Nuvolette di pensieri

Mormora l'acqua del ruscello

Le nostre scelte riproduttive ci appartengono

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Ci risiamo. Ieri quando ho letto questo pezzo di Enrica di Narrazioni Differenti mi è venuto un déjàvu. Speravo che l’idea che la Ministra Lorenzin coltiva dal 2014 si fosse arenata. Invece no.

Fertility day: la bellezza della maternità e paternità. Affrettatevi, siamo deperibili, prodotti soggetti a scadenza. È sotto i nostri occhi il magnifico Piano nazionale di fertilità del Ministero della Salute. Viene in mente l’immagine di una popolazione assimilata a un campo da preparare per la semina intensiva. Come i piani di bonifica del Duce. Peccato che siamo esseri umani e non acri di terra.
Scarsa natalità? Calo demografico? Una soluzione degna del Ventennio in versione 2.0, quando si incentivavano le nascite e si chiamavano i figli Benito. Una “rieducazione” non richiesta alla maternità, un grande piano nazionale di fertilità con tanto di fertility day il 22 settembre 2016. Cosa facciamo, mettiamo le donne in batteria, come le galline?
Se poi affrontiamo la questione della maternità in età sempre più elevata, la Ministra dovrebbe anche ricordarsi che si diventa mamme più tardi perché studiamo più a lungo, perché il lavoro è precario, scarso, mal retribuito e la stabilizzazione stenta ad arrivare, se arriva. Quindi, se da un lato la fertilità è maggiore da giovani, non è detto che vi siano anche adeguate condizioni di vita.
Siamo un paese in cui i servizi di sostegno scarseggiano e le politiche di conciliazione e di condivisione sono chimere. Insomma, anacronismo e una distanza abissale dalla realtà.
Tra cartoline e fertility game, per lo Stato italiano siamo ancora patrimonio dello Stato, destinate a sfornare figli per la patria. Peccato che non ci si renda conto del contesto, del perché non facciamo figli o della possibilità di scegliere o meno di diventare genitori. Non è mica un destino obbligato.
La nostra fertilità ci appartiene in toto e non è assolutamente un bene comune, per cui nessuno può sostituirsi a noi nelle nostre scelte di riproduzione. Tanto meno lo Stato. Ricordiamo che la Legge 194/78 riconosce alla donna la possibilità di interrompere volontariamente la sua gravidanza.
Essere genitori in Italia non è proprio una passeggiata semplice.
Spesso basta un dettaglio e ti ritrovi con stipendio e carriera bloccate, se non fuori dal mercato del lavoro. Diventare madre è uno di questi motivi. Non ci siamo ancora liberate dal gender gap.
L’Italia può vantare il primato del “costo più basso dei licenziamenti a livello mondiale”.
L’inchiesta de L’Espresso del 2015 parla chiaro: “negli ultimi cinque anni in Italia i casi di mobbing da maternità sono aumentati del 30 per cento. Secondo le ultime stime dell’Osservatorio Nazionale Mobbing solo negli ultimi due anni sono state licenziate o costrette a dimettersi 800mila donne. Almeno 350mila sono quelle discriminate per via della maternità o per aver avanzato richieste per conciliare il lavoro con la vita familiare”.
Ripristinare la normativa contro la pratica delle dimissioni in bianco è stato solo il primo passo, occorre ostacolare le modalità che vengono messe in campo per “invitare” le donne a dimettersi “volontariamente”.
Perché potersi dedicare anche alla propria vita privata non sia un lusso, una strada impraticabile se non a costo della rinuncia al lavoro (ovviamente questo vale per uomini e donne). Un giusto equilibrio non deve essere lo stigma, ma un cambiamento culturale necessario, che produce benefici sul dipendente e ricadute positive sul lavoro. Perché occuparsi di un figlio o di un familiare non può essere considerato una fonte di peso aziendale. Deve cambiare l’organizzazione aziendale oppure perderemo terreno e risorse umane. Quindi lasciateci scegliere e progettare i nostri tempi di vita-lavoro. Sono state presentate anche proposte di legge a riguardo, per fornire sostegni in questi casi.
Quando parliamo di sostegni non parliamo di bonus o di assegni una tantum subordinati a Isee irrealistici. Parliamo di un sistema strutturato, che incentivi a lavorare e dia sostegni concreti, anche di deduzione fiscale significativa. Parliamo di congedi di paternità retribuiti e con durate pari o simili a quelle previste per le donne, per incentivare la condivisione. Parliamo di servizi a prezzi calmierati. Parliamo di permettere a tutti di scegliere soluzioni part-time. Soluzioni che incentivino l’emersione dal nero delle donne che lavorano, rendendolo conveniente, restituendo in questo modo alle lavoratrici i loro diritti.
Non parliamo solo di nidi, perché sappiamo che non sono una soluzione sufficiente (certamente i costi attuali sono troppo elevati e gli orari sono spesso incompatibili con orari di lavoro full-time). Parliamo di flessibilità e incentivi per i genitori, non solo per le mamme.
L’uso dei bonus una tantum, che aiutano a tamponare, ma non rappresentano una soluzione reale dei problemi per cui si sceglie di non fare figli. Serve un approccio redistributivo della ricchezza, che permetta di vivere in condizioni dignitose. Il bonus per le mamme è antitetico a una politica strutturata di fuoriuscita dal bisogno. Si tratta di soluzioni che generano discriminazioni e una volta terminate lasciano il vuoto.
Ci piacerebbe che si parlasse maggiormente di servizi di conciliazione, magari a prezzi calmierati, come per esempio incentivare la creazione di una rete di sostegno di mutuoaiuto tra cittadini (volontaria e gratuita) per rendere più agevoli tanti piccoli aspetti della vita dei genitori. È questione di prospettive favorevoli non solo di breve/brevissimo periodo. Un figlio ha dei “costi” crescenti, di varia natura.
Dobbiamo spiegare e insegnare alle persone che mettere al mondo figli è una responsabilità personale, implica una capacità di comprensione di cosa significa crescere dei figli, crescere che non significa nutrire solo con un piatto di pasta, ma nutrirli culturalmente, trasmettergli un sistema di valori, seguirli, sostenerli, educarli, dargli opportunità per un futuro dignitoso, per essere dei cittadini attivi e non passivi.
Chiediamo alla Ministra Lorenzin come si possono mettere al mondo e crescere i figli se si è senza lavoro, si è precari e la rete dei servizi è spesso carente?
“Negli ultimi 2 anni sono aumentati del 30% i casi di donne licenziate o costrette a dimettersi; almeno 350 mila sono state discriminate per via della maternità”: che fare?
Essere genitori è un compito di responsabilità, ed è il motivo per cui in molti decidono di non potersi permettere questo impegno, perché tante condizioni non lo permettono. Quindi anziché stigmatizzare chi sceglie consapevolmente di non fare figli perché si rende conto del contesto ostile, dovremmo occuparci di diffondere questa consapevolezza e aiutare in modo strutturale le persone. Non basta l’obolo una tantum o il pacco di beni alimentari, che sono ottime soluzioni tampone (senza le quali la situazione sarebbe ancor più drammatica) ma che non risolvono una questione così enorme, difficile, che ha una matrice anche culturale e di mancanza di opportunità reali. Non siamo in grado o non vogliamo guardare alle radici dei problemi. Offriamo piuttosto un sistema efficiente di collocamento o ricollocamento lavorativo con annessa formazione, condizioni di conciliazione reali e alla portata di tutt*, supporti educativi e di sostegno per far maturare una consapevolezza alla genitorialità. Vogliamo sostenere una genitorialità in modo finalmente organico e non emergenziale, come se poi dovesse arrivare una mano divina a risolvere tutto? Certo che se non applicheremo delle misure radicali che vadano a monte delle difficoltà, la natalità continuerà a crollare e chi farà figli sarà alla mercé della buona o cattiva sorte. Esattamente come nell’800. Vogliamo davvero tornare indietro?

Dobbiamo crescere cittadini/e attivi/e e genitori che capiscano pienamente che cosa significa l’impegno di un figlio. Dobbiamo spiegare che dei figli che continuano gli studi saranno dei cittadini migliori, dobbiamo spiegare che la vita di una donna non coincide solo col mettere al mondo figli. C’è altro e ci deve essere altro nella vita delle ragazze e delle donne.
Auspichiamo un futuro diverso, in cui tutti siano resi autosufficienti e consapevoli. Questo è il compito di uno Stato efficiente e lungimirante, questo è il compito di chi si ritiene progressista. Così come dovrebbe essere prioritario osare e spingere verso un reddito di base (articolabile con varie modalità) con programmi di (re)inserimento nel tessuto produttivo e sociale.
Sul tema della conciliazione, vedremo che risultati porterà il Ddl per il lavoro agile o smart working “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”. Il lavoro agile deve essere flessibile e produttivo, fondato su un patto tra datore di lavoro e dipendente proprio per raggiungere questi obiettivi. Flessibilità che fa rima con possibilità di conciliare vita privata e lavoro. Flessibilità del luogo di lavoro che deve tradursi in un aumento della produttività. Agile non significa che non siano previsti periodi in cui lavorare in azienda, per non perdere gli aspetti positivi del lavoro di squadra e dell’affiatamento derivante dall’appartenenza al medesimo progetto aziendale.
Si tratta di un segnale importante di come sia maturato un diverso approccio alle modalità del lavoro e di quanto poco c’entri la produttività con le ore di permanenza nel luogo di lavoro e alla scrivania. Certo lo smart working non è adatto a tutti i tipi di lavoro, non piace a tutti, ma può essere preferito in alcuni periodi della propria vita perché consente di mantenere insieme vari “pezzi” degli impegni quotidiani.
Ripristiniamo il Fondo nazionale per le Consigliere di Parità, figure che intervengono nelle discriminazioni collettive e individuali nel mondo del lavoro e promuovono concrete politiche di pari opportunità di genere.
Meno bonus una tantum e più politiche strutturali e diffuse. Per capirci, facciamo girare ricchezza e risorse, niente pacchetti di aiuto a pioggia, ma frutto di una verifica sul campo e di una strategia di lungo corso. Si chiama politica della redistribuzione, e qualcuno dovrà sacrificarsi o iniziare a pagare equamente, in base alle proprie possibilità. Le risorse di trovano attraverso una seria lotta all’evasione.
Quali potrebbero essere le soluzioni alternative per una efficace azione informativa ed educativa?
Vi ricordate i consultori? Ebbene, se funzionassero ancora, con le caratteristiche originarie (luoghi nati dal lavoro delle donne, come spazi per le donne, per una sessualità vissuta liberamente, senza le coercizioni di stampo patriarcale) e fossero attivi e presenti con sufficienti e adeguate risorse sui territori (ricordiamo che la copertura prevista non è stata mai raggiunta), forse non avremmo bisogno di una campagna ministeriale ad hoc e di un ennesimo giorno dedicato a un tema che dovrebbe essere parte della cultura di base di ciascun individuo.
E non è certo accettabile che questa campagna, così strutturata, con questo approccio, possa essere diffusa dai consultori o dalle scuole.
Preoccuparsene in questo modo non so che senso possa avere, se a monte, nei restanti 364 giorni non si fa educazione a una sessualità consapevole e responsabile, nelle scuole e nei centri frequentati dai ragazzi, anche e soprattutto in pre-adolescenza. Incoraggiare le persone a prendersi cura della propria salute, fare prevenzione, diagnosi precoci di eventuali patologie è una cosa sana (se non è finalizzato a un disegno riproduttivo “obbligato”), ma allora perché non investire seriamente nei consultori e nei servizi preposti? Certe informazioni devono essere fornite in modo capillare e permanente, è un lavoro di cui devono occuparsi i consultori laici, perché la laicità deve essere nel dna di uno Stato che vuole trasmettere i giusti messaggi ai propri cittadini. Non lasciate che il lavoro e le caratteristiche originali dei consultori vadano lentamente disperdendosi e che al loro posto restino solo delle campagne una tantum, con approcci di questo tipo. La cura e la conoscenza di sé, del proprio corpo, dei propri desideri non la si fa con un fertility day, ma si diffonde consapevolezza, si diffonde un messaggio che sappia accogliere ogni scelta e non sia ansiogeno come quello di una clessidra, che per chi ha costruito la campagna può anche sembrare innocuo, ma non lo è. Non si può entrare a gamba tesa, a freddo, nelle esistenze delle persone, il lavoro da fare è più ampio e strutturato. Soprattutto lasciando sempre libertà di scelta, se diventare o meno genitori. Facciamo entrare dei messaggi di questo tipo nelle scuole, perché ci sia consapevolezza, ma non si veicolino ruoli e destini predeterminati. La resistenza a una educazione sessuale e affettiva con un approccio laico, tra i NoChoice e la fantomatica teoria gender, produce disastri. Se questa è la modalità con cui si intende fare propaganda, non ci stiamo.

Provvediamo a varare una nuova legge sulla fecondazione assistita che aiuti chi vuole diventare genitore (che sia veramente accessibile anche in termini di costi), che sani gli errori, i danni e la voragine lasciata dalla Legge 40, svuotata dagli oltre trenta pronunciamenti della Corte.
Insomma, recuperiamo ciò che c’è e investiamo in modo lungimirante. Non è parlando di “prestigio della maternità” o di “prepare una culla nel tuo futuro” che si esce dalla denatalità.
Non puntiamo il dito sulle donne, sui loro uteri e sugli ovuli che non si trasformano in prole per la patria. Puntiamo a comprendere tutti i fattori che oggi influiscono sulle scelte, tutte, non solo quella di fare o meno un figlio.
Non ci preoccupa che si facciano meno figli, ma che le prospettive per tutti siano sempre più difficili, incerte e che non vi siano proposte politiche che vadano a migliorarle. La questione non è “fare più figli”, ma che futuro dargli, nel caso decidessimo di diventare genitori.
Come abbiamo visto la questione va ben oltre il mero approccio o dato biologico. Richiede il coinvolgimento di più Ministeri e di ragionare in più ambiti. E la sessualità non è unicamente destinata alla riproduzione della specie. Pensavamo che almeno questo fosse chiaro e assodato. Non tutto ciò che è biologicamente predisposto deve essere per forza realizzato o considerato fondamentale per definire un individuo “completo”. Seguendo le indicazioni del Ministero, visto che siamo biologicamente portati a riprodurci, a questo punto dovremmo anche massimizzare i risultati, accoppiandoci più volte, con più persone il 22 settembre. Buon settembre a tutt*!

 

Per approfondire

http://www.mammeonline.net/content/conciliazione-famiglia-lavoro-buone-pratiche-welfare-aziendale-le-indicazioni-ue

https://simonasforza.wordpress.com/2015/01/08/no-quiero-hijos/

https://simonasforza.wordpress.com/2016/03/07/donne-lavoro-e-discriminazioni/

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Modelli e tartarughe

Riporto le parole di Lidia Menapace, che a mio avviso rivelano un punto centrale. 

“E infine, basta con le polemiche che colpevolizzano le madri che vestono le bambine in modo “seduttivo”. In realtà è il mercato che impone gli stili della moda e i modelli di comportamento, usurpando una funzione della società. Ma il mercato è cieco, letteralmente: non vede gli effetti dei codici che prescrive alla società. E’ alla società, alle persone, che va restituito il potere di dettare le norme dell’agire, di distinguere quelle che comportano offesa o cancellazione o calpestamento dei diritti altrui, di manifestare, in ultima analisi, l’autonomia del costume. Qui c’è un invalicabile stop e chi non lo vede è a rischio di disumanizzarsi, insomma è la barbarie.”

Personalmente aggiungerei il ruolo dei media che veicolano e amplificano questi messaggi e indirizzi di mercato. Il tanto decantato Occidente, che si definisce laico e libero, faro di civiltà, in realtà non riesce a produrre una cultura nuova che permetta alle donne una reale autonomia ed emancipazione. Oltre al ruolo delle religioni, dovremmo preoccuparci anche delle pressioni delle ragioni economiche e finanziarie che impattano fortemente nelle nostre vite. Siamo impaludati in una dittatura del mercato che invade le nostre esistenze, definendo cultura e valori, priorità politiche, sottraendoci, strappandoci di fatto la capacità di scegliere chi vogliamo essere e cosa fare. Tutto è subordinato a un discorso di moda, di tendenze instillate dal mercato, alla ricerca di nuove leve per aprire nuove nicchie e intercettare consumatori. Anche il femminismo diventa pop, fashion, adoperato anche a sproposito per veicolare ogni tipo di roba, di linea, di merci materiali e non. La donna ossessionata dalla tartaruga, descritta in questo articolo fa parte di una china pericolosa mai abbandonata dal giornalismo nostrano. 

Non è né femminismo, né neofemminismo. Non rientra assolutamente all’interno della lotta femminista, anzi è il suo opposto, una mistificazione. L’autodeterminazione è lasciare le donne libere, finalmente indipendenti da canoni estetici etero-dettati. Auspichiamo che i media la finiscano con l’abuso fuori luogo del femminismo, nuova clava o veicolo glam. Auspichiamo che essi sappiano svolgere un ruolo di progresso culturale, che non rappresenti le donne come meri corpi, rispettosi di canoni dettati dal mercato. Auspichiamo che si insegni alle donne a scegliere autonomamente la propria forma umana, mens et corpore. Perché non siamo manichini scolpiti, involucri vuoti. Impariamo a veicolare messaggi diversi. 

Che poi il primo pensiero di una neo mamma possa essere quello di una pancia piatta è l’ennesimo segnale di come si faccia pressione sui nostri corpi e sulle nostre priorità. Dovremmo svincolarci dall’idea di come gli altri ci vogliono. Ancora una volta attraverso i giornali si fa il gioco della cultura patriarcale. Rivendichiamo la nostra felicità che significa saper guardare oltre i corpi e gli ideali di perfezione dettati da ragioni economiche o culturali patriarcali. La nostra bellezza grazie al femminismo è da tempo svincolata dalla minestra patriarcale, anche se ci troviamo ancora immerse in essa e ne paghiamo le conseguenze. Non siamo prodotti in vendita, oggetti da piazzare sul mercato. Siamo individui da rispettare e da rappresentare adeguatamente. Se proprio volete parlare di femminismo fatelo con cognizione di causa, documentatevi. Sono tanti i modi di strumentalizzare le donne, ricordiamoci sempre che i corpi delle donne sono un campo di battaglia. Manteniamoci vigili e attente. Non vogliamo essere usate a fini politici o per sponsorizzare modelli definiti per ragioni di mercato. Siamo  individui portatori di diritti, da rispettare sempre. Non ricordatevi delle donne solo quando facciamo comodo. Il miglioramento della condizione della donna deve essere una priorità sempre. 

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Altro che satira, questa è una ossessione

Non facciamo in tempo ad archiviarne uno, che subito se ne ripresenta un altro. Per quella insana e non richiesta dose di sessismo quotidiano. Altro che satira, questa è una ossessione. I corpi delle donne bersagli di una mentalità gretta e che considera le donne oggetti, involucri, da dileggiare come si vuole. La questione del rispetto sui media è da affrontare in modo serio. Un morbo pernicioso, dalle conseguenze enormi. Questa è la cultura, ripeto, che alimenta la violenza, che porta a considerare le donne come cittadine di serie B, come se in ogni ambito fossimo un gradino sotto. Considerate corpi da (vivi)sezionare, da coprire o da scoprire a seconda dell’input machista. Questo continuo sminuire le nostre competenze, in ogni ambito, è un tentativo di cancellarci, di silenziarci, di spostare l’attenzione su altro, di annientare il nostro contributo. Non c’è niente di più violento di questo scrutare voyeuristico e denigratorio. Siamo libere, siamo competenti, siamo esseri umani, esigiamo rispetto! Ciascuno, nella battaglia per contrastare tutto questo, si deve assumere le sue responsabilità. Iniziando dai media, che non possono continuare a ritenersi esenti da questo morbo. Siamo solidali con la Ministra Boschi, così come ad ogni donna che viene dileggiata e offesa. Siamo indignate che non si parli mai di contenuti e di ciò che riusciamo a realizzare concretamente. La critica è lecita, ma si fa sui contenuti, se vogliamo confrontarci civilmente e rispettosamente. Siamo allibite che parte di questo Paese e parte del suo giornalismo, vignette comprese, siano ancora fermi a guardare dal buco della serratura e limitarsi a un livello da chiacchiericcio squallido. Ancora una volta si pensa ad aumentare le vendite sui corpi delle donne, a pezzi e sottorappresentate. Ricordiamo a tutti che siamo nel 2016 e questo avanspettacolo va archiviato per rispetto dei diritti umani, perché nel caso non lo sappiate, anche noi donne lo siamo.Chi deve intervenire intervenga celermente, perché non tollereremo più neanche un briciolo di questa violenza.
Il post originale sul gruppo Chi colpisce una donna, colpisce tutte noi 

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In Edicola e sul web scegliamo i quotidiani che scrivono con rispetto. Gli altri, lasciamoli tra l’invenduto.

Accogliamo positivamente le scuse e la decisione del Dott. Andrea Riffeser Monti editore de Il Resto del Carlino per aver rimosso dal suo incarico il direttore Giuseppe Tassi per quanto accaduto.

Qualcosa inizia a cambiare. Sessismo e fat shaming non devono trovare spazio se vogliamo combattere la violenza e il bullismo. 

Resta il rammarico per il fatto che la rimozione non sia avvenuta prima per tutti i femminicidi raccontati colpevolizzando la vittima, come avevamo già evidenziato in questo post. A conferma del fatto che se le donne continuano a morire è per molti un problema di minore entità. Si sa che se veniamo uccise o picchiate la colpa è sempre nostra.

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Il gruppo  “Chi colpisce una donna, colpisce tutte noi” esprime solidarietà alle Atlete azzurre, e allo stesso tempo indignazione per il trattamento riservato alle stesse, ancora una volta discriminate e colpite da attacchi sessisti e misogini, da parte di un giornalismo che non riesce a comprendere che le parole sono importanti e devono essere scelte con cura per non veicolare messaggi pericolosi e sbagliati, affinché si lavori a costruire una cultura del rispetto. Si discrimina perché per gli uomini e per degli atleti non si sarebbero adoperati simili parole. Il voler sminuire queste atlete, cancellando i meriti e le ottime prestazioni, frutto di duri sacrifici e allenamenti, denota il livello a cui siamo. 

Dalla cronaca giornalistica resta solo una valutazione sui loro corpi.

Auspichiamo che il Coni intervenga con forza in merito a queste vicende. 

Ricordiamo inoltre che le atlete italiane sono di fatto classificate come dilettanti. Della legge 91 del 1981 sul professionismo sportivo, al momento possono usufruire solo gli atleti uomini di alcune discipline sportive, ma nessuna donna. Le donne sono continuamente soggette a queste rappresentazioni deformate, lo sport naturalmente non ne è esente. Ritorna il vecchio sport del giornalismo italiano: non avere rispetto. Le donne non possono essere rappresentate in questo modo, con pezzi di corpo misurati, esibiti, giudicati. Questo tiro al bersaglio deve finire. 

Il Resto del Carlino e tutte le testate giornalistiche che continuano a usare certi titoli e contenuti stanno sostenendo il bullismo e la violenza. Gli attacchi alle atlete rientrano pienamente nel fat shaming.
Aggiornare e adeguare la scrittura, i media alla cultura del rispetto è il primo passo per sbarazzarci di un immaginario stereotipato e violento. 
Vogliamo condannare sul serio il bullismo, la violenza? Cambiamo stile e parole: un gesto importante. Sui corpi delle donne non si fa business e se l’obiettivo era vendere copie e accendere i riflettori sulle testate, non ci stiamo e chiediamo agli organismi preposti a vigilare sull’informazione di intervenire. Consigliamo di mettere in pratica ciò che Giulia Giornaliste suggeriscono da tempo. Chiediamo un giornalismo differente che non discrimini e fornisca una eguale rappresentazione tra uomini e donne. Iniziamo dal comprendere che certe frasi sono discriminanti e una vera gogna mediatica. Se non si comprende ciò, ci dispiace ma nessuna scusa sarà sufficiente e accettabile. 

Parimenti, quando si parla di femminicidi, stiamo parlando di donne uccise da uomini, queste donne meritano rispetto e non accettiamo che la colpa della loro morte ricada su di loro. 
Ieri un altro caso di pessimo giornalismo, sempre su Il Resto del Carlino. 

Barbara è stata uccisa due volte, da un uomo e dai giornali che nel 2016 parlano di escort, anziché dire DONNA. Una donna è stata uccisa per mano di un uomo. Una donna. Nessuno può uccidere un essere umano ed essere in qualche modo giustificato. Nessun alibi. Nessuna donna vittima di femminicidio se lo è cercato. Nessuna giustificazione per un femminicidio. La vita di una donna vale al pari di quella di un uomo SEMPRE. 

Basta!!

La violenza machista, come il pessimo giornalismo non vanno purtroppo in vacanza.

#senonmirispettinonticompro #liberediscegliere #chicolpisceunadonnacolpiscetuttenoi 

Il gruppo  “Chi colpisce una donna, colpisce tutte noi

Qui il post originale sulla nostra pagina. 

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#nessunalibi #nessunascusa #nessunatolleranza

“Laura Boldrini va eliminata fisicamente”. Questo è l’ultimo attacco in ordine di tempo rivolto alla presidente della Camera su Facebook da parte della capogruppo leghista in consiglio comunale a Musile di Piave (Venezia) Monica Bars. È già arrivata una interrogazione parlamentare al Ministro Alfano in merito. Ma questo tipo di comportamenti richiamano tutti e tutte noi cittadini/e sul fatto che la misura è colma. Chiedere a ciascuno di assumersi le proprie responsabilità contro la violenza trova attorno questo humus terribile. Su questo dobbiamo lavorare per invertire la rotta e non precipitare sempre più giù in termini di rispetto dei diritti umani. Ne va della nostra civiltà. Una valanga inarrestabile quella degli attacchi violenti e sessisti contro le donne. Una quotidiana guerra contro le donne tutte, nel segno dell’annientamento e della incitazione all’odio puro. Scompare il rispetto per un essere umano. La disumanizzazione è servita, immersa e avallata in una società cristallizzata, immobilizzata in un medioevo culturale che discrimina e non riesce a prendere le distanze da una sub cultura del dominio patriarcale. Un contesto di violenza che ha come unico scopo la riaffermazione del potere maschile, in una sorta di backlash, tentativo estremo di riscossa e restaurazione post-femminista. Linguaggio e pratiche al servizio del potere maschile. Ancora attacchi di una violenza inaudita che non dovrebbero esistere in nessun contesto, invece sembra un’abitudine malsana e radicata del nostro Paese. Così si colpiscono le donne, che siano figure istituzionali o semplici cittadine. Non è un Paese per donne e la loro eliminazione fisica espressa e invocata da queste frasi ci richiama all’urgenza di un cambiamento radicale nella cultura, che sappia stigmatizzare e bandire questo linguaggio. Da chi ricopre incarichi istituzionali ci attendiamo che sappiano esprimere e praticare valori di civiltà e di rispetto, messaggi di ben altro spessore, perché siano da esempio per tutta la comunità di cittadini. Queste esternazioni sono palesemente incompatibili con il ruolo di rappresentanza che questi esponenti politici rivestono. Intanto il genocidio e la violenza contro le donne continuano, in questo clima che assolve simili comportamenti, perché considera ‘normale’ affondare coltelli reali o verbali nei corpi delle donne. La cultura che legittima la violenza è interiorizzata e agita da tutti e tutte purtroppo. Anche dalle donne come testimonia questo ultimo episodio. Le coscienze si addormentano e vengono assuefatte da questo linguaggio. Nessuno/a è immune, finché non agiremo in modo compatto per sancire che non può essere tollerato alcuno spazio a questo tipo di attacchi. Non ci stancheremo di ripetere che noi non ci stiamo a una normalizzazione di questi metodi. Non ci fermeremo finché tutto questo non sarà bandito in ogni contesto. Nessun alibi, nessuna scusa, nessuna tolleranza. 

Il gruppo “Chi colpisce una donna, colpisce tutte noi”
 
La nota su Facebook:

https://m.facebook.com/notes/chi-colpisce-una-donna-colpisce-tutte-noi/nessunalibi-nessunascusa-nessunatolleranza/1659273884390482/

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