articolo, per aprire un approfondimento, che vuole anche essere una proposta di lavoro congiunta, che abbisogna di più forze, di più competenze e di più canali perché emerga e si faccia largo in questa ripresa settembrina, prima che sia troppo tardi. E valgono pure tutte le considerazioni precedentemente fatte, sulla necessità di trovare un modo per sospendere quell’atmosfera da fazioni permanentemente in disaccordo e avviare una fase di concentrazione produttiva degli sforzi e di condivisione delle questioni più urgenti. Usciamo dal pensiero utilitaristico, le cose migliori sono arrivate da modalità diverse, da un mettersi a disposizione senza se e senza ma.

In pratica si tratta del DDL ad iniziativa del senatore Simone Pillon (conosciuto come organizzatore del Family day, per il suo “allarme strega” e per la sua recente affermazione “Via l’aborto, prima o poi in Italia faremo come in Argentina“). Il testo dal titolo “Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità”, è stato assegnato in pieno agosto alla II Commissione permanente Giustizia del Senato in sede redigente (tradotto, la commissione redigerà un testo che dovrà passare in aula per il voto senza alcuna possibilità di discuterlo ed emendarlo).

A brevissimo sarà in discussione in Commissione e l’iter scelto è già un segnale di una volontà di accelerazione e di incassare al più presto l’approvazione del pacchetto completo. Testo che innocuo non è ed appare come uno stravolgimento non solo di capisaldi del diritto di famiglia, ma di principi che ledono anche i diritti delle donne e soprattutto di pilastri che dovrebbero tutelare i figli, che non sono pacchi, ma esseri umani che devono crescere in un clima, contesto, ritmi e abitudini idonee.

C’è di tutto:

– obbligo di mediazione familiare (ex art.7 e art. 22, e chissene dell’art. 48 della Convenzione di Istanbul), con la creazione di un albo ad hoc per queste figure professionaliche (art. 1). La mediazione familiare (art. 24, “Dall’attuazione della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”), è a carico di chi si separa.

– l’eliminazione, tranne poche eccezioni (ove strettamente necessario e solo in via residuale, art.11), dell’assegno di mantenimento a favore del genitore meno capace economicamente. Non importa se per svolgere i compiti di cura al lavoro si è dovuto rinunciare, non importa se il tasso occupazionale femminile è ancora troppo basso per una serie di motivi che conosciamo fin troppo bene. Non importa se spesso le donne hanno una retribuzione più bassa, una situazione lavorativa più precaria, con evidenti ricadute pratiche, per buona pace del principio di proporzionalità sulla base del reddito.

– chi non ha la possibilità di ospitare il figlio in spazi adeguati non ha il diritto di tenerlo con sé secondo tempi “paritetici”. Nell’art. 11 possiamo leggere nel dettaglio al punto 5:

Salvo diverso accordo tra le parti, deve in ogni caso essere garantita alla prole la permanenza di non meno di dodici giorni al mese, compresi i pernottamenti, presso il padre e presso la madre, salvo comprovato e motivato pericolo di pregiudizio per la salute psico-fisica del figlio minore in caso di:

1) violenza;

2) abuso sessuale;

3) trascuratezza;

4) indisponibilità di un genitore;

5) inadeguatezza evidente degli spazi predisposti per la vita del minore.

– sulla casa coniugale: se essa viene, in via del tutto eccezionale, assegnata a uno dei due genitori, costui deve versare all’altro un’indennità di occupazione, quota soggetta a tassazione.

– all’art. 18 troviamo la volontà di introdurre un nuovo articolo nel codice civile, il 342-quater:

“di cui all’articolo 342-bis il giudice ordina al genitore che ha tenuto la condotta pregiudizievole per il minore la cessazione della stessa condotta; può inoltre disporre con provvedimento d’urgenza la limitazione o sospensione della sua responsabilità genitoriale. Il giudice può applicare in tali casi anche di ufficio e inaudita altera parte uno dei provvedimenti previsti dall’articolo 709-ter del codice di procedura civile. Il giudice, nei casi di cui all’articolo 342-bis, può in ogni caso disporre l’inversione della residenza abituale del figlio minore presso l’altro genitore oppure limitare i tempi di permanenza del minore presso il genitore inadempiente, ovvero disporre il collocamento provvisorio del minore presso apposita struttura specializzata, previa redazione da parte dei servizi sociali o degli operatori della struttura di uno specifico programma per il pieno recupero della bigenitorialità del minore, nonché dell’indicazione del responsabile dell’attuazione di tale programma.”

In pratica entrano in gioco soggetti terzi, case famiglia, il sempre più consueto girone che conosciamo.

 

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