Nuvolette di pensieri

Mormora l'acqua del ruscello

Cosa ci fa bene? Partire da noi.

Fonte: Cadmi https://www.facebook.com/cadmi.org/posts/5049600418422191

Mi sento obbligata a ragionarci ancora una volta, dopo innumerevoli altre volte. Credo che qualcosa sia sfuggita, che ci siamo proprio persi qualche passaggio. Su noi donne e sulle politiche che ci fanno davvero bene.

Può sembrare semplice varare politiche in grado di andare incontro alle esigenze delle donne, ma le donne non sono un soggetto unitario, monolitico, siamo ognuna diversa, con storie e situazioni diverse, sotto molteplici aspetti. E non va nemmeno bene quando l’approccio si fa neutro, con la scusa di dare piena applicazione all’art. 3 della Costituzione.

Sulla mia scrivania è ormai presenza fissa il testo Invisibili di Caroline Criado Perez. Può servire come interessante punto di partenza e di riflessione. Ci sono degli aspetti che possono aiutare a focalizzare bene alcuni temi, superando stereotipi, anche quelli più recenti, che partono tutti da un medesimo errore: considerarci sulla base di aspettative, sottovalutare la realtà, non ascoltarci per davvero e dare per scontato che alcune soluzioni andranno bene e sarà così per tutte.

Tema congedi parentali. Appare ovvio che i tempi e le modalità attuali andrebbero riviste, soprattutto che le politiche per le donne dovrebbero finalmente mettere al centro il punto di vista delle donne.

Parto dagli USA, ma è utile per capire il nocciolo. Negli anni ’90 e inizi dei 2000, alcune università sperimentarono una politica family friendly: ai docenti con figli sarebbe stato concesso un anno in più per completare il percorso di immissione in ruolo. “Ma non erano i docenti in generale ad aver bisogno di quella concessione, bensì le docenti madri. “Mettere al mondo dei figli non è un evento senza distinzioni di genere” ha osservato con una certa ironia Alison Davis-Blake, preside di una facoltà economica del Michigan. Mentre le donne trascorrono quell’anno in più vomitando, andando in bagno ogni 5 minuti, cambiando pannolini o riempendo biberon, gli uomini si dedicano alla ricerca. E così, invece di dare un aiuto ai genitori, questa politica finiva per dare un aiuto ai genitori, questa politica finiva per dare un aiuto agli uomini a spese delle donne: da un’analisi delle cattedre di grado intermedio presso i 50 dipartimenti di Economia più prestigiosi degli USA è risultato che tra il 1985 e il 2004 le probabilità che un’insegnante donna ottenesse un posto di ruolo al primo incarico erano scese del 22%, a fronte di un incremento del 19% per gli uomini.”

Pur prendendo con le pinze lo studio citato a pagina 115, dobbiamo ricordarci le difficoltà reali che affrontano le donne e la ineguale distribuzione dei compiti di cura: non appare così irragionevole credere a quanto rilevato e “pretendere politiche di aiuto specificamente mirate a chi porta i figli in grembo e se ne occupa di più una volta che sono nati. (…) Con tutto ciò, sia chiaro, non si intende negare l’importanza del congedo per paternità, (…) che se ben retribuito ha ripercussioni positive sull’occupazione femminile.” In Svezia, dove i padri usufruiscono di un congedo tra i 3  e 4 mesi in media, la misura è decollata solo dopo che è diventata obbligatoria. In Svezia ricordiamo c’è il tasso di occupazione femminile più alto dell’UE. Quindi le misure funzionano se sono imposte e se la cultura cambia, se in azienda non vieni penalizzato se prendi il congedo. “Gli uomini che approfittano del congedo tendono ad essere più coinvolti nella cura dei figli anche negli anni successivi”, con ricadute positive anche per il lavoro delle madri. “Va da sé che le politiche di congedo parentale non sono una panacea: il carico di lavoro non retribuito che grava sulle donne non comincia e non finisce con l’accudimento dei nuovi nati, e in genere l’organizzazione del lavoro dipendente continua a essere tagliata su misura per la vita di quel leggendario personaggio “libero da responsabilità di cura”. Lui – perché si dà per scontato che sia un lui – non ha figli o parenti anziani da accudire, né pasti da preparare o pavimenti da pulire (si veda questo articolo apparso su Alley Oop, sulle faccende domestiche), né medici da consultare, né spese da fare, né ginocchia sbucciate da disinfettare (…) la sua vita è semplicemente e facilmente divisa in due parti: lavoro e tempo libero. Ma un rapporto di lavoro fondato sul presupposto che un individuo possa presentarsi tutti i giorni in un certo luogo, a orari e indirizzi che non hanno alcuna correlazione con gli orari e gli indirizzi delle scuole, degli asili, degli studi dei medici e del supermercato, non potrà mai funzionare per le donne. Infatti non è stato progettato per questo.” Ci sono aziende che cercano di compensare, integrare, andare incontro… ma quante lo fanno? Si tratta di eccezioni.

“La verità è che in tutto il pianeta le donne continuano a essere penalizzate da una cultura del lavoro basata sil presupposto ideologico che i bisogni maschili siano universali.” Per non parlare del fatto che nonostante la pandemia, molte aziende sono convinte che lavorare in presenza sia più produttivo che da remoto o siano propense a premiare chi sta in ufficio oltre l’orario, anche se sta semplicemente scaldando la sedia.

Per cui quando sento parlare di misure universali e neutre mi fermo a riflettere. Spesso si tratta di una parità effimera, di facciata, che appunto non tiene conto di tanti aspetti e fattori. Oltretutto certe misure hanno costi notevoli, con risultati variabili, incerti. Perché dipende da come quel tempo di congedo paritetico viene impiegato e non è detto che corrisponda a una condivisione reale dei compiti di cura, ammesso che ciò sia possibile o auspicabile nei primi mesi. Le misure che intervengono nelle esistenze delle donne e tagliano tutto con l’accetta, non sempre hanno risultati ottimali. Avete sicuramente sentito parlare di 9 mesi di esogestazione. Sarete consapevoli dei tempi di recupero di cui hanno bisogno le madri e di quelli per prendere confidenza con le esigenze di un figlio (e viceversa). Ecco esattamente questo. In ogni caso, non è con queste politiche che si risolveranno i problemi di natalità o di lavoro delle donne. Se siamo sincere, lo dobbiamo dire. È questione di prospettive sul medio lungo periodo, di cultura aziendale, di rispetto delle scelte e dei tempi, di riorganizzazione aziendale, di formazione continua,, di riassetti, di servizi (non è più nemmeno sicuro riuscire ad avere un pediatra di libera scelta, a volte lo trovi a km; i nidi non sono la soluzione, perché fanno parte della bella favola del “basta organizzarsi bella”). Ne parla anche Alley Oop del Sole24ore: “Non bastano, quindi, gli asili nido per liberare le donne dalle maglie della conciliazione lavoro famiglia. È necessario un vero e proprio cambiamento culturale, che deve partire dentro le mura di casa.” E dalle aziende. Perché le politiche a compartimenti stagni non funzionano!

Non c’è reale protezione della maternità, perché i figli li facciamo ancora noi, ma nei fatti non abbiamo garanzie. Per capire di cosa parlo, basterebbe parlare con le migliaia di donne che da anni si dimettono “volontariamente” in silenzio nei primi 3 anni di vita del figlio. Ho volutamente scelto la foto iniziale perché ci si concentri sui fatti, sulla realtà. Ecco, iniziamo a sistemare anche il contorno, la società e il mondo del lavoro e non scarichiamo ancora una volta la faccenda sulla dimensione privata, con una pseudo parità e misure onerose a carico guarda caso delle lavoratrici dipendenti, le uniche con busta paga che pagano le tasse fino all’ultimo centesimo. Le politiche necessitano di un approccio a 360°, calate nella realtà sociale e produttiva italiana, nella mentalità italiana di datori di lavoro che ti fanno ancora compilare lo stato di famiglia per un semplice colloquio. Quindi diciamo una cosetta. Non è cancellando le differenze e le peculiarità delle donne che risolviamo le distorsioni attuali, anzi, negandole, si fa il gioco del patriarcato e di un modello di società ed economico maschiocentrico e adultocentrico, dove anche i bambini devono inseguire i tempi e le abitudini impossibili degli adulti e di un sistema rapace e sfruttatore. Le femministe hanno svelato queste cose decenni fa, direi che non è il caso ripartire da zero. L’ultima parola è alle donne, sempre e il sistema deve liberarci da giochi o escamotage patriarcali. La parità è una bella cosa, ma va maneggiata con cura e soprattutto entrando nel merito dei singoli ambiti e comprendendo le ricadute specifiche.

Il punto è quanto nella realtà economica, sociale e culturale non permette ‘di fatto’ che le donne vivano come se fossero pari. Si tratta di condizioni di partenza, concrete, contingenti, strutturali, che hanno guidato sin qui le riforme e le soluzioni date, che come si è visto hanno solo prodotto ulteriori forme di oppressione e sensi di colpa. Non siamo pari in quanto immagine allo specchio, copia carbone perfetta del maschile, siamo un soggetto inaspettato della storia e vogliamo vivere come soggetto autonomo e peculiare, non come replicanti. Insomma, cancellare e appiattire significa dare un colpo di spugna su decenni di riflessione femminista. L’art. 3 della Costituzione si attua se si rimuovono le condizioni imposte dal patriarcato per concedere spazi alle donne, salvo poi rispedirle a casa quando non più utile e sottomessa al sistema di sfruttamento, costruito al maschile. Noi dobbiamo essere parte della vita di questo Paese ma in condizioni diametralmente diverse da quelle attuali. Non è con i congedi che si risolvono tutti gli altri elefanti nella stanza. La parità ha senso se non ci sono condizioni strutturali, economiche, sociali e culturali che tendono a imporci di essere subordinate, perché certi modelli maschili non vanno bene e non sono giusti. Ripeto, il saggio Invisibili spiega bene tanti aspetti schiacciati e livellati da politiche che non ci rappresentano, non ci vedono, non ci ascoltano e vanno avanti con stereotipi e visione maschile, anche quando potrebbero sembrare friendly per le donne. Il ‘di fatto’ non è stato realizzato perché il potere maschile, altamente influente in ogni ambito, ha fatto leggi e prassi in modo da non modificare l’assetto di una società maschilista e forgiata su modelli maschili. Ci pagano meno, perché si sa che creiamo maggiori ‘problemi’ agli imprenditori poverini, finiamo con l’essere segregate in comparti precari e “adatti”, con contratti ‘prendere o lasciare’ e spesso part-time, ammesso che troviamo lavoro.

La parità di genere è un obiettivo irrinunciabile, titolava un pezzo di Paola Profeta sul Corriere del 7 settembre.

“Il dato più critico che caratterizza l’Italia è il basso tasso di occupazione femminile.

Da almeno un decennio esso è rimasto stabile su valori inferiori al 50%, precipitando al 33% nel Sud del Paese. Con questo valore, l’Italia si colloca agli ultimi posti in Europa, seguita solo da Grecia e Malta. Da anni si parla di emergenza del lavoro femminile: le donne rappresentano la metà della popolazione in Italia e almeno la metà di esse non è occupata.

La situazione è peggiorata con l’esplosione della pandemia: nel 2020 il tasso di occupazione femminile è stato pari al 48,6% (Istat, popolazione 15-64 anni), registrando per la prima volta un passo indietro rispetto agli anni precedenti. Il dato è leggermente risalito, ma resta oggi fermo al 49,4%. Le donne guadagnano mediamente meno degli uomini. Le differenze salariali di genere dipendono da molteplici fattori: il settore occupazionale, il numero di ore lavorate, la posizione occupazionale. Poiché le donne lavorano in settori meno remunerativi, meno ore e raramente in posizioni apicali, il salario medio femminile è inferiore a quello maschile. Secondo l’Eurostat, confrontando il salario lordo orario medio maschile e femminile, le donne europee guadagnano circa il 16% in meno degli uomini. In Italia la differenza è minore, sotto il 10%. Tuttavia, questo dato è meno confortante di quanto possa sembrare. Infatti, quando il tasso di occupazione è basso, come in Italia, la selezione nel mercato del lavoro è maggiore, con la conseguenza che solo le donne più istruite e con redditi più elevati lavorano.

Di conseguenza, il salario medio femminile si avvicina a quello maschile. Gli studiosi, per considerare correttamente questo dato, operano una correzione statistica per l’effetto selezione, a seguito della quale il dato italiano si riallinea con quello della media europea. I divari salariali sono evidenti già all’inizio della carriera, per esempio tra i neolaureati, e aumentano nelle posizioni più alte, quando le carriere delle donne stentano a decollare.

Nelle posizioni manageriali le differenze di genere nel reddito sono più elevate, pari a circa il 23%. Anche tenendo in considerazione tutti questi aspetti, resta una parte della differenza salariale che non è spiegabile da fattori osservabili. È parte della discriminazione statistica o discriminazione implicita, in base alla quale le donne ricevono meno possibilità di guadagni e di carriera degli uomini, perché da esse ci si aspetta minore produttività, minore interesse, meno tempo per il lavoro.

Le criticità del lavoro femminile includono anche la qualità del lavoro. Il 32,4% delle donne italiane occupate tra i quindici e i sessantaquattro anni lavora part time contro solo l’8% degli uomini.

L’Istat stima che il 60% del part time sia involontario. Le donne che lavorano a tempo determinato sono il 17,3% del totale delle lavoratrici.

Questi aspetti sono esplosi durante la pandemia. Nel 2020, si sono persi 444.000 posti di lavoro, di cui 312.000 di donne. Nel solo dicembre del 2020, si sono persi 101.000 posti di lavoro, di cui 99.000 posti di donne, molti a tempo determinato, che non hanno retto alla situazione di crisi.”

(…) La pandemia Covid-19 ha esacerbato gli squilibri preesistenti tra uomini e donne, ponendo a rischio i progressi fatti e il raggiungimento dell’obiettivo della parità di genere. Si è parlato di She-cession per indicare la recessione al femminile collegata alla pandemia. A differenza delle crisi precedenti, come quella finanziaria del 2007, che hanno colpito settori dominati dal lavoro maschile (industria, finanza, manifattura), la pandemia ha colpito settori come i servizi dove molte donne sono occupate.”

L’assetto non è immodificabile, il femminismo, non il donnismo o il pinkwashing, demolirà questa aria malsana che ammorba tutto. L’importante è non adoperare gli stessi mezzi del patriarcato. Non smettere di provarci e non permettere che quei pochi diritti che abbiamo conquistato vengano erosi, sgretolati. Dobbiamo capovolgere il tavolo, lo sguardo e le soluzioni. Portare la differenza in ogni dove.

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