Nuvolette di pensieri

Mormora l'acqua del ruscello

Una su cinque

Secondo dati Eurostat, in Italia, il tasso di occupazione delle donne di età compresa tra i 20 e i 64 anni al IV trimestre 2022 è stato pari al 55 per cento, mentre la media UE è stata pari al 69,3 per cento. Da tali dati emerge la scarsa partecipazione delle donne al mercato del lavoro in Italia, il cui tasso di occupazione risulta essere quello più basso tra gli Stati UE, di circa 14 punti percentuali al di sotto della media UE a fine 2022. Nel nostro Paese si registra, inoltre, un divario anche nel rapporto tra la popolazione maschile e quella femminile nel mondo del lavoro: le donne occupate, infatti, sono circa 9,5 milioni, laddove i maschi occupati sono circa 13 milioni. A ciò si aggiunga che una donna su cinque fuoriesce dal mercato del lavoro a seguito della maternità.” Leggiamo questo in un dossier “L’occupazione femminile” della Camera qui.

Una su cinque ha difficoltà a conciliare esigenze di vita con l’attività lavorativa.

La decisione di lasciare il lavoro è infatti determinata per oltre la metà, il 52%, da esigenze di conciliazione e per il 19% da considerazioni economiche. In generale, il divario lavorativo tra uomini e donne è pari al 17,5%, divario che aumenta in presenza di figli ed arriva al 34% in presenza di un figlio minore nella fascia di età 25-54 anni. Anche secondo il Rapporto ISTAT SDGs 2023, infatti, la distribuzione del carico di lavoro per le cure familiari tra uomini e donne non migliora, ma l’istruzione si conferma fattore protettivo per l’occupazione delle donne con figli piccoli. Nel 2022, il tasso di occupazione delle donne di età compresa tra 25 e 49 anni con figli di età inferiore ai 6 anni è pari a 55,5% (+1,6 p. p. rispetto al 2021), mentre quello delle donne della stessa età senza figli è del 76,6% (+2,7 p.p. rispetto al 2021). La differenza occupazionale tra lo status di madre e non madre è molto bassa in presenza di un livello di istruzione più elevato, con un valore dell’indicatore pari a 91,5%. L’occupazione femminile è caratterizzata anche da un accentuato divario retributivo di genere, nonché dal tipo di lavoro svolto dalle donne. Per quanto concerne la differenza di retribuzione, secondo gli ultimi dati Eurostat, il gap retributivo medio (ossia la differenza nella retribuzione oraria lorda tra uomini e donne) è pari al 5 per cento (al di sotto della media europea che 1. Cfr. “Rapporto plus 2022” INAPP.4 Le donne e il lavoro in Italia è del 13 per cento), mentre quello complessivo (ossia la differenza tra il salario annuale medio percepito da donne e uomini) è pari al 43% per cento (al di sopra della media europea, che è invece pari al 36,2%). Secondo i dati dell’Osservatorio sui lavoratori dipendenti del settore privato dell’INPS, nel 2022 la retribuzione media annua è costantemente più alta per il genere maschile, con una differenza di 7.922 euro (26.227 euro per gli uomini contro 18.305 euro per le donne). Con riferimento a tale settore privato, si segnala che la Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026 ha tra gli obiettivi quello di ridurre il gender pay gap nel settore privato dal 17 al 10 %. Dal punto di vista delle caratteristiche del lavoro svolto, la bassa partecipazione al lavoro delle donne è determinata da diversi fattori, come l’occupazione ridotta, in larga parte precaria, in settori a bassa remuneratività o poco strategici e una netta prevalenza del part time, che riguarda poco meno del 49 per cento delle donne occupate (contro il 26,2 per cento degli uomini).

La scarsa partecipazione della popolazione femminile al mondo del lavoro è ascrivibile anche alla bassa quota di lauree STEM tra le donne laureate. Infatti, secondo il rapporto ISTAT sui livelli di istruzione e i ritorni occupazionali riferito al 2022 (pubblicato a ottobre 2023) – è la metà di quella che si riscontra tra gli uomini laureati.

Tra le misure volte ad accrescere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro vi sono quelle relative a favorire la conciliazione dei tempi di vita con quelli di lavoro, quali l’assistenza all’infanzia e domiciliare. Per quanto riguarda le domande per il nido la situazione migliora per il calo delle nascite, ma ancora resta forte il gap tra domanda e offerta di posti, specialmente al Sud.

Per quanto concerne l’assistenza domiciliare, negli ultimi anni si registra un andamento crescente del numero di persone accolte in strutture residenziali.

L’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile è costruita intorno a cinque aree tematiche interconnesse (persone, pianeta, prosperità, pace e partnership), declinate in una strategia che prevede diciassette obiettivi di sviluppo sostenibile (Goal), articolati in 169 target. Ognuno di tali obiettivi è accompagnato da indicatori, affinché se ne possa misurare il conseguimento, a livello globale e nazionale. Tra questi, l’obiettivo n. 5 è volto al raggiungimento della uguaglianza di genere e della emancipazione di tutte le donne. Nell’ultimo rapporto del 2023, l’ASVIS (Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile) evidenzia che i progressi registrati negli ultimi sette anni verso il conseguimento del Goal 5 sono stati limitati, anche a causa della pandemia. L’Italia, infatti, si colloca al 79esimo posto nella graduatoria di 146 Paesi (“The global gender gap report 2023”), registrando un arretramento di 16 posizioni rispetto al 2022. Anche l’indicatore sull’uguaglianza di genere dell’European Institute for Gender Equality (EIGE), costruito in base a diversi parametri (l’occupazione, la gestione del tempo, le risorse economiche, la conoscenza, la salute, il potere), vede l’Italia al 14° posto rispetto ai 27 Paesi membri dell’UE (“Gender equality index 2022” – EIGE).

Il Rapporto ISTAT SDGs 2023 rileva che l’attuazione dell’Obiettivo 5 da parte dell’Italia registra alcuni profili critici. Nel 2022 il tasso di occupazione delle donne di età compresa tra 25 e 49 anni con figli di età inferiore ai 6 anni è pari a 55,5%, mentre quello delle donne della stessa età senza figli è del 76,6%.

Con l’elaborazione della Strategia per la parità di genere 2020-2025, l’UE definisce gli obiettivi politici e le azioni chiave per il periodo 2020-2025 volti alla promozione della parità di genere in diversi ambiti. Per quanto concerne il mondo del lavoro, tra gli obiettivi principali vi sono quello di colmare il divario di genere, raggiungere la parità nella partecipazione ai diversi settori economici e far fronte al problema del divario retributivo e pensionistico fra uomini e donne.

Tra le politiche sovranazionali volte a favorire l’occupazione femminile va ricordata la direttiva (UE) 2023/970 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 10 maggio 2023, che dovrà essere recepita entro il 7 giugno 2026. Tale direttiva stabilisce prescrizioni minime per rafforzare l’applicazione del principio della parità retributiva per uno stesso lavoro tra uomini e donne e il divieto di discriminazione in materia di occupazione e impiego per motivi di genere. Per il conseguimento dei suddetti obiettivi la direttiva prevede obblighi di trasparenza e di informazioni in materia di retribuzioni, nonché di adeguamento, in caso di sussistenza di discriminazioni retributive di genere immotivate.

Tra le strategie nazionali volte ad accrescere la parità di genere assumono rilevanza, in particolare, le misure previste nel PNRR e la Strategia nazionale per la parità di genere, la cui adozione è stata annunciata dal Governo nell’ambito del medesimo PNRR, quale documento programmatico che, in coerenza con la Strategia per la parità di genere 2020-2025 adottata dalla Commissione europea a marzo 2020, definisce un sistema di azioni politiche integrate nell’ambito delle quali sono adottate iniziative concrete, definite e misurabili. Merita inoltre ricordare, tra le strategie nazionali in oggetto, anche l’adozione del Bilancio di genere, quale misura di verifica dell’impatto che la legislazione può avere sull’uguaglianza tra uomini e donne. Al fine di favorire l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro, il legislatore ha previsto, dal 2012, taluni esoneri contributivi in favore dei datori di lavoro che assumono donne, anche in particolari condizioni di svantaggio. Al fine di favorire la presenza delle donne nel mercato del lavoro e ridurre il divario di genere, il nostro ordinamento prevede una serie di misure volte a facilitare la conciliazione dei tempi di vita con i tempi di lavoro, tra le quali assumono particolare rilievo quelle poste a tutela della maternità e della paternità e per l’assistenza dei soggetti con disabilità, nonché quelle che introducono misure economiche a sostegno della maternità. Nell’ambito dei congedi parentali, nell’ottica di alleggerire il carico di cura della madre, si segnala, in particolare, l’elevamento del congedo di paternità obbligatorio a 10 giorni (20 in caso di parti plurimi). Altre misure riguardano più strettamente il mondo del lavoro. Tra queste, quelle in tema di lavoro agile e di trasformazione del contratto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale.

Si tratta di un quadro difficile che conferma un umor nero delle donne quando si rapportano al mondo del lavoro. E invece dovremmo far entrare una parola Felicità, come l’ultimo libro di Chiara Bisconti che ce ne parla in modo semplice e utile, lavorando su tempo, bellezza, emozioni, diffusione del potere, convivenza delle unicità. Le nostre aziende dovrebbero modificare la loro cultura e organizzazione aziendale per favorire il benessere di lavoratori e lavoratrici. Ma nel 2024 siamo ancora indietro, nonostante alcune storie felici di realtà aziendali che stanno provando a cambiare.

Dobbiamo modificare retaggi antichi di un passato lavorativo che bisticcia col presente e le esigenze di vita delle persone. Ancora troppo precariato e lavoro a basse retribuzioni, in cui non c’è spazio per la persona. Scrivo anche che rientrare al lavoro dopo un periodo di pausa forzata per cure familiari è un’impresa nell’impresa di cercare lavoro. Ci dovrebbero essere percorsi facilitanti e una valorizzazione delle esperienze di ciascuna donna, perché anche il lavoro di cura lo è e pesa nelle skill personali. Il mio augurio per quest’anno è non snobbare le donne e le loro storie. Ho bisogno di sperare che qualcosa possa cambiare e che le nostre voci possano trovare ascolto.

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Il lavoro stabile come un cespite di valore

“Il lavoro stabile delle donne è un asset per il Paese. Le pari capacità non bastano senza pari opportunità” così afferma Antonella Polimeni, rettrice dell’Università La Sapienza, su La Repubblica di qualche giorno fa. Ma i dati dicono che il Paese più che sonnambulo, dice il Censis, è immobile. Nemmeno gli incentivi (agevolazioni che vanno dalle decontribuzioni all’apprendistato, due incentivi under 36 e due per le donne ecc.) hanno aiutato le donne come ci si sarebbe aspettato: i contratti trainati dagli sconti sono uno su quattro dei due milioni di contratti agevolati, ma quelli che favoriscono le donne sono 4 su 10, con 820 mila part time di cui 6 su dieci riservati alle donne. Il gap lavorativo resta sempre 40 a 60% tra donne e uomini. Secondo l’Inapp solo nel 40,9% dei casi si assume una donna in presenza di agevolazioni e si tratta di contratti precari o part time. Contratti forzati sempre una costante diffusissima. “La composizione e il relativo squilibrio di genere restano immutati, a conferma di divari sostanzialmente impermeabili a misure di tipo congiunturale”. Lo scenario offre un quadro in cui per le donne cresce il lavoro a termine e discontinuo, con in più il tempo parziale. Questo comporta una ridotta autonomia economica con ricadute sulle scelte presenti e future. Come abbiamo più volte sottolineato il gender pay gap non è pura discriminazione, ma deriva da una situazione lavorativa cristallizzata nella maggior parte dei tipi di lavoro proposti. Questo si riverbererà nella fase pensionistica. Non si assumono donne e non si stabilizzano perché pericolose per eventuali compiti di cura. Ma la cultura e l’organizzazione aziendale sono ferme al secolo scorso, con un welfare pubblico sempre più in affanno. Sembra che non solo sia difficile entrare nel mondo del lavoro, ma anche restarci diventa un viaggio ad ostacoli, prendere o lasciare. Fa male dover registrare sempre dati che ci vedono penalizzate in partenza, eppure ci iscriviamo di più all’università, ci laureiamo prima e con voti spesso più alti dei maschi. Cosa accade alle nostre carriere arenate come balene spiaggiate in un territorio in cui si accumulano tanti no? Possibile che il lavoro abbia ancora certe connotazioni fortemente penalizzate dal genere? Ci sono tante donne che ci provano a restare in carreggiata, ma non sempre ce la si fa. Non tutte le donne accettano di veder crescere la muffa sui sacrifici fatti e su anni di studio. Accettare qualsiasi proposta perché poi non si sa se ne arriverà un’altra. Intanto si accumulano carriere simili alla gruviera, dalle quali a una certa età si inizia ad essere scartate per altri motivi. Questa ostilità pesa maggiormente se manca l’aiuto e la solidarietà tra donne. Spesso vorremmo solo un’opportunità di rimetterci in gioco, di ritornare a partecipare al mondo del lavoro ed essere protagoniste di un riscatto sociale ed economico. Questo Paese non può rimanere fermo a questi dati, i datori di lavoro devono uscire da una logica che penalizza le donne e le costringe in un angolo. Se le condizioni di lavoro non migliorano ne va di mezzo l’intero Paese e la produttività. Lo ha detto anche la Commissaria Dunja Mijatovic del Consiglio europeo, l’Italia deve migliorare la legislazione e le pratiche sui diritti delle donne e la parità di genere. Non può reggere un sistema in cui i posti migliori sono riservati agli uomini o alle donne che hanno gli agganci giusti. Non vogliamo un meccanismo clientelare e familistico, abbiamo bisogno di lavorare secondo le nostre competenze e capacità, partendo tutte in modo realmente paritario. Non possiamo permetterci di perdere idee e forza lavoro solo perché considerate pericolose in quanto donne. Siamo competitive e idonee anche se abbiamo compiti di cura, figli o familiari da assistere, questo è un problema culturale e di mentalità che va sanato in fretta! Ci vogliono meccanismi strutturali di collegamento domanda e offerta, senza che nessuna di noi debba restare fuori o accettare soluzioni precarie e economicamente svantaggiose, con un sistema che ci accompagni e ci garantisca condizioni di vita dignitose.

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Cosa ci fa bene? Partire da noi.

Fonte: Cadmi https://www.facebook.com/cadmi.org/posts/5049600418422191

Mi sento obbligata a ragionarci ancora una volta, dopo innumerevoli altre volte. Credo che qualcosa sia sfuggita, che ci siamo proprio persi qualche passaggio. Su noi donne e sulle politiche che ci fanno davvero bene.

Può sembrare semplice varare politiche in grado di andare incontro alle esigenze delle donne, ma le donne non sono un soggetto unitario, monolitico, siamo ognuna diversa, con storie e situazioni diverse, sotto molteplici aspetti. E non va nemmeno bene quando l’approccio si fa neutro, con la scusa di dare piena applicazione all’art. 3 della Costituzione.

Sulla mia scrivania è ormai presenza fissa il testo Invisibili di Caroline Criado Perez. Può servire come interessante punto di partenza e di riflessione. Ci sono degli aspetti che possono aiutare a focalizzare bene alcuni temi, superando stereotipi, anche quelli più recenti, che partono tutti da un medesimo errore: considerarci sulla base di aspettative, sottovalutare la realtà, non ascoltarci per davvero e dare per scontato che alcune soluzioni andranno bene e sarà così per tutte.

Tema congedi parentali. Appare ovvio che i tempi e le modalità attuali andrebbero riviste, soprattutto che le politiche per le donne dovrebbero finalmente mettere al centro il punto di vista delle donne.

Parto dagli USA, ma è utile per capire il nocciolo. Negli anni ’90 e inizi dei 2000, alcune università sperimentarono una politica family friendly: ai docenti con figli sarebbe stato concesso un anno in più per completare il percorso di immissione in ruolo. “Ma non erano i docenti in generale ad aver bisogno di quella concessione, bensì le docenti madri. “Mettere al mondo dei figli non è un evento senza distinzioni di genere” ha osservato con una certa ironia Alison Davis-Blake, preside di una facoltà economica del Michigan. Mentre le donne trascorrono quell’anno in più vomitando, andando in bagno ogni 5 minuti, cambiando pannolini o riempendo biberon, gli uomini si dedicano alla ricerca. E così, invece di dare un aiuto ai genitori, questa politica finiva per dare un aiuto ai genitori, questa politica finiva per dare un aiuto agli uomini a spese delle donne: da un’analisi delle cattedre di grado intermedio presso i 50 dipartimenti di Economia più prestigiosi degli USA è risultato che tra il 1985 e il 2004 le probabilità che un’insegnante donna ottenesse un posto di ruolo al primo incarico erano scese del 22%, a fronte di un incremento del 19% per gli uomini.”

Pur prendendo con le pinze lo studio citato a pagina 115, dobbiamo ricordarci le difficoltà reali che affrontano le donne e la ineguale distribuzione dei compiti di cura: non appare così irragionevole credere a quanto rilevato e “pretendere politiche di aiuto specificamente mirate a chi porta i figli in grembo e se ne occupa di più una volta che sono nati. (…) Con tutto ciò, sia chiaro, non si intende negare l’importanza del congedo per paternità, (…) che se ben retribuito ha ripercussioni positive sull’occupazione femminile.” In Svezia, dove i padri usufruiscono di un congedo tra i 3  e 4 mesi in media, la misura è decollata solo dopo che è diventata obbligatoria. In Svezia ricordiamo c’è il tasso di occupazione femminile più alto dell’UE. Quindi le misure funzionano se sono imposte e se la cultura cambia, se in azienda non vieni penalizzato se prendi il congedo. “Gli uomini che approfittano del congedo tendono ad essere più coinvolti nella cura dei figli anche negli anni successivi”, con ricadute positive anche per il lavoro delle madri. “Va da sé che le politiche di congedo parentale non sono una panacea: il carico di lavoro non retribuito che grava sulle donne non comincia e non finisce con l’accudimento dei nuovi nati, e in genere l’organizzazione del lavoro dipendente continua a essere tagliata su misura per la vita di quel leggendario personaggio “libero da responsabilità di cura”. Lui – perché si dà per scontato che sia un lui – non ha figli o parenti anziani da accudire, né pasti da preparare o pavimenti da pulire (si veda questo articolo apparso su Alley Oop, sulle faccende domestiche), né medici da consultare, né spese da fare, né ginocchia sbucciate da disinfettare (…) la sua vita è semplicemente e facilmente divisa in due parti: lavoro e tempo libero. Ma un rapporto di lavoro fondato sul presupposto che un individuo possa presentarsi tutti i giorni in un certo luogo, a orari e indirizzi che non hanno alcuna correlazione con gli orari e gli indirizzi delle scuole, degli asili, degli studi dei medici e del supermercato, non potrà mai funzionare per le donne. Infatti non è stato progettato per questo.” Ci sono aziende che cercano di compensare, integrare, andare incontro… ma quante lo fanno? Si tratta di eccezioni.

“La verità è che in tutto il pianeta le donne continuano a essere penalizzate da una cultura del lavoro basata sil presupposto ideologico che i bisogni maschili siano universali.” Per non parlare del fatto che nonostante la pandemia, molte aziende sono convinte che lavorare in presenza sia più produttivo che da remoto o siano propense a premiare chi sta in ufficio oltre l’orario, anche se sta semplicemente scaldando la sedia.

Per cui quando sento parlare di misure universali e neutre mi fermo a riflettere. Spesso si tratta di una parità effimera, di facciata, che appunto non tiene conto di tanti aspetti e fattori. Oltretutto certe misure hanno costi notevoli, con risultati variabili, incerti. Perché dipende da come quel tempo di congedo paritetico viene impiegato e non è detto che corrisponda a una condivisione reale dei compiti di cura, ammesso che ciò sia possibile o auspicabile nei primi mesi. Le misure che intervengono nelle esistenze delle donne e tagliano tutto con l’accetta, non sempre hanno risultati ottimali. Avete sicuramente sentito parlare di 9 mesi di esogestazione. Sarete consapevoli dei tempi di recupero di cui hanno bisogno le madri e di quelli per prendere confidenza con le esigenze di un figlio (e viceversa). Ecco esattamente questo. In ogni caso, non è con queste politiche che si risolveranno i problemi di natalità o di lavoro delle donne. Se siamo sincere, lo dobbiamo dire. È questione di prospettive sul medio lungo periodo, di cultura aziendale, di rispetto delle scelte e dei tempi, di riorganizzazione aziendale, di formazione continua,, di riassetti, di servizi (non è più nemmeno sicuro riuscire ad avere un pediatra di libera scelta, a volte lo trovi a km; i nidi non sono la soluzione, perché fanno parte della bella favola del “basta organizzarsi bella”). Ne parla anche Alley Oop del Sole24ore: “Non bastano, quindi, gli asili nido per liberare le donne dalle maglie della conciliazione lavoro famiglia. È necessario un vero e proprio cambiamento culturale, che deve partire dentro le mura di casa.” E dalle aziende. Perché le politiche a compartimenti stagni non funzionano!

Non c’è reale protezione della maternità, perché i figli li facciamo ancora noi, ma nei fatti non abbiamo garanzie. Per capire di cosa parlo, basterebbe parlare con le migliaia di donne che da anni si dimettono “volontariamente” in silenzio nei primi 3 anni di vita del figlio. Ho volutamente scelto la foto iniziale perché ci si concentri sui fatti, sulla realtà. Ecco, iniziamo a sistemare anche il contorno, la società e il mondo del lavoro e non scarichiamo ancora una volta la faccenda sulla dimensione privata, con una pseudo parità e misure onerose a carico guarda caso delle lavoratrici dipendenti, le uniche con busta paga che pagano le tasse fino all’ultimo centesimo. Le politiche necessitano di un approccio a 360°, calate nella realtà sociale e produttiva italiana, nella mentalità italiana di datori di lavoro che ti fanno ancora compilare lo stato di famiglia per un semplice colloquio. Quindi diciamo una cosetta. Non è cancellando le differenze e le peculiarità delle donne che risolviamo le distorsioni attuali, anzi, negandole, si fa il gioco del patriarcato e di un modello di società ed economico maschiocentrico e adultocentrico, dove anche i bambini devono inseguire i tempi e le abitudini impossibili degli adulti e di un sistema rapace e sfruttatore. Le femministe hanno svelato queste cose decenni fa, direi che non è il caso ripartire da zero. L’ultima parola è alle donne, sempre e il sistema deve liberarci da giochi o escamotage patriarcali. La parità è una bella cosa, ma va maneggiata con cura e soprattutto entrando nel merito dei singoli ambiti e comprendendo le ricadute specifiche.

Il punto è quanto nella realtà economica, sociale e culturale non permette ‘di fatto’ che le donne vivano come se fossero pari. Si tratta di condizioni di partenza, concrete, contingenti, strutturali, che hanno guidato sin qui le riforme e le soluzioni date, che come si è visto hanno solo prodotto ulteriori forme di oppressione e sensi di colpa. Non siamo pari in quanto immagine allo specchio, copia carbone perfetta del maschile, siamo un soggetto inaspettato della storia e vogliamo vivere come soggetto autonomo e peculiare, non come replicanti. Insomma, cancellare e appiattire significa dare un colpo di spugna su decenni di riflessione femminista. L’art. 3 della Costituzione si attua se si rimuovono le condizioni imposte dal patriarcato per concedere spazi alle donne, salvo poi rispedirle a casa quando non più utile e sottomessa al sistema di sfruttamento, costruito al maschile. Noi dobbiamo essere parte della vita di questo Paese ma in condizioni diametralmente diverse da quelle attuali. Non è con i congedi che si risolvono tutti gli altri elefanti nella stanza. La parità ha senso se non ci sono condizioni strutturali, economiche, sociali e culturali che tendono a imporci di essere subordinate, perché certi modelli maschili non vanno bene e non sono giusti. Ripeto, il saggio Invisibili spiega bene tanti aspetti schiacciati e livellati da politiche che non ci rappresentano, non ci vedono, non ci ascoltano e vanno avanti con stereotipi e visione maschile, anche quando potrebbero sembrare friendly per le donne. Il ‘di fatto’ non è stato realizzato perché il potere maschile, altamente influente in ogni ambito, ha fatto leggi e prassi in modo da non modificare l’assetto di una società maschilista e forgiata su modelli maschili. Ci pagano meno, perché si sa che creiamo maggiori ‘problemi’ agli imprenditori poverini, finiamo con l’essere segregate in comparti precari e “adatti”, con contratti ‘prendere o lasciare’ e spesso part-time, ammesso che troviamo lavoro.

La parità di genere è un obiettivo irrinunciabile, titolava un pezzo di Paola Profeta sul Corriere del 7 settembre.

“Il dato più critico che caratterizza l’Italia è il basso tasso di occupazione femminile.

Da almeno un decennio esso è rimasto stabile su valori inferiori al 50%, precipitando al 33% nel Sud del Paese. Con questo valore, l’Italia si colloca agli ultimi posti in Europa, seguita solo da Grecia e Malta. Da anni si parla di emergenza del lavoro femminile: le donne rappresentano la metà della popolazione in Italia e almeno la metà di esse non è occupata.

La situazione è peggiorata con l’esplosione della pandemia: nel 2020 il tasso di occupazione femminile è stato pari al 48,6% (Istat, popolazione 15-64 anni), registrando per la prima volta un passo indietro rispetto agli anni precedenti. Il dato è leggermente risalito, ma resta oggi fermo al 49,4%. Le donne guadagnano mediamente meno degli uomini. Le differenze salariali di genere dipendono da molteplici fattori: il settore occupazionale, il numero di ore lavorate, la posizione occupazionale. Poiché le donne lavorano in settori meno remunerativi, meno ore e raramente in posizioni apicali, il salario medio femminile è inferiore a quello maschile. Secondo l’Eurostat, confrontando il salario lordo orario medio maschile e femminile, le donne europee guadagnano circa il 16% in meno degli uomini. In Italia la differenza è minore, sotto il 10%. Tuttavia, questo dato è meno confortante di quanto possa sembrare. Infatti, quando il tasso di occupazione è basso, come in Italia, la selezione nel mercato del lavoro è maggiore, con la conseguenza che solo le donne più istruite e con redditi più elevati lavorano.

Di conseguenza, il salario medio femminile si avvicina a quello maschile. Gli studiosi, per considerare correttamente questo dato, operano una correzione statistica per l’effetto selezione, a seguito della quale il dato italiano si riallinea con quello della media europea. I divari salariali sono evidenti già all’inizio della carriera, per esempio tra i neolaureati, e aumentano nelle posizioni più alte, quando le carriere delle donne stentano a decollare.

Nelle posizioni manageriali le differenze di genere nel reddito sono più elevate, pari a circa il 23%. Anche tenendo in considerazione tutti questi aspetti, resta una parte della differenza salariale che non è spiegabile da fattori osservabili. È parte della discriminazione statistica o discriminazione implicita, in base alla quale le donne ricevono meno possibilità di guadagni e di carriera degli uomini, perché da esse ci si aspetta minore produttività, minore interesse, meno tempo per il lavoro.

Le criticità del lavoro femminile includono anche la qualità del lavoro. Il 32,4% delle donne italiane occupate tra i quindici e i sessantaquattro anni lavora part time contro solo l’8% degli uomini.

L’Istat stima che il 60% del part time sia involontario. Le donne che lavorano a tempo determinato sono il 17,3% del totale delle lavoratrici.

Questi aspetti sono esplosi durante la pandemia. Nel 2020, si sono persi 444.000 posti di lavoro, di cui 312.000 di donne. Nel solo dicembre del 2020, si sono persi 101.000 posti di lavoro, di cui 99.000 posti di donne, molti a tempo determinato, che non hanno retto alla situazione di crisi.”

(…) La pandemia Covid-19 ha esacerbato gli squilibri preesistenti tra uomini e donne, ponendo a rischio i progressi fatti e il raggiungimento dell’obiettivo della parità di genere. Si è parlato di She-cession per indicare la recessione al femminile collegata alla pandemia. A differenza delle crisi precedenti, come quella finanziaria del 2007, che hanno colpito settori dominati dal lavoro maschile (industria, finanza, manifattura), la pandemia ha colpito settori come i servizi dove molte donne sono occupate.”

L’assetto non è immodificabile, il femminismo, non il donnismo o il pinkwashing, demolirà questa aria malsana che ammorba tutto. L’importante è non adoperare gli stessi mezzi del patriarcato. Non smettere di provarci e non permettere che quei pochi diritti che abbiamo conquistato vengano erosi, sgretolati. Dobbiamo capovolgere il tavolo, lo sguardo e le soluzioni. Portare la differenza in ogni dove.

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Aspettare stanca

Penelope disfa (svela) il suo lavoro di notte (1886)
Dora Wheeler Keith (Stati Uniti, 1856-1940) pannello ricamato con fili di seta su tessuto in seta,
New York, Stati Uniti – The Metropolitan Museum

“La parità di genere non è solo un diritto umano fondamentale, ma la condizione necessaria per un mondo prospero, sostenibile e in pace. Garantire alle donne e alle ragazze parità di accesso all’istruzione, alle cure mediche, a un lavoro dignitoso, così come la rappresentanza nei processi decisionali, politici ed economici, promuoverà economie sostenibili, di cui potranno beneficiare le società e l’umanità intera.”

I traguardi dell’obiettivo 5 ‘Raggiungere l’uguaglianza di genere ed emancipare tutte le donne e le ragazze’ dell’Agenda 2030 ONU parlano chiaro:

5.1     Porre fine, ovunque, a ogni forma di discriminazione nei confronti di donne e ragazze

5.2     Eliminare ogni forma di violenza nei confronti di donne e bambine, sia nella sfera privata che in quella pubblica, compreso il traffico di donne e lo sfruttamento sessuale e di ogni altro tipo

5.3     Eliminare ogni pratica abusiva come il matrimonio combinato, il fenomeno delle spose bambine e le mutilazioni genitali femminili

5.4     Riconoscere e valorizzare la cura e il lavoro domestico non retribuito, fornendo un servizio pubblico, infrastrutture e politiche di protezione sociale e la promozione di responsabilità condivise all’interno delle famiglie, conformemente agli standard nazionali

5.5     Garantire piena ed effettiva partecipazione femminile e pari opportunità di leadership ad ogni livello decisionale in ambito politico, economico e della vita pubblica

5.6     Garantire accesso universale alla salute sessuale e riproduttiva e ai diritti in ambito riproduttivo, come concordato nel Programma d’Azione della Conferenza internazionale su popolazione e sviluppo e dalla Piattaforma d’Azione di Pechino e dai documenti prodotti nelle successive conferenze

5.a     Avviare riforme per dare alle donne uguali diritti di accesso alle risorse economiche così come alla titolarità e al controllo della terra e altre forme di proprietà, ai servizi finanziari, eredità e risorse naturali, in conformità con le leggi nazionali

5.b     Rafforzare l’utilizzo di tecnologie abilitanti, in particolare le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, per promuovere l’emancipazione della donna

5.c     Adottare e intensificare una politica sana ed una legislazione applicabile per la promozione della parità di genere e l’emancipazione di tutte le donne e bambine, a tutti i livelli.

Fonte: https://unric.org/it/obiettivo-5-raggiungere-luguaglianza-di-genere-ed-emancipare-tutte-le-donne-e-le-ragazze/?fbclid=IwAR1N31nf52jgIB3YryjPqvKs4iVWpPbWRPX_gK_dMQjs2cTUfF-iYx9s5qw

Secondo il Global Gender Gap Index 2022 recentemente pubblicato dal WEF, l’Italia è al 63° posto nella classifica generale tra 146 Paesi. Siamo però al 110° posto per quanto riguarda la partecipazione e le opportunità, al 59° per livello di istruzione, al 108° per quanto riguarda la salute e aspettativa di vita e al 40° per emancipazione politica.

Le note dolenti ricadono quindi su lavoro e salute. Anche per l’istruzione occorre fare uno sforzo in più.

Siamo penalizzate sul fronte della partecipazione al mondo del lavoro, disparità salariale, livelli salariali. Io aggiungerei la precarietà e la mancanza di sicurezza. Le morti, il mobbing, le molestie, le discriminazioni di vario tipo nel mondo del lavoro rendono la situazione assai preoccupante.

Ne parla ancora una volta Linda Laura Sabbadini su Repubblica oggi 13 agosto, in un pezzo dal titolo “Perché le donne non votano”.

Nel 2018 si raggiunse un tasso di astensionismo del 27%, un picco: un segnale inequivocabile che mandano soprattutto le donne, che in questo caso sono il 5% in più degli uomini.

È chiaro che si tratta di una crescita di sfiducia nella democrazia. Nel ’76 l’astensionismo era del 6,6%, da allora è cresciuto inesorabilmente. Sabbadini traccia le radici di un fenomeno politicamente rilevante: un diverso ruolo assunto dal sistema dei partiti nella nostra società: “Il rapporto tra cittadini e partiti era molto stretto nel primo trentennio della Repubblica e si esprimeva, nel momento delle elezioni, non solo con un’alta partecipazione al voto, ma anche con l’espressione dell’adesione ad un partito come affermazione di una appartenenza ad un gruppo sociale e ad un progetto politico ben preciso.”

Quindi è dentro la società che si deve tornare, per confrontarsi e misurarsi, per rappresentare e conoscerne i volti e le istanze e solo dopo progettare. Dentro la società, comprendendo il valore che ciascun/a cittadino/a ha e può portare.

Sabbadini aggiunge: “la crescita della non partecipazione al voto è andata di pari passo con una maggior mobilità e fluidità dell’elettorato italiano” e dietro, in rincorsa i partiti.

Il voto è percepito come una facoltà di cui avvalersi, il non voto deriva da “motivazioni demografiche o tecnico elettorali, sempre più espressione di disagio e distacco dovuto a sfiducia nella possibilità di cambiare situazione.”

E qui arriviamo alle donne che evidentemente si aspettavano di più, anche perché nel frattempo si è iniziato a parlare di 50E50, pari opportunità ecc.

Sabbadini ci pone la domanda: “avviene (l’astensionismo, ndr) perché le donne sono lontane dalla politica o perché la politica è lontana dalle donne?” Guardando ai risultati tangibili, che ciascuna di noi può sperimentare, la risposta è scontata. Sì certo, oggi abbiamo qualcosina in più, addirittura 10 giorni al 100% per i neopapà e la legge sulla parità salariale (tra l’altro già codificata a livello costituzionale, art. 37), eppure i dati della partecipazione al mondo del lavoro non sono confortanti, non lo dico io. Sabbadini ci ricorda un po’ di cose incompiute, dai nidi pubblici del 1971 ancora rari e con ampie differenze geografiche, alla legge sull’assistenza sociale del 2000 (che per tante donne e i loro figli non ha migliorato la situazione). I fondi per la violenza, per la sanità, per il reddito di libertà sempre in ritardo e pieni di cavilli e burocrazia. Una legge 194 svuotata a suon di obiezione e di tutte le conseguenze di anni di tagli alla sanità pubblica, consultori in primis. E quella infinita difficoltà di portare un cambiamento culturale nelle scuole contro stereotipi e violenza maschile contro le donne: prevenzione, ci siamo dimenticati una delle P fondamentali della convenzione di Istanbul.

La metà delle donne non ha un lavoro, quando ce l’ha è precario, sottopagato e lo perde quasi sempre all’arrivo del primo figlio se non ha una rete di welfare familiare che le copra le spalle. Se ne parla sempre, ma il paese resta un paese ostile per donne e mamme. C’è chi non se ne accorge, ma evidentemente chi non va più a votare sì. L’art. 3 della Costituzione è lì che giace inapplicato e l’autonomia economica dignitosa delle donne non c’è. Sabbadini parla di disincanto, sfiducia o convinzione che la politica non possa, non sappia, non voglia risolvere i problemi e le montagne quotidiane e quindi si va di faidate e di ‘si salvi chi può’. Più che una scossa ci vorrebbe un terremoto nelle coscienze di chi si candida e viene eletto per rappresentare e per trovare soluzioni.

Insomma, c’è del materiale su cui concentrarsi. Anche politicamente, se vogliamo seriamente contare e fare la differenza, non basta avere scranni, ma occorre che questa rappresentanza femminile si riempia di azioni rivolte a quella metà della popolazione che chissà perché è sempre agli ultimi posti dell’agenda. Occorre che non si creino veti, montagne, ostacoli alle azioni delle donne che riescono ad arrivare nelle istituzioni. Le idee che portiamo, al di là di coloro che si rivelano mere esecutrici, possono essere utili a trovare soluzioni e strade mai percorse, a patto che non ci mettiate le zavorre e non ci facciate ostruzionismo. Io parlo e continuerò a parlar chiaro. Un Paese che investe sulla parità, su salute e istruzione di qualità per le donne, sta ponendo le basi per il suo futuro. Continuando a ignorare le nostre istanze, le nostre proposte, le nostre problematiche, avremo delle ricadute pessime su tutta la popolazione. Non ci annacquate in formule e soluzioni neutre. Analizziamo a fondo i dati e i fenomeni, cerchiamo di scoprire sempre la dimensione di genere e i perché alcuni problemi diventano più complessi e cronici per le donne. Certo le motivazioni le conosciamo, ma è difficile che la politica riesca a tenere insieme più generazioni e la variabile di genere. Spesso fa finta di dimenticarsi di una dimensione, guarda caso le donne. Evitiamo per una volta di far finta di non conoscere le ragioni per cui questo Paese non è ancora un luogo facile per le donne, anzi. Ne va del nostro futuro e di tutti. Non vogliamo bonus, ma il buon vecchio stato sociale che avete smantellato e che le leggi varate negli anni vengano applicate, in ogni ambito, senza più discriminazioni e violenze, riconoscendo le peculiari esigenze delle donne e delle madri, perché non è con la livella e con soluzioni esclusivamente ‘paritarie’ che si danno le risposte necessarie. Bisogna che entriate nelle vite delle donne.

Bisogna partire dalla base, dalla società reale non quella vista attraverso le lenti di chi ce l’ha fatta e sta bene, e dalle basi, valori e conflitti. Non si possono cambiare le cose con gli strumenti di chi e con chi ha guidato sinora, salvo eccezioni. Partire non dal potere ma dalla rappresentanza di classi e istanze, avendo il coraggio di affrontare ciò che rende questo Paese arduo e impossibile per le donne. Meno spocchia elitaria, meno pinkwashing, meno femminismo opportunistico, più voglia di ascoltare. La politica non è carriera personale. Se anche tra noi si negano i problemi e si liquidano le criticità, non si va da nessuna parte. Ché magari non abbiamo fatto e non facciamo tutto bene. E siccome di fregature ulteriori non ne vogliamo, eviterei la strada della rottamazione 2.0 o di uno scontro generazionale. Cambiare e realizzare il cambiamento non è una questione anagrafica, si può essere conservatori/trici e servi/e dello status quo, delle logiche che ci hanno portato alla situazione attuale anche a 20 anni. Non c’è bisogno di spremersi troppo le meningi per non fare gaffe, trovare le parole e le idee giuste, se la vostra sensibilità è autentica e se pensate davvero che è il momento di dare centralità alle donne. Bravi/e ci avete messo in un pacchetto (col fiocchetto), una paginetta, avete fatto il compitino, ma non basterà se vi siederete su questo e penserete che se le cose non cambiano è colpa degli altri che non collaborano e non capiscono. Aspettare stanca, le donne sono stanche e la pazienza è finita, non potete aspettarvi che automaticamente e un po’ smemorate ricominceremo da zero a tessere pazientemente la tela, che altri/e in vesti patriarcali ci disfano continuamente, per tenerci ferme più o meno allo stesso punto. Dopo un po’ di anni facciamo fatica a fidarci che si vedranno i tanto auspicati cambiamenti.

In ogni caso, andate a votare, le donne che ci hanno precedute hanno fatto tanto per ottenere questo diritto.

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Il punto sulla Legge 194

Nel 1978 entrava in vigore la Legge 194 – Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza. Ieri è stata presentata in Parlamento la Relazione del Ministero della Salute sulla sua attuazione. I dati sono relativi al 2020, sempre assai tempestivi. I numeri delle interruzioni volontarie di gravidanza sono in costante calo a ogni rilevazione dal 1983 in avanti: nel 2020 la flessione è stata dello 9,3%.

La situazione dell’obiezione di coscienza è sempre disastrosa e di fatto diventa in alcuni casi un ostacolo, una specie di muro tra la donna e il suo diritto a una scelta libera, senza impedimenti, serena e con l’adeguato e corretto supporto. Nel 2020 le Regioni hanno riferito che ha presentato obiezione di coscienza il 64,6% dei ginecologi, valore in leggera diminuzione rispetto al 2019, il 44,6% degli anestesisti e il 36,2% del personale non medico.

L’analisi del carico di lavoro settimanale attribuibile ad ogni ginecologo non obiettore per singola struttura di ricovero nel 2020 evidenzia 3 Regioni in cui sono presenti strutture con un carico di lavoro superiore alle 9 IVG a settimana (9,7 in Abruzzo; 9,9 in Campania e 16,1 in Sicilia). Quindi, la situazione presenta delle criticità, che denunciamo da anni.

L’aumento dell’uso della contraccezione d’emergenza – Levonorgestrel (Norlevo, pillola del giorno dopo) e Ulipristal acetato (ellaOne, pillola dei 5 giorni dopo) – sembra aver inciso positivamente sulla riduzione del numero di IVG. Certo sarebbe preferibile che si diffondesse maggior consapevolezza in materia contraccettiva, avviando percorsi che facciano prevenzione costante di gravidanze indesiderate.

Quindi un diritto tutt’altro che garantito secondo quanto previsto dalla legge che ha compiuto 44 anni. Un diritto che sappiamo può venir meno o ridimensionato assai facilmente, basti pensare a quanto sta accadendo negli USA, dopo la recente votazione della Corte suprema, o in Polonia.

La maternità deve restare una libera e consapevole scelta delle donne, se non vogliamo che generi danni, problemi, traumi permanenti. Garantire la possibilità di scelta è garantire la salute psicofisica delle donne.

Resta il rischio di tornare alla clandestinità, che evidentemente continua a essere ancora un fenomeno presente. Il Ministero stima per difetto che circa 10mila donne ogni anno abortiscano così, spesso ricorrendo al fai da te con farmaci acquistati online. Evidentemente gli ostacoli all’aborto legale stanno facendo molti danni e a farne le spese sono le donne. Nonostante la sanzione per aborto illegale che colpisce le donne sia stata innalzata fino a 10mila euro qualche anno fa.

Qui un articolo recente che inquadra bene il fenomeno.

“La maggior rottura operata dal femminismo come teoria e pratica si è fondata non tanto sull’estensione dei diritti, quanto sulla riappropriazione politica e simbolica del corpo e dei suoi significati, che sta a monte di quelli. Questo ha significato in primo luogo un ancoramento alla corporeità che la filosofia tradizionale respingeva descrivendo un soggetto disincarnato; ha voluto dire ritrovare una sessualità propria e una libertà di scelta ma anche aprirsi a una molteplicità di manifestazioni di vita, fare in modo che la coniugalità e la maternità non fossero più considerate l’unico destino possibile Un triangolo festoso, ironico e irriverente, fatto con dita ribelli unendo le punte dei pollici e degli indici, risalendo dalle profondità degli archetipi irruppe nelle piazze: quella mimica eloquente comparve negli anni Settanta, scomparve nel giro di un decennio. Riportava nella polis un corpo sessuato. Annunciava al mondo che le donne riprendevano possesso di sé. Quel sesso che non era un sesso, ma solo un attributo destinato alla riproduzione, diventava finalmente orgoglio politico. (…) Con quel gesto la critica femminista si allarga alle istituzioni della vita pubblica che sulla rimozione del corpo hanno costruito il loro potere. Il corpo sessuato riporta la persona, i cicli biologici, la vita affettiva, i desideri, le relazioni sentimentali, i rapporti famigliari dentro la storia, la cultura, la politica.(…) La libertà di decidere quando e se fare figli, che ci siamo duramente conquistate, ci viene spesso rinfacciata perché chi ha consuetudine con il potere sa che poter decidere di sé è il primo passo per stare nel mondo alla pari.”

Graziella Priulla – La libertà difficile delle donne – Settenove

Questo estratto ci aiuta a inquadrare bene quanto è stato lungo e difficile questo percorso, cosa ha rappresentato, quanto tuttora è sotto attacco e in discussione. Una notizia che è passata in sordina, ci riguarda. Ringrazio Maddalena Robustelli per avermela girata.

Con la Risoluzione 2439 (2022) del Parlamento Europeo ‘Access to abortion in Europe: stopping anti-choice harassment’ c’è una importante presa di posizione su quanto concerne le molestie no-choice, perché sono vere e proprie violazioni dei diritti umani. Avete presente quando cercando online notizie su contraccezione e interruzione volontaria di gravidanza, i primi risultati sul motore di ricerca sono di organizzazioni no-choice? Avete presente i gruppi di preganti davanti agli ospedali o le campagne con manifesti no-choice nei pressi delle strutture ospedaliere? Avete presente la persistente lacuna di educazione sessuale tra i giovani e giovanissimi? Avete presente quando scrivo di gravidanze adolescenziali, anche a 12 anni? E’ evidente che siamo di fronte a un rischio di involuzione. Quindi l’Italia è invitata a non far finta di nulla. Ho velocemente tradotto i punti salienti.

L’Assemblea invita gli Stati membri del Consiglio d’Europa, Osservatori e Partner per la Democrazia a:

10.1 adottare le misure necessarie per garantire che gli ostacoli all’accesso alla legittima assistenza per l’aborto o alle informazioni pertinenti sia proibito e sanzionato penalmente o in altro modo; la condotta vietata dovrebbe includere attività online; vietare alle organizzazione no-choice di presentarsi erroneamente come organizzazioni neutrali o favorevoli alla scelta;

10.2 introdurre zone cuscinetto in prossimità delle strutture di assistenza sanitaria riproduttiva e di qualsiasi struttura in cui siano fornite informazioni pertinenti, per evitare l’interruzione dei pubblici servizi che forniscono cure per l’aborto e garantire la sicurezza delle persone che richiedono cure per l’aborto; all’interno delle zone cuscinetto dovrebbero essere vietate tutte le attività di informazione e di raccolta e protesta contrarie alla scelta, sia rivolte al pubblico che a privati;

10.3 fornire informazioni affidabili sui diritti e servizi riproduttivi, compreso l’aborto, e adottare le misure necessarie per contrastare la disinformazione e la disinformazione sull’aborto; tali misure dovrebbero includere un controllo specifico sulla possibile diffusione di disinformazione, apertamente o in incognito, da parte di organizzazioni no-choice;

10.4 autorizzare le persone a compiere scelte informate garantendo che informazioni basate su prove, accurate dal punto di vista medico e non giudicanti sull’aborto siano disponibili online e offline, in particolare attraverso campagne di informazione e un’educazione sessuale completa; garantire che in tutte le scuole sia fornita un’educazione sessuale completa; i programmi di studio dovrebbero riguardare la salute ei diritti sessuali e riproduttivi, compresi la contraccezione e l’aborto;

10.5 garantire l’effettivo accesso alle cure legali per l’aborto, quando previsto dalla legislazione nazionale, e la consulenza pertinente da parte di professionisti sanitari qualificati che forniscono informazioni obiettive; l’obiezione di coscienza, ove legale, non dovrebbe mai limitare l’accesso effettivo e tempestivo all’assistenza medica per l’aborto;

10.6 formare gli operatori sanitari a fornire informazioni e cure relative all’aborto, in modo basato sull’evidenza, imparziale, non giudicante, rispettoso e confidenziale; proteggere gli operatori sanitari, che prestano assistenza all’aborto, da minacce o attacchi verbali o fisici e da qualsiasi pressione o ritorsione, anche professionale;

10.7 indagare e perseguire efficacemente l’incitamento all’odio online e offline nei confronti dei difensori dei diritti umani, comprese le organizzazioni, e adoperarsi per prevenire e contrastare le reti di individui e organizzazioni create con l’obiettivo di molestare attivisti pro-choice, politici e persone che scelgono di abortire;

10.8 fornire informazioni e formazione agli agenti delle forze dell’ordine e ai membri della magistratura per garantire che siano a conoscenza della portata e dell’impatto delle attività contrarie alla scelta.

Questo va ovviamente di pari passo a un potenziamento dei consultori pubblici, a una diffusione di informazioni per una sessualità consapevole, a un intervento sullo stato attuale dell’obiezione di coscienza nel SSN pubblico e a un ripristino della gratuità della contraccezione per tutte.

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Dalla relazione ai fatti. Poniamo fine alla violenza istituzionale e crediamo alle donne

La presentazione della relazione 13 maggio 2022

Nel 2000 l’UE promosse la campagna contro la violenza domestica adottando lo slogan “Rompete il silenzio”. Molte donne con l’aiuto dei centri antiviolenza quel silenzio lo hanno infranto. Molte volte ci sono segnali che non vengono colti da chi si trova vicino, e se la donna resta sola è ovvio che i rischi aumentano. Se poi ha figli, è importante che ci sia attenzione anche a loro. Dobbiamo evitare di essere parte di un occultamento della violenza, dobbiamo assumerci ciascuno le nostre responsabilità e informarci, formare, permettere di avere gli strumenti affinché tutte queste strategie e tattiche di invisibilizzazione e riduzione al silenzio vengano smontate, contrastate e non possano attecchire. È un lavoro che deve toccare tutti gli ambiti, professioni. Evitando che prendano piede teorie rivittimizzanti.

Il libro “Un silenzio assordante” di Patrizia Romito è una pietra miliare. Non è negando o peggio girandoci dall’altra parte di fronte a un segnale che riusciremo ad aiutare donne e minori.

In questo saggio si parlava tra l’altro dell’affido congiunto.

Da pag. 165: “La violenza nei riguardi della donna deriva da un desiderio di sopraffazione (…) cioè la figura del pater familias, la casa è mia, gli animali sono miei, la donna è mia e i figli ono miei per cui li possiedo… in certi interventi l’uomo diceva: “Sì, ma ‘sta qua è roba mia. Qua è tutto mio… lo gestisco io come voglio”

intervista di un poliziotto delle volanti 2000

Questa mentalità è ancora viva e vegeta e alimenta tutto quel fiume di violenza e femminicidi e figlicidi.

La ROBA.

“Il controllo su moglie e figli è una prerogativa troppo centrale nel patriarcato per rinunciarvi senza resistere. È quindi difficile anticipare l’esito della battaglia che oggi si sta giocando. Questa battaglia vede schierate da una parte molte donne, vittime di violenze e attiviste femministe, alcuni operatori e professionisti che, indipendentemente dalla loro appartenenza di genere e dall’adesione o meno all’analisi femminista, ritengono che la violenza maschile, dentro o fuori la famiglia, sia un crimine inaccettabile; dall’altra gli abusanti, i loro alleati e compagni di strada, i loro cani da guardia. In mezzo c’è la maggioranza delle persone, poco e mal informate, che per pigrizia e paura di mettersi in gioco rifiuta di vedere una realtà orribile, nega la violenza maschile e alla fin fine trova più facile sostenere lo status quo, e cioè il modello patriarcale, che opporvisi.”

pagina 169 Un silenzio assordante” di Patrizia Romito

Quindi, direi che abbiamo ben inquadrato il problema. Dopo anni di battaglie, denunce e la forza di tante madri, al coraggio di donne come Laura Massaro, qualcosa emerge, si fa un po’ di luce su questa realtà. A loro dobbiamo tanto, per loro dobbiamo continuare a mantenere alta l’attenzione e non mollare, la strada è ancora lunga.

Il fenomeno della vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale è arrivato alla commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio. Dopo la sentenza della Corte di Cassazione di Laura Massaro, si aggiunge un altro importante tassello, una relazione. Il video della presentazione della relazione.

“La Commissione Femminicidio del Senato ha svolto un’indagine in 4 anni sulla violenza contro le donne e i minori nelle separazioni e negli affidi esaminando circa 1500 fascicoli processuali e ha scoperto che:

-nel 34,7% delle cause giudiziali di separazione con affido davanti ai Tribunali civili siamo in presenza di “allegazioni di violenza domestica” (denunce, certificati, sentenze);

-nel 34,1% dei procedimenti di affido di fronte ai Tribunali per i minorenni c’è violenza, nel 28,8% dei casi si tratta di violenza diretta su bambini e ragazzi, in gran parte agita dai padri.

Si tratta di fenomeni per lo più “invisibili”, perché non riconosciuti dagli operatori nel corso dei processi. Di più, in queste cause di separazione con figli in cui sono presenti tracce di violenza, nella quasi totalità dei casi (96%) i Tribunali ordinari non acquisiscono i relativi atti e non ne tengono anche per decidere sull’affido dei figli, mentre i Tribunali per i minorenni nei casi in cui c’è violenza finiscono con l’affidare i minori nel 54% dei casi alla sola madre, ma anche con incontri liberi con il padre violento.”

La relazione, voluta fortemente dalla senatrice del Pd Valeria Valente, presidente della Commissione Femminicidio, per la prima volta permette di indagare e quantificare in modo scientifico il fenomeno della vittimizzazione secondaria, di ricostruire il percorso della violenza contro le donne e i minori nelle aule dei tribunali, anche attraverso i pregiudizi e gli stereotipi di cui sono vittime. Tutto ciò è stato possibile grazie alle madri che hanno collaborato direttamente portando la documentazione dettagliata di ciò che avevano vissuto o stavano vivendo nei tribunali.

La senatrice precisa che: “molto è stato fatto sia dal legislatore (penso alla riforma del processo civile) che dagli operatori della giustizia (penso alle buone pratiche di molti Tribunali), ma molto resta da fare per dare concreta attuazione alla Convenzione di Istanbul, soprattutto in termini di formazione per riconoscere la violenza ed evitare di penalizzare donne e minori due volte.”

Per capire meglio la mole di lavoro fatta:

“La Commissione, nell’intento di esaminare la vittimizzazione secondaria nei casi di separazione con affidamento di minori, ha esaminato sia i procedimenti di separazione giudiziale di coppie con figli pendenti nei Tribunali civili, che i procedimenti sulla responsabilità genitoriale presso i Tribunali per i minorenni. In entrambi i casi ha ritenuto indispensabile verificare con rigorosità statistica l’effettiva incidenza del fenomeno su scala nazionale. L’inchiesta, che è stata svolta nel 2020 e 2021, ha quindi realizzato due rilevazioni campionarie. Per quanto riguarda i procedimenti civili di separazione giudiziale con affidamento di figli minori, è stato individuato un campione statistico di 569 fascicoli, rappresentativi dei 2089 iscritti al ruolo nel trimestre marzo-maggio 2017. Per quanto riguarda i procedimenti cosiddetti “de responsabilitate”, in cui i Tribunali per i minorenni decidono sull’eventuale decadimento della potestà dei genitori e sull’affidamento dei figli, il campione statistico ha compreso 620 fascicoli, rappresentativi dei 1452 iscritti al ruolo nel mese di marzo 2017. La Commissione ha inoltre esaminato altri fascicoli acquisiti agli atti per un totale di 1411, a cui si aggiungono quelli relativi a 36 “casi emblematici” di vittimizzazione (in cui si riscontrano anche provvedimenti di sottrazione di figli alle madri con la forza pubblica) sui quali è stata svolta un’indagine qualitativa.

Ciò che emerge è un quadro chiaro di violenza negata perché non riconosciuta da avvocati, magistrati, servizi sociali, consulenti tecnici e quindi di vittimizzazione secondaria delle donne che la subiscono e dei loro figli da parte delle istituzioni, con esiti anche gravi quali l’allontanamento dei figli dalle madri che hanno denunciato e/o subito violenza e/o l’affidamento dei figli ai padri maltrattanti.

Eppure, avremmo tutti gli strumenti per identificare e per prevenire la vittimizzazione secondaria. Ma qui è sempre un problema culturale, di pregiudizi e di formazione non uniforme e adeguata.

“Secondo la Raccomandazione n.8 del 2006 del Consiglio d’Europa, “la vittimizzazione secondaria significa vittimizzazione che non si verifica come diretta conseguenza dell’atto criminale, ma attraverso la risposta di istituzioni e individui alla vittima”.

“La vittimizzazione secondaria – scrive la Commissione nella Relazione – con particolare riferimento a quella che rischia di realizzarsi nei procedimenti giurisdizionali di separazione, affidamento e di limitazione e decadenza dalla responsabilità genitoriale, si realizza quando le stesse autorità chiamate a reprimere il fenomeno della violenza, non riconoscendolo o sottovalutandolo, non adottano nei confronti della vittima le necessarie tutele per proteggerla da possibili condizionamenti e reiterazione della violenza”.

Come tutta la violenza di genere – continua la Commissione nella Relazione – anche la vittimizzazione secondaria ha profonde radici culturali: i rappresentanti delle istituzioni, in quanto espressione della società, possono essere portatori, anche inconsapevoli, di pregiudizi e stereotipi di genere che sono alla base della violenza domestica, con possibile tendenza a colpevolizzare la vittima (cosiddetto victim blaming)“. Non a caso la Convenzione di Istanbul obbliga gli Stati a contrastare la vittimizzazione secondaria e ad adottare tutte le misure necessarie per proteggere le vittime dai nuovi atti di violenza.”

Nella quasi totalità dei casi (96%) i Tribunali ordinari non approfondiscono gli atti relativi alle violenze (pur se documentati nei procedimenti), tanto che:

– più della metà (il 57%) dei procedimenti di separazione giudiziale si conclude con il consenso delle parti

– i minori vengono affidati alla fine nel 54% dei casi alle madri, ma anche con incontri liberi con il padre violento.

Dunque, la violenza domestica e in particolare la violenza maschile contro donne e figli è invisibile nei processi di separazione giudiziale. In attesa dell’attuazione della riforma del codice di procedura civile (legge206/2021*) che prevede particolari cautele per le vittime nell’udienza presidenziale e vieta il tentativo di conciliazione nei casi di violenze in famiglia, ciò avviene anche in espressa violazione della Convenzione di Istanbul.

Cosa accade ai minori soggetti dell’affido? Nel 69,2% dei casi non sono stati ascoltati, e quando l’ascolto avviene (30,8% dei casi), esso viene delegato nell’85,4% dei casi al tecnico nominato e ai servizi sociali. Solo nel 7,8% dei casi il giudice ha parlato con i bambini.

Anche quando c’è violenza, le donne non vengono credute e la violenza non viene nominata dai giudici. Nel complesso il 77% dei provvedimenti presidenziali non nomina la violenza o la confonde col conflitto familiare, seppur in presenza di attestazioni di violenza. Lo stesso avviene nella metà dei primi provvedimenti presidenziali dei Tribunali minorili. La violenza denunciata dalle madri su di loro o sui minori non viene riconosciuta, neppure quando la madre denuncia abusi sui minori.

Di quali strumenti si avvalgono i giudici e cosa accade nella realtà?

Nel 17,8% delle separazioni giudiziali con figli minori vengono disposte consulenze tecniche d’ufficio, che appaiono generalmente molto critiche nei confronti delle madri. Nel 78,3% delle consulenze tecniche d’ufficio non vi è “nessuna considerazione della violenza, nel 43,9% dei casi vengono effettuati tentativi di conciliazione/mediazione tra i genitori e tra genitori e figli”. Nel 28,8% delle consulenze tecniche d’ufficio si rilevano valutazioni diagnostiche generiche del genitore, in gran parte della madre che viene definita “alienante, simbiotica, manipolatrice, malevola, violenta, incapace di elaborare quote di rabbia e rivendicazione, inducente conflitto di lealtà, fragile”, quando il figlio si rifiuta di vedere il padre violento.

Quindi che fare? Le proposte della Commissione sono:

– “Dialogo” tra cause penali sulla violenza e cause civili di separazione (previsto dalla riforma*);

– Il diritto alla “bigenitorialità” non può essere considerato superiore a quello del minore di viere in sicurezza e benessere (Convenzione di Istanbul);

– Più formazione specialistica in materia di violenza domestica e assistita per tutti gli operatori della giustizia (avvocati, magistrati, servizi sociali, forze dell’ordine);

– Se un uomo è violento, non può essere un buon padre. Evitare quindi l’affido e/o le visite;

– Ascolto diretto del minore da parte del giudice;

– Accertamenti tecnici: esclusione di teorie non riconosciute ed accettate dalla comunità scientifica (Pas);

– Evitare di allontanare bambini e ragazzi dalla casa materna con la forza pubblica se non si tratta di immediato pericolo di vita del minore;

– Sostegno alle donne che subiscono violenza, che per prima cosa devono essere credute.

Finalmente siamo giunte a mettere nero su bianco in atti ufficiali in Parlamento ciò che da anni in tante abbiamo denunciato. Ma la realtà dei fatti è che anche in questi giorni registriamo ancora figli allontanati dalle madri, sottratti con metodi disumani, portati in casa famiglia, come se fossero pacchi, oggetti insensibili, come se non vi fossero ripercussioni da certe esperienze. Nemmeno la salute e il benessere di questi bambini vengono tutelati. Quindi, è giunto il momento di porre fine nei fatti a questa violenza istituzionale che si abbatte su donne e minori. In questi ultimi mesi c’è un’altra Laura che sta lottando per riabbracciare suo figlio, lei ed altre hanno bisogno del nostro aiuto e di rompere il silenzio sulla violenza, perché le donne e i loro figli non siano considerati “roba” sotto il completo controllo e alla mercé dei desiderata del padre. Non voglio più sentire adoperare quegli aggettivi per lapidare le madri. Non voglio più sentire gente che vuole mettere sotto il tappeto esperienze di violenza familiare.

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Più fatti meno finta indignazione. A partire da noi

Tratto il tema da anni, sul mio blog ne ho scritto innumerevoli volte, partendo da me e da ciò che vivevo attorno a me. Smettiamola di indignarci se qualche imprenditore o imprenditrice esterna ciò che puntualmente e giornalmente avviene, che fa parte di una cultura aziendale di stampo ottocentesco, che volentieri tornerebbe ai tempi antecedenti al varo di norme a tutela delle lavoratrici madri o che semplicemente disciplinassero il mondo del lavoro per contrastare abusi e sfruttamento. Che però, nonostante le leggi, continuano ad avvenire, insieme a molestie e mobbing. Nel silenzio generale, che si interrompe se va bene in occasione dell’8 marzo, in cui si dicono due parole di circostanza. Nessun contesto lavorativo ne è immune, anche le istituzioni sono tagliate e organizzate su un modello di vita di stampo maschile, in cui non sono ammessi impegni personali, familiari e imprevisti che sperimenti in modo significativo solo quando hai carichi di cura sulle spalle, figli, genitori o familiari non autosufficienti. Queste cose “devi imparare a gestirle”, chi solidarizza, chi ti crede, chi ti ascolta? Donne contro donne, in una lotta inutile e vana a chi dimostra di essere più flessibile, affidabile ovvero disposta ad assentire sempre, subordinata e efficiente, multitasking. Donne contro donne pur di ricevere chissà quale beneficio dall’adesione a un tipo di organizzazione del lavoro imperniata su un abito patriarcale, maschilista, liberista, divoradiritti. Se vuoi lavorare, se vuoi contare, se vuoi avere un posticino devi adeguarti.

In quell’H24 è riassunto tutto un marciume di pseudo imprenditori e manager che impongono una linea che oggi più che mai appare inconciliabile con la vita, puro sfruttamento, puro schiavismo. Andiamo bene giovani perché così ci possono pagare poco o niente con la scusa di formarci, non andiamo bene giovani perché fonte di problemi quali matrimonio e figli. Donne e figli visti come problema, un peso, non come risorsa, non come qualcosa su cui investire, costruire futuro, ricchezza, occasioni, opportunità. Donne che devono essere assimilate da un sistema maschilista e sfruttatore, altrimenti sono out. Non esiste formazione continua tranne in rari casi e quindi se si lascia il lavoro dopo un figlio, rientrare è un percorso quasi impossibile. La soglia dei 40 come la descrive l’imprenditrice di cui si parla in questi giorni è anch’essa una semplificazione, perché non si capisce perché mai occuparsi dei figli o della famiglia debba avere un termine. Esserci o doversi curare di qualcuno, di scegliere tempi e modalità di lavoro per poter accompagnare un figlio nelle sue fasi di crescita non dovrebbe essere una roba a scadenza, almeno che la signora in questione non pensi che la maternità si limiti a un meccanico mettere al mondo i figli e poi delegare il resto a qualcun altro. Tutto si risolve scaricando su altri, se non si può e non si vuole si finisce tra gli scarti. Insomma, anche in questo si denota una visione materialistica della vita e della cura. Una roba gestionale, nulla di più. Ed è in questi meccanismi che anneghiamo più o meno tutti e tutte. Anche io. Basta organizzarsi mi dicevano. Fosse solo una questione di family plan. Nemmeno la pandemia ci ha fatto comprendere i limiti di questo sistema di corsa frenetica a riscaldare la sedia in ufficio per dimostrare di essere produttivi e collaborativi. Il mito della presenza in ufficio, il dover raccontare di avere la giornata stipata di impegni, retribuiti ovviamente, come motivo di orgoglio. Dobbiamo issare la bandiera di donne capaci di tenere in piedi tutto, come ironicamente e intelligentemente ci rappresentava Angela Finocchiaro. In questo incastro mangiavita ci perdiamo tutti e tutte. Noi donne in primis, pensando che sia sufficiente trovare il giusto contenitore per ogni aspetto, salvo imprevisti. Così i nostri figli si sono dovuti adattare ai ritmi di cui parla l’imprenditrice, con agende giornaliere piene di attività che devono riempire ogni angolo di giornata, oziare o non far nulla non va bene, bisogna produrre qualcosa sin da piccoli. Così poi ci si trova in lockdown tra perfetti sconosciuti e il cortocircuito è servito. La signora è l’emblema di una emancipazione in salsa maschile che se ne frega delle macerie attorno e sono certa che i risultati non siano buoni. Chi vive male e si sente fagocitato dal lavoro, produce poco e male. Un modello di lavoro che se non partecipi all’aperitivo o cena aziendale sei una reietta. Un modello in cui devi essere a disposizione dell’azienda h24 7/7. Non è una novità, quindi anziché indignarci, forse dovremmo agire per cambiarlo. Costruire un futuro diverso, partendo innanzitutto da noi, insubordinandoci e sottraendoci a queste logiche e prassi. Rifiutandoci di spiegare all’ennesimo uomo di turno perché non siamo disponibili e prone a qualsiasi richiesta, rifiutandoci semplicemente di seguire quel modello e stile di vita. Perché l’unica cosa sacra è il nostro tempo, che ha un valore. Tante persone non hanno avuto rispetto per il mio tempo, per me, agendo il loro potere e controllo per piegarmi, convincermi che se mi fossi comportata bene e fossi stata collaborativa sarebbe stato meglio per me, perché sarei stata premiata. Collaborare è dire “sì va bene” e mettere tutto in secondo piano, genuflettersi e accettare qualsiasi cosa, anche la più illogica, assurda, inutile, improduttiva. Pretendono le nostre scuse, fanno leva sui nostri sensi di colpa, sul sentirci sempre sotto esame e mai del tutto stimate per ciò che siamo e cosa facciamo. Ci mettono in competizione, donne contro donne, età contro età, fasi contro fasi, vite contro vite. Non c’è luogo in cui non sentiremo gli occhi puntati addosso, che rimarcheranno una nostra inefficienza, una qualche mancanza. Potremo aver fatto i salti mortali ma alla prima occasione in cui non riusciremo a stare al passo ci verrà fatta pagare. Ed in questo conflitto quotidiano con noi stesse e le altre, a misurare i cm che ci distanziano da una presunta perfezione, avremo perso tempo, momenti, vita, istanti e occasioni. Ci avranno fregato per benino. Sono anni che perdiamo diritti nel mondo del lavoro. Siamo arrivate a includere in un libro destinato a uno pseudo empowerment delle bambine, in perfetto stile pinkwashing e fintamente pro-parità, un personaggio come Margaret Thatcher, senza che nessuno si ricordasse cosa abbia rappresentato. Svegliamoci e evitiamo di far circolare cultura tossica e proporre come esempi personaggi del genere. Scegliamo bene le case editrici e i libri con cui generare, promuovere uguaglianza e cultura paritaria e fondata sul rispetto: basterebbe guardare l’offerta Settenove e non lasciar chiudere case editrici importanti come Matilda editrice. Ma anche qui siamo prone e subordinate a logiche commerciali e di puro pinkwashing, solo perché non siamo capaci di chiedere consiglio e di affidarci a chi ha più esperienza. Lavorare insieme è questo, altrimenti è pensare di avere a che fare con sudditi e schiavi.

Quindi è ancora una volta un problema culturale, di modello sociale e produttivo, di sistema che si pavoneggia con parole come “condivisione”, “parità” ma poi pratica discriminazione a go go contro le donne. In tutti gli ambiti. E le donne imparano prestissimo a incarnare quella cultura patriarcale, pensando di salvarsi. Pensano addirittura che declinando al maschile il loro titolo professionale possano raggranellare autorevolezza e essere accettate nel club a trazione maschile. Non sarà sufficiente sbandierare un po’ di femminismo appiccicato alla meglio se poi nella pratica ci si comporta come tante Maria Antonietta, intente a contemplare e ad agire il proprio potere, tra brioches e vita agiata. Nemiche tra noi perché educate a non aiutarci, a non ascoltarci, a farci la guerra per le briciole, che quando arriviamo a una posizione gerarchica superiore facciamo di tutto per invisibilizzare, silenziare, subordinare le altre. Ma Maria Antonietta sappiamo come è finita. È quel modello lì da monarche assolute che trasuda un ancien régime da mandare al macero. Ma dobbiamo essere disposte a non essere ossequiose con questi soggetti, a non voler spartire nulla con queste ancelle e con il potere maschile. A non credere che andrà tutto bene se osserveremo le loro regole e i loro diktat. Invece, molte, troppe di noi ci vanno sotto braccio e ne sono anche contente. Mi spiace, ma io non sto buona e tranquilla, se non lo avete capito, è arrivato il momento di terremotare il sistema. Partendo dal nostro quotidiano. Impariamo a dire no, sin da piccole, impariamo a insubordinarci a chi ci vuole controllare, a chi ci minaccia di ripercussioni. Questa è politica, POLITICA che deve saper dare risposte di fronte alla miseria di certa imprenditoria e di uno stato, di una società che scarica ancora tutto su un welfare familiare retto da donne. Vi ricordate Teresa Mattei e la sua espulsione dal PCI? Ecco, dobbiamo recuperare quella fierezza, coerenza, coraggio di Teresa. Saper agire il dissenso in ogni contesto, per non perdere ciò in cui crediamo, per non veder svilita la nostra dignità in cambio di briciole e di una esistenza sbiadita, fatta di una serie di compromessi al ribasso. Quindi, oltre la consueta indignazione, occorre agire in modo drasticamente differente! Perché poi quando ci troviamo discriminate e senza lavoro, siamo sole, cavoli nostri ed è questa la verità che dobbiamo avere il coraggio di raccontare e contrastare.

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Sette storie di donne che attraversano la Storia

Sette carte alla Regina di Dale Zaccaria, Nep Edizioni 2022

C’è un tratto nella narrazione dell’autrice, i personaggi sono dotati sia di bianco che di nero, non c’è un pregiudizio o un giudizio, oscillano spesso fra elementi positivi e negativi, risultano vicini e lontani, comprensibili ma anche insondabili, mai definitivamente circoscrivibili in una percezione semplice. C’è una profondità di caratteri, di vita, di emozioni, di sfumature. Ti sembra di coglierne l’essenza ma subito ti sfugge. Salvate forse, in gabbia, in fuga, in lotta, in cerca di una dimensione in cui poter essere realmente se stesse, ma poi ci si chiede se si siano mai conosciute veramente, se non avessero vissuto troppo per poter trovare una propria essenza, in mezzo al cammino. Sembrano uscire dalle viscere della terra, autentiche, senza filtri, donne narrate da Dale Zaccaria che sa portarle fuori dalle pagine, le plasma e le porta sotto il nostro sguardo che spesso fugge dalla realtà, che qui ci raggiunge e ci costringe a riflettere. Ci troviamo in questo viaggio e ci dobbiamo confrontare con la durezza della vita, le esperienze, le violenze in cui molte troppe volte annega la nostra umanità. Storie nella Storia, discriminazioni, stigmatizzazioni, attraverso gli anni recenti o più lontani. Un flusso narrativo che porta con sé tracce di Pasolini e di neorealismo, con una prosa che spesso cede spazio alla poesia, la prima arte per Dale Zaccaria, e lascia che prenda il sopravvento la passionalità, la visceralità della grandissima Regina, Franca Rame.

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Un accompagnamento per le madri adolescenti

Un momento dell’iniziativa in Municipio 7, foto a cura dell’autrice dell’articolo

Desidero condividere quanto emerso durante l’iniziativa tenutasi presso il Municipio 7, in occasione dell’incontro Insieme contro la violenza sulle donne lo scorso 25 novembre 2021.

Abbiamo incontrato la responsabile Margherita Moioli e la psicologa Elena Ierardi del Servizio d’Accompagnamento alla Genitorialità in Adolescenza (SAGA) dell’ASST Santi Paolo e Carlo di Milano, insieme a Terre Des Hommes e Università degli studi Milano Bicocca partner in questo progetto di sostegno a giovani mamme. Si tratta di un servizio pubblico gratuito ad accesso libero, senza necessità di impegnativa. Le operatrici del SAGA seguono mamme dagli 11 ai 21 anni, dalla gravidanza fino al secondo anno di vita del bambino: al momento sono 70, provenienti da tutti i Municipi di Milano (tranne l’1 e il 2) e dall’hinterland. Si tratta di un fenomeno in atto da anni, in cui probabilmente pesano i tagli cronici ai servizi sociosanitari territoriali, ad azioni di prevenzione e di educazione sessuale, alla contraccezione, alla maternità responsabile e consapevole, capacità di fornire alternative di vita e di progettualità differenti, più a misura di queste età. Ma non è solo questo, ovviamente. C’è un problema di fondo, una violenza intergenerazionale familiare che sfocia in quelle che le operatrici stesse definiscono “fughe” in cerca di un futuro diverso, con una gravidanza. Si cerca una rinascita attraverso una nuova nascita, ma sappiamo che la maternità è un percorso che mette di fronte a tante sfide e difficoltà. In alcuni casi è proprio il Tribunale dei Minori a inviarle al SAGA. C’è un lavoro di rete sia con gli specialisti ospedalieri che consultoriali e UONPIA. L’obiettivo è accoglierle, senza farle sentire giudicate o colpevolizzate. L’ascolto e il sostegno che troppo spesso mancano nella vita di tante donne.

Arrivano al SAGA quando la decisione di portare avanti la gravidanza è già stata presa in altri livelli di presa in carico. C’è da segnalare che su questa scelta probabilmente incide anche un accorgersi della gravidanza in una fase già avanzata: questo in parte può dipendere dalla scarsa informazione e consapevolezza sul proprio corpo e sugli aspetti legati alla sessualità. Si dà per scontato che le nuove generazioni sappiano tutto, in realtà ciò che sanno è molto spesso frutto di un passaparola, falsi miti che non sono corretti da informazioni qualificate.

Accade questo, nel 2021, a Milano, più che altrove in regione, perché evidentemente c’è un’infanzia e un’adolescenza che spesso vengono interrotte, segnate, abusate, caricate di qualcosa che non dovrebbe assolutamente pesare su queste giovani vite. Il 51% ha vissuto esperienze traumatiche (maltrattamento, trascuratezza, abuso, violenza assistita) in infanzia. Accade che si debba creare un servizio come questo, ed è più che mai necessario che ci sia, perché ci si è dimenticati di dare strumenti di protezione e opportunità di vivere la propria età. Accade che dietro questa esperienza spesso ci sia violenza, inconsapevolezza dei propri diritti, un consenso che non può essere tale e pieno a certe età. Si sottovalutano gli impatti di un vuoto di politiche educative di prevenzione precoci, sin dalla prima media, o forse ci si affida al caso, al destino, alla sorte. Nel 2021. Sappiamo che il destino non esiste e se accade che delle bambine o poco più debbano affrontare una gravidanza e la genitorialità è un fallimento di noi adulti, siamo noi i responsabili. Noi, che nonostante le dure battaglie delle donne negli anni ’70, con una legge come la 194/1978 e la contraccezione legalizzata nel 1971, negli ultimi anni siamo giunti a non fare prevenzione a sufficienza. Il nostro obiettivo è che si torni a farla in modo capillare e strutturale, perché a queste età la priorità deve essere lo studio, la crescita e la formazione individuale, la conoscenza  e la costruzione del sé, l’investimento sul proprio futuro, indipendenza, autonomia e libertà, soprattutto dalla violenza. Disinvestire in servizi pubblici porta a creare un vuoto difficilmente colmabile.

La genitorialità in adolescenza presenta un duplice rischio, tra maltrattamento subito e rischi di maltrattamento sul bambino.

I rischi per le madri evidenziati:

  • Stati depressivi fino al 50% maggiori rispetto alle mamme adulte
  • Stress elevato rispetto al proprio ruolo parentale
  • Modelli di attaccamento insicuri (il 64%) e disorganizzati
  • Bassi livelli di autostima
  • Violenza dal partner e assenza di relazioni affettive stabili.

I rischi per il bambino:

  • Più probabilità di attaccamento insicuro, evitante o disorganizzato
  • Ritardi nello sviluppo cognitivo, linguistico e motorio
  • Difficoltà nello sviluppo emotivo, nella capacità di riconoscere e regolare le emozioni
  • Abuso e trascuratezza
  • Disturbi della condotta
  • Antisocialità e atteggiamenti di delinquenza giovanile
  • Abbandono scolastico, difficoltà di apprendimento
  • Maggiori probabilità di diventare a loro volta genitori in adolescenza (nel 90% di casi hanno una storia familiare di genitorialità in adolescenza).

In Italia i nati da madri minorenni sono lo 0,4% di tutte le nascite annue. Sicilia, Campania e Lombardia sono in cima alla classifica per mamme tra i 14 e i 17 anni. In Lombardia si contano 1000 casi all’anno tra le under 22. Il fenomeno è in decrescita, anche se il lockdown ha visto un innalzamento in città, poiché molte famiglie hanno scelto di far convivere giovani fidanzati. Subito dopo il parto si avvia un percorso di contraccezione, ma occorre capire cosa accade dopo il periodo in cui le ragazze escono dall’accompagnamento del SAGA. C’è sicuramente un problema culturale, di aspettative e di modelli di riferimento, di cura di sé e di una consapevolezza in materia sessuale e del proprio corpo, che andrebbero maggiormente messi al centro dell’impegno di istituzioni ed enti. C’è il tentativo di non far perdere l’anno scolastico in gravidanza, facendolo rilevare come esperienza formativa; c’è a tal proposito la recentissima collaborazione avviata con la Cooperativa Zero-5 con il progetto IN BLOOM, per sostenere queste ragazze nel proseguo degli studi, orientandole nella formazione e nel lavoro. Si tratta di interventi ex post, riparativi, ma il lavoro politico che come istituzioni pubbliche dobbiamo fare è prevenire, intervenire prima, evitare abusi, violenze e maltrattamenti, a monte di una genitorialità precoce e precocissima dagli impatti pesanti sul futuro di due minori, madre e figlio. Se leggiamo una delle slide presentate, nell’80% di casi si tratta di gravidanze indesiderate, nel 30% c’è l’assenza di un partner, nell’85% avvengono in condizioni socioeconomiche svantaggiate, nel 60% c’è l’interruzione degli studi, l’80% non lavora, il 30% è a rischio di depressione post-partum e ansia. Si cerca di prevenire il rischio psicopatologico nelle mamme, di altre esperienze traumatiche, condizioni di maltrattamento e trascuratezza nei confronti dei bambini, situazioni psicopatologiche nei figli, favorire l’interruzione di trasmissione intergenerazionale del trauma, consentire uno sviluppo socio-emotivo più equilibrato nel bambino, sostenere il benessere psicologico delle mamme.

Si insegna a queste ragazze, spesso poco più che bambine, ad acquisire il ruolo di genitore. Non è sicuramente un percorso che si può concludere semplicemente nei primi due anni di vita del figlio, perché crescendo saranno nuove le sfide che si presenteranno e nuove le esigenze di mamme e figli, quindi ci si augura che il supporto in qualche modo continui e che i servizi sociali sappiano svolgere il proprio ruolo.

Simona Sforza

Consigliera Municipio 7 – Milano

Per qualche informazione in più, rimando ai siti:

https://www.asst-santipaolocarlo.it/s.a.g.a.-servizio-di-accompagnamento-alla-genitorialita-in-adolescenza

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Di cura e relazioni, nella vita e nella politica

Ringrazio Giorgia Serughetti che nel suo libro “Democratizzare la cura / Curare la democrazia” 2020, ha messo a fuoco e riflettuto sul tema della cura, ampliandone il raggio di azione e le implicazioni, facendomi conoscere il lavoro di Joan Claire TrontoCaring democracy”. È stata l’occasione per tornare su un tema che mi sta a cuore, su cui avevo scritto già nel 2014 nel mio blog.

“Quando si parla di lavoro di cura si intende normalmente, in senso stretto, il lavoro che risponde ai bisogni delle persone non autosufficienti: bambini, anziani, disabili, malati. Spesso, inoltre, la parola cura rimanda all’idea dell’accudimento, innanzitutto materno. Tanto che proporre la cura come categoria per ripensare la politica porta con sé un rischio non banale di fraintendimento: si sta forse facendo appello a un modello di Stato che si comporti come una madre verso i suoi figli?”

Ma cura e prendersi cura son passati nel tempo (anche se a volte il processo sembra incompleto e non così scontato) da una dimensione prettamente femminile, a qualcosa che interessa l’umano e dovrebbe pertanto investire un’ambito assai più vasto.


Per esempio Carol Gilligan sottolinea l’importanza di “rendere esplicita la natura di genere del dibatto giustizia contro cura… e di comprendere come il tema dell’equità e dei diritti interseca il tema della cura e della responsabilità”. “Non opprimere, non esercitare potere ingiustamente o avvantaggiarsi a scapito di altri”, sono ingiunzioni morali che vivono a stretto contatto con imperativi morali quali “non abbandonare, non trattare con noncuranza” o restare indifferenti a richieste di aiuto, nel quale rientriamo anche noi stessi. Equità e diritti sono il nocciolo delle normative. Gilligan scrive: “Se le donne sono persone e le persone hanno dei diritti, anche le donne hanno dei diritti”. Prendersi cura esige empatia, attenzione, ascolto, rispetto… La cura è un’etica relazionale basata su una premessa di interdipendenza. Non è altruismo”. 

Si potrebbe riallacciarsi al codice materno e paterno in senso pedagogico, ma corriamo il rischio di allontanarci dal nocciolo. Vorrei pertanto riprendere la parola care, che in inglese, come ci ricorda Serughetti, rimanda non solo alle “cure prestate dal servizio sanitario, dai servizi sociali o dalle famiglie, ma anche l’attenzione e la preoccupazione per gli altri, e l’avere qualcosa a cuore, tenere a qualcosa o qualcuno.” La cura, una categoria di cui si era occupato anche Heidegger.

Ma tornando a Tronto e alla sua estensione: “la cura è un’attività della specie che comprende tutto ciò che facciamo per mantenere, perpetuare e riparare il nostro mondo in modo da poterci vivere al meglio. Questo mondo include il nostro corpo, il nostro io e il nostro ambiente, che cerchiamo di intrecciare in una rete complessa e vitale.”

Si tratta di un complesso sistema di “manutenzione del vivente”. Al centro di tutto c’è l’individuazione dei bisogni, le priorità e il conflitto sulla definizione delle risposte ad essi. Ma fa bene Serughetti a sottolineare che spesso si è avuto un approccio dicotomico, che ha separato privato/pubblico, femminile/maschile, sfere trattate purtroppo come se fossero mondi distanti, senza vasi comunicanti. Il “deficit di cura” di cui si parla nel testo di Giorgia Serughetti, emerso ancora di più in pandemia, è per me frutto di una sorta di senso di autosufficienza dell’essere umano postmoderno, un post post positivismo estremo di fiducia in una sorta di autoregolamentazione delle forze e delle soluzioni, spesso sempre più blande, contraddittorie e a macchia di leopardo. L’ideologia di una società in cui grazie al nostro cerchio di privilegi personali, si potesse trovare la cura ai nostri bisogni, diventati personali, personalissimi, sempre più raramente dal respiro collettivo. Il resto non è stato mai oggetto di cura, non c’è stato un prendersi a cuore qualcuno o qualcosa “altro”, che dovrebbe essere a monte della stessa cura, dovrebbe precederla, perché al principio vi deve essere “assunzione di responsabilità”, come il guardare oltre che il vedere. Fondamentale è comprendere come “diseguaglianze nell’accesso alle cure… sono il prodotto di sistemi discriminatori di distribuzione di risorse e opportunità. E ci sono disuguaglianze tra gli attori coinvolti che sono spesso imputabili a un differenziale di potere sociale.” (ibidem Serughetti). Questo è territorio della politica e del senso che noi diamo alla democrazia. Non è negando le differenze e le disuguaglianze che potremo dare risposte o fingere che importi qualcosa a chi ci rappresenta. Quindi, di fronte a una crisi della cura, occorre “ripensare la cura attraverso le procedure e i principi della democrazia.” e direi anche della partecipazione e del senso di appartenenza alla comunità democratica.

Tronto, come scrive Serughetti, delinea quattro fasi:

– Caring about: riconoscimento dei bisogni che richiedono attenzione;

– Caring for: l’assunzione di una responsabilità per rispondere a tali bisogni;

– Care-giving: cura effettiva erogata a beneficio di chi ne ha bisogno;

– Care-receiving: le risposte dei beneficiari alle cure ricevute.

Poi c’è una fase molto importante “caring with”: riguarda una dimensione collettiva, di tutta la cittadinanza che deve poter “partecipare a processi democratici di allocazione delle responsabilità di cura, assicurando che chiunque possa avere voce in queste decisioni.” Serughetti fa bene a sottolineare il punto di partenza: per prima cosa occorre porsi le domande giuste, capire quali sono i bisogni vitali, quelli riconosciuti o ancora ignorati. Individuare la figura o l’organismo istituzionale preposto a prendersene cura e i costi. Compito della politica è formare la cittadinanza a questo esercizio che non ammette deleghe in bianco, ma un ruolo attivo. Ma essere impegnati/e a sopravvivere fa venire meno questi aspetti, riduce tutto a una accettazione di soluzioni calate dall’alto, incomprensibili e spesso lontane.

Chi sceglie di intraprendere la strada dell’attivismo politico deve misurarsi quotidianamente con le dimensioni della cura, evitando di liquidare istanze e bisogni come marginali, secondari solo perché non provenienti da gruppi egemoni o da detentori di potere economico o sociale, oppure non funzionali al mantenimento della propria posizione nelle istituzioni. Alla base di ogni impegno politico ci dovrebbe essere la domanda “Mi importa, mi preoccupa, me ne voglio assumere la responsabilità, sono consapevole della responsabilità che implica?”

Da qui parte il mio impegno, con il mio bagaglio di esperienza per dare voce e far valere quelle voci nelle sedi decisionali. Per una emancipazione e un cammino democratico collettivo, che non tenga separati i livelli, gli ambiti e non trasmetta l’idea di una politica e di una democrazia artificiali, distanti, avulse dalla realtà delle nostre vite. Imparare a esercitare il nostro ruolo di cittadini e cittadine, i diritti e gli oneri che questo reca con sé: questo il percorso e il progetto che vorrei realizzare. Imparare a comprendere tutte le sfaccettature del mondo e della cura, affinché gli interventi da mettere in campo tengano conto degli intrecci e delle connessioni. La pandemia dovrebbe insegnarci questo, per non tornare a ciò che ha portato “la crisi della cura”, che ha confuso il senso di giustizia e libertà, priorità e urgenze, diritti e doveri.

Se volete conoscere meglio il mio progetto per il Municipio 7 di Milano, mi trovate qui

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Smettetela di farci la festa

Un libro che ci aiuta a fare il punto in tema di discriminazioni di genere. Un libro che ci aiuta a riflettere su quanta strada abbiamo ancora da fare, quanto sia complesso il nostro percorso per difendere i diritti acquisiti e lavorare sul cambiamento.

Leggere “Smettetela di farci la festa” di Stefania Spanò – Edizioni People 2021 è stato come ripercorrere gli ultimi anni, perché il lavoro di Stefania Spanò è stato il filo rosso che ha contraddistinto e accompagnato tanti passaggi, tutti i momenti in cui le donne sono dovute tornare a lottare, a ribadire concetti e diritti che sembravano acquisiti, o per evidenziare come in realtà i nodi da sciogliere aumentavano anziché diminuire. Ogni vignetta segna un momento, un fatto, un’istantanea di una condizione che sembra immobile o quasi, un riapparire di discriminazioni che dai fatti alle parole sembrano fagocitare le donne. Stefania Spanò è riuscita a tradurre in modo dirompente ciò che le donne sentono e vivono quotidianamente. Lo ha reso con una manciata di parole e con Anarkikka, una nessuna e centomila, come noi siamo. È riuscita a dare voce a ciascuna. Ha tramutato ogni colpo, ogni ferita in un linguaggio che non si arrende, che non si piega e che, come una mimosa, resiste e fiorisce con forza. È come se Anarkikka ci chiamasse tutte, una ad una, ad unirci e a non lasciare che le parole, i femminicidi, la narrazione tossica e l’indifferenza ci travolgano, ci tolgano voce, ci sottraggano spazi di vita e libertà.

Anarkikka è capace di disinnescare l’assuefazione alle discriminazioni e alle violenze di genere. È capace di portarci a riflettere e a comporre in noi una consapevolezza, capace di fermare il flusso e il susseguirsi continuo di informazioni. La testimonianza di come fermandoci riusciamo a osservare bene i fenomeni e la realtà. Anarkikka compie una educazione alle relazioni, ai sentimenti, una rielaborazione di ciò che si crede sull’amore, su quanto ci costruiamo sopra e su come ci viene trasmesso.

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Come sta il lavoro delle donne?


“Se si comparano le carriere delle donne che hanno avuto un figlio con un gruppo di lavoratrici simili ma senza figli, a quindici anni dalla maternità, i salari lordi annuali delle madri crescono di 5.700 euro in meno di quelli delle donne senza figli rispetto al periodo antecedente la nascita”.

Questo il bilancio del presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, in occasione della presentazione della Relazione annuale.

La scoperta dell’acqua calda, ma se lo affermo io singola sono la solita lamentosa e colei che vede sempre il bicchiere mezzo vuoto. Diverso se lo dice una fonte ufficiale, diverso è se sempre più donne se ne accorgono, ne parlano, denunciano e non stanno lì a giudicarsi l’una con l’altra senza far niente di concreto per cambiare le cose. E siccome il personale è politico, forse occorre che a questo punto ci sia una rivoluzione e un movimento collettivo che chieda alle Istituzioni di questo Paese di intervenire. Perché di report, numeri e percentuali non si vive.

Non è che ci piace assentarci, è proprio che non c’è alternativa, e spiace che in molte se ne siano accorte solo in era Covid, quando non hanno più potuto mandare i figli anche se malati a scuola. Ma è sempre tutto un problema di carichi di cura suddivisi in base al genere, perché forse il monte ferie e permessi delle donne che hanno figli potrebbe non essere intaccato in questa misura se anche il compagno/padre si assentasse anche lui.

La legge prevede per i genitori 6 mesi di astensione facoltativa dal lavoro: fino ai 6 anni si ha diritto al 30% della retribuzione. Dai 6 agli 8 anni resta questo 30% solo se il reddito individuale del genitore richiedente “è inferiore a 2,5 volte l’importo annuo del trattamento minimo di pensione ed entrambi i genitori non ne abbiano fruito nei primi sei anni o per la parte non fruita anche eccedente il periodo massimo complessivo di sei mesi”. Dagli 8 ai 12 anni non si ha diritto ad alcuna indennità.

Tale congedo parentale spetta per un periodo complessivo tra i due genitori non superiore a dieci mesi e può essere fruito anche contemporaneamente.

Ma non è solo un problema di congedi, perché chi ha la possibilità, per poter conciliare, sceglie il part-time e nella stragrande maggioranza sono le donne.

Infatti Tridico aggiunge: “I salari settimanali crescono del 6% in meno, le settimane lavorate in meno sono circa 11 all’anno e l’aumento della percentuale di madri con contratti part-time è quasi triplo rispetto a quello delle donne senza figli. Gli effetti della maternità sono pertanto evidenti e si manifestano non solo nel breve periodo, ma persistono anche a diversi anni di distanza dalla nascita del figlio”.

In pratica, quando ci raccontano che superato lo scoglio degli anni della prima infanzia, tutto potrà tornare a girare più o meno come prima, ci racconta l’ennesima favola. Perché gli effetti di queste difficoltà hanno strascichi lunghi. Il presidente dell’Inps suggerisce: “Sarebbe utile prevedere ad esempio uno sgravio contributivo per donne che rientrano in azienda dopo una gravidanza, aiutando così l’occupazione femminile e riducendo le possibilità di indebite pressioni sulle scelte delle lavoratrici. Per ogni neoassunta, entro tre anni dall’assunzione, che vada in maternità e rientri al lavoro, l’azienda otterrebbe un esonero contributivo per tre anni“.

Il solito pannicello caldo, utile sul momento, finché ci sono fondi per coprire la misura, ma che non interviene sulle cause strutturali e culturali a monte del divario di genere nel mondo del lavoro: nulla cambia sugli equilibri uomo-donna, i compiti di cura restano appannaggio quasi esclusivo delle donne, tranne alcuni casi, non si spinge verso un cambiamento concreto delle abitudini quotidiane.

 

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Doppia violenza. Quando le istituzioni creano ostacoli

Fonte Freepik


Quanto costa denunciare? Quanto irto di ostacoli diventa poi quel percorso? Perché, ancora oggi, permane un carico pesante da sopportare per le donne sopravvissute alla violenza o che stanno cercando protezione per sé e i propri figli e un aiuto per uscirne? Da cosa è composto quel cumulo di rivittimizzazione?

La parola e i racconti delle violenze vengono sempre messi in discussione. In quanto donne è come se dovessero sempre dimostrare infinite volte l’attendibilità, la coerenza di ciò che denunciano. Su questo si sofferma la guida a cura di CADMILa doppia violenza – Violenza sulle donne, istituzioni e vittimizzazione secondaria.

 

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Un mondo illusorio in cui tutto sembrava risolto (o quasi)


Sulla questione del numero di donne che ogni anno lascia “volontariamente” il lavoro dopo la maternità (dato che purtroppo non fotografa il sommerso di chi un contratto non ce l’ha) ho scritto molte volte sul mio blog. In quest’anno strano faccio fatica a scrivere. Ma avrei due pensieri. Questo report in materia di provvedimenti di convalida delle dimissioni e risoluzioni consensuali di lavoratrici madri e lavoratori padri (Relazione annuale sulle convalide delle dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri) fotografa le dimissioni annuali, ma sarebbe utile indagare sul dopo, su quando e se queste donne sono riuscite a rientrare nel mondo del lavoro e a quali condizioni, con quali equilibri e modalità. Infine, a distanza di anni da quel modulo a fini statistici che anche io ho dovuto compilare davanti a un’impiegata che se fosse stata un robot sarebbe stata più empatica, nessuno mi ha mai chiesto come me la passassi, se avessi bisogno di un supporto per rientrare, se col tempo ero riuscita a risolvere i miei problemi e avevo trovato un equilibrio. Nessun ente, persona mi ha mai aiutata a non sprecare ciò che avevo appreso in anni di studio e in 10 anni di lavoro. La cosa che fa più danni è la solitudine di queste storie. La cosa che fa più male a distanza di tempo è sentirsi ancora dire “arrangiati”, “sii flessibile”, sei tu che non ci riesci e sei troppo debole”. E tutto il mare di donne che hanno in questi giorni avversato lo smart working fanno ancor più un effetto macigno. Perché se me lo avessero concesso, io non sarei stata costretta a dimettermi. Meditate. Non è mai soltanto una questione privata e ed esclusivamente personale. Riguarda una società che fatica ad occuparsi di fenomeni evidenti, preoccupanti, ad alto tasso discriminatorio. Una inesorabile emorragia, in crescita nel 2019, per la maggior parte di carattere femminile: 37.611 (circa il 73% del totale), (nel 2018 erano state 35.963).

“Fra le motivazioni delle dimissioni/risoluzioni consensuali addotte da lavoratrici e lavoratori (in sede di colloquio con il personale addetto al rilascio del provvedimento di convalida, volto a accertare la genuinità del consenso) la più ricorrente è rimasta la difficoltà di conciliare l’occupazione lavorativa con le esigenze di cura della prole, registrata in 20.730 casi (20.212 nel 2018), in percentuale pari a circa il 35% del totale, sostanzialmente in linea con quella dell’anno precedente (36%).

Tale motivazione si è sostanziata, in particolare, in:

− assenza di parenti di supporto in 15.505 casi (15.385 nel 2018), pari a circa il 27% del totale, percentuale coincidente con quella dell’anno precedente;

− elevata incidenza dei costi di assistenza al neonato (es. asilo nido o baby sitter) in 4.260 casi (3.907 nel 2018) pari a circa il 7% del totale, dato corrispondente a quello del 2018;

− mancato accoglimento al nido in 965 casi (920 nel 2018), pari a circa il 2% del totale, percentuale identica a quella rilevata nel 2018.”

Pesano anche fattori concernenti l’organizzazione e le condizioni di lavoro, particolarmente gravose o difficilmente compatibili con la cura dei figli.

Accogliere sorprese anno dopo anno certi dati è indice di quanto poco presenti a noi stesse siano certe esperienze, di quanto possano prima o poi riguardarci da vicino. E se le nuove generazioni di donne percepiscono questo disastro come casi marginali, isolati, rari, inciampi di persone poco adatte al mercato del lavoro, se pensano che oramai la loro vita lavorativa non incorrerà mai in simili sventure, in tali muraglie non aggirabili, allora abbiamo sbagliato qualcosa nella trasmissione intergenerazionale di quanto ancora enormi siano divari, discriminazioni sulla base del genere. Abbiamo sbagliato anche a non renderlo parte centrale delle nostre battaglie di donne e di femministe. Di quanto la “cura” sia tutto sommato tuttora a carico delle donne, con gli uomini che partecipano ma fino a un certo punto, mai fino ad intaccare il loro cammino di vita e di lavoro, le loro passioni o hobby. Quello resta territorio sacro, mai sacrificabile. Dare una mano significa già dare per scontato che in ogni caso resterà in carico alle donne. Il limite di tutto questo è che anziché dare impulso a una compatta e solidale battaglia per interrompere questa china negativa, restiamo ognuna, ciascuna concentrata sul proprio caso, alla ricerca di una toppa che possa risolvere la situazione personale. Il fatto che tutto o quasi tutto cambi in funzione degli aiuti familiari a disposizione, dimostra come ci sia un gap di welfare pubblico e di come anche questo non sia tutto. Perché ci vuole comunque un nuovo disegno dei tempi di vita e di lavoro. Ci vuole un nuovo equilibrio e patto collettivo, affinché non ci siano più scelte obbligate, che mangiano desideri, progetti, energie. La vita non può passare rinviando tutto in funzione di un mercato del lavoro tanto fragile, incapace e sordo ai cambiamenti. Le nostre energie dissipate spesso in lotte intestine, a chi si intesta le battaglie per poi non cambiare niente, se non per ritagliarsi spazietti di microinteressi personali. Le nostre energie a spiegare che non abbiamo raggiunto proprio nemmeno un decimo degli obiettivi accolte dai ragazzini e dalle ragazzine come qualcosa di anacronistico e antico. Accorgersene quando si è già dentro il problema è già troppo tardi. E basta a ripeterci che il lavoro c’è, anche tra noi donne, quando sappiamo che ad ogni nuova crisi siamo sempre noi le prime a pagarne gli effetti negativi e a retrocedere ulteriormente. Nei dialoghi a scuola si oscilla tra la negazione e una rimozione, salvo poi riuscire a verificare anche nel proprio micro ambiente familiare quanto la questione discriminazione e la miriade di scelte obbligate siano molto presenti. Questa presenza si sedimenta e anziché sfociare in una ribellione, assistiamo a una rassegnazione alquanto diffusa, una rimozione che non fa altro che conservare quel sistema padronale, paternalistico e patriarcale del “tornate a lavurà e zitte”. Prendere o lasciare anche a scapito di tutto il resto, ciechi e disposti a rinunciare via via a sempre maggiori diritti pur di portare a casa qualcosa. Altro che lotta di classe. Qui siamo alla narcolessia della lotta, quando arriviamo a sentire la mancanza dell’occhio del padrone.. quando difendiamo indifendibili uscite politiche e istituzionali per ordini di scuderia. Per non arrolvellarci troppo su alternative che magari potrebbero solo farci bene e portarci nuovi modelli. Nemmeno il Covid ha spalancato le porte all’urgenza di ripensare e ribaltare tutto. Ci sono meccanismi che devono essere rivisti. Non soluzioni tampone o reti di protezione fai da te, ma un ripensamento di tutta la costruzione delle nostre esistenze, del sistema pubblico di sostegno alla genitorialità. Non è solo nelle mani del buon padre imprenditore il futuro, perché che sia piccola, media o grande impresa, è tutto nella cultura di chi organizza il lavoro e di come lo concepisce in chiave di produttività. Se ci si occupasse di benessere e di soddisfazione del dipendente, non credo che si troverebbe una situazione rosea e la bassa produttività avrebbe alcune chiare spiegazioni. Di fronte a tanti bivi, difficoltà, progetti di vita rinviati, lavoro mangia tempi di vita, nessun potere contrattuale, non ci si può aspettare risultati positivi e prospettive positive.

Quindi meno sguardi di sorpresa e più tentativi di comprendere i fenomeni e monitorarli nel tempo, ascoltando e accompagnando chi in questi report è solo un numero statistico ma ha diritto a non essere perso per strada. Così ci siamo persi anni di opportunità di intervenire. Non rinviamo di un altro anno.

I richiami internazionali intanto non cessano: il Comitato europeo dei diritti sociali (Ceds) del Consiglio d’Europa si è espresso sul reclamo presentato dall’ong “University Women of Europe” che contestava a 15 dei 47 Stati membri dell’organizzazione paneuropea di non rispettare il diritto delle donne alla parità di retribuzione e alle pari opportunità professionali: “l’Italia ha violato i diritti delle donne perché ha fatto insufficienti progressi misurabili nel promuovere uguali opportunità per quanto concerne una pari retribuzione”. Solo la punta dell’iceberg, in cui se sei sola, senza welfare pubblico o familiare, senza patrimonio pecuniario o una dote di relazioni tali da poterti ricollocare facilmente, sei automaticamente espulsa dal mercato del lavoro. Non importa l’esperienza, le doti, i sacrifici che hai fatto o sei disposta a fare. Non crediamo mai alle donne che ci dicono che basta volerlo.

Cercasi opportunità, questo spesso manca in un Paese in cui devi avere le spalle coperte per non essere marginalizzato.

Contano sulla nostra stanchezza, sulla nostra solitudine, sul fatto che non rovineremo mai la festa a un sistema che è tuttora tanto diseguale e discriminatorio, imperniato di metodi annientanti e ricattatori.

Anche l’ultimo rapporto Istat ci restituisce un quadro in cui le disparità, i carichi di cura e di lavoro domestico sono assai sbilanciati. Il Covid ha solo creato una frattura più ampia e visibile, a cui non si può risolvere a suon di bonus, voucher, servizi per l’infanzia ed educativi, perché lo abbiamo più volte sottolineato, le leve devono essere altre, in una rivoluzione dei tempi, dei compiti, dei modelli organizzativi in azienda, di cambio di mentalità, di una genitorialità diversa, perché sinora tutto si è retto sul sacrificio di qualcuno, in primis donna e a seguire nonni (forma di welfare tipicamente italico). Prendersi in carico politicamente la questione dell’occupazione femminile significa finalmente sedersi attorno a un tavolo e ascoltare le donne, soprattutto quelle che sono state costrette a uscire dal mercato del lavoro o ad accettarne le mille storture. Un piano non può che partire da esperienze reali, perché qualsiasi impatto di genere delle politiche non può solo avere un approccio meccanicistico, ma implica un’osservazione di come ci deve essere un mix di politiche che siano il più possibile a misura di ciascuna storia e situazione, che permettano una genitorialità agita e consapevole, senza che si dia come mera soluzione quella di delegare in toto ad altri soggetti o servizi. La politica deve pensare che la normalità non devono essere le acrobazie, ma un ritmo e un modello di vita più umano e volto al benessere di tutti i soggetti. Soprattutto, dopo aver sciorinato dati e statistiche, occorre che si metta mano alla realtà e si cerchi di osservare la realtà da vicino, senza che le persone restino numeri che se la devono poi cavare da sé, dopo la costernazione di rito. Siamo un po’ saturi di dover assistere periodicamente alle lacrime di coccodrillo di chi promette sempre soluzioni a breve, tanto poi nulla cambia. Intanto, molte risorse in questo paese ammuffiscono e si spiana la strada a un sistema che premia solo chi è genuflesso, disposto a sacrificare diritti e qualità della vita, una neoschiavitù che conta su tanto lavoro sommerso e invisibile. La partecipazione delle donne è un diritto costituzionale, a cui non abbiamo mai dato molto peso. A chi stiamo delegando la rappresentanza delle donne? Con quanta compattezza e collaborazione reciproca stiamo agendo? Perché in tanti anni abbiamo permesso le emorragie di donne dalla vita attiva, tollerando che situazioni positive fossero appannaggio di poche e che soltanto per alcune ci fosse qualche vantaggio? A me viene in mente solo una cosa, un sistema patriarcale e conservatore che ha mantenuto in piedi questo meccanismo illusorio, su cui di generazione in generazione ci siamo adagiate, non comprendendo bene l’operazione in atto. A molte donne è sembrato sufficiente ed equo così, in una bolla in cui alla fin fine ci si doveva salvare da sé e per sé. Il Covid ha fatto scoppiare molte di quelle bolle ed ora siamo di fronte a un disastro che si è fatto finta di non vedere per decenni. Abbiamo rinunciato a tanto, ora cerchiamo di prendere coscienza dei costi che abbiamo pagato pensando che tutto sommato non c’erano alternative e che il modello fosse il migliore possibile. Quel modello ci ha rubato tanto, ci ha sottratto tempo, energie, entusiasmo e pezzi di vita importantissimi. Fa tristezza doverci dividere sempre su altri fronti, senza prendere in mano la realtà e accorgerci di come sia sdrucciolevole la vita da equilibriste. Focalizziamoci su aspetti e su lotte che possono vederci insieme e non permettiamo a niente e a nessuno di fermarci o di dirottarci su binari che non ci portano da nessuna parte. Non lasciamo affondare nei numeri dei report le nostre esistenze, non accontentiamoci mai. Perché il rischio è che anche dopo il Covid ci lasceranno le briciole. E che nessuno si permetta di lamentarsi della continua decrescita della natalità, stando alle condizioni attuali di vita.

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Coronavirus. La lotta per i diritti in tempi di emergenza

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Hana Shafi’s ‘Tireless Mural’ @womensart1

In questi giorni di ordinanze da Coronavirus abbiamo avuto modo di pensare e di ripensare a modelli, stili e abitudini di vita, conoscendo un po’ di più anche gli anfratti invisibilizzati e negati dei nostri equilibri precari e delle nostre fragili certezze.

Chi ha voluto e potuto lasciarsi andare a una riflessione sul proprio quotidiano avrà sicuramente avuto modo di guardare in faccia le tante storture e adattamenti obbligati in cui siamo costretti da un’organizzazione del lavoro che non sempre fa bene alla nostra vita privata e al nostro benessere.

Approcci comunicativi non sempre coerenti e spesso contraddittori non ci hanno permesso di avere uno sguardo razionale a questa emergenza. Insomma, il solito cortocircuito a cui la politica e non solo ci hanno abituato, polarizzando ogni tema, fenomeno e dibattito, senza mai ottenere dei buoni risultati in termini di corretta percezione. Nemmeno le voci del mondo scientifico hanno fatto breccia con efficacia, riuscendo a farci ragionare sulla necessità di determinate misure di contenimento della diffusione del virus.

Che poi tra un “non fermiamoci” e un interesse prioritario alla tutela della salute collettiva ci siamo un po’ persi e scontrati, senza riuscire a mettere in atto una regola fondamentale, ovvero che non esiste alcun diritto se prima non viene garantito e tutelato il diritto alla salute.

Quindi con qualche temporanea rinuncia a livello personale dovremmo aver compreso e accettato di buon grado quanto positive potrebbero essere le ricadute per una dimensione, quella collettiva, spesso trascurata, snobbata, negata.

Abbiamo ampiamente dimostrato che non siamo in grado di abbracciare questa importante e basilare linea di comportamento.
Al posto del lamento dei profitti e del lavoro perso, avrei preferito leggere più pensieri legati a una presa di consapevolezza delle cose realmente importanti.

Per questo parto dalla mia dimensione personale e desidero condividere con voi un pezzo di queste giornate da pseudo “quarantena”, con un post che ho scritto il 24 febbraio sul mio profilo Facebook:

“Mia figlia che si sveglia canticchiando… rallentiamo, prendiamoci questi momenti di “pausa” per ricaricarci e recuperare un po’ di buon umore, che non esistono solo i dané (li terrése) e gli aperitivi, che se non andate al ristorante o al cinema o non fate il weekend fuori porta vi sentite male, ma esistono le coccole, le letture a quattrocchi, gli abbracci, i tempi lenti, tornare a parlare in famiglia, che quando sono a scuola 40 ore la settimana (come se fossero lavoratori full time) e tornano tramortiti, non c’è la serenità né il tempo per farlo. (…) Che magari iniziamo a capire come meglio riorganizzare anche il lavoro e capiamo che lo smart working forse migliora la qualità della vita. Che tanto la produttività non va di pari passo con il tempo impiegato a scaldare la sedia. Che pensare che più tempo a scuola non sempre corrisponde a una formazione di qualità.”

Cosa sono per me questi giorni di pausa, in cui gran parte delle cose che avevo pianificato e programmato sono saltate?
Sono essenzialmente tempo per riflettere su tanti piccoli grandi aspetti della mia vita, che già di suo ha subito negli anni numerosi cambiamenti, stravolgimenti, riadattamenti continui, tanto che forse mi sono abituata all’idea del non poter controllare tutto e che nulla è immutabile.

Sin dai tempi dell’università ho adottato una sorta di flessibilità, di adattamento continuo a seconda delle materie da studiare. Cosa che mi è servita poi nel mondo del lavoro e nella mia multiforme capacità di adattamento. Sono un po’ camaleontica per necessità e ogni passaggio è stato frutto di una scelta tortuosa, complessa, a volte obbligata, ma alla fine ho sempre cercato di ripristinare un equilibrio, consapevole di quanto fosse comunque precario. I momenti in cui sbuffi, ti lamenti, ti opponi ci sono, ma poi in qualche modo occorre trovare una soluzione che riusciamo più o meno a indossare senza troppi fastidi. Che se ci strizziamo per farci rientrare in un vestito “troppo stretto” di vita e lavorativo non va affatto bene.

In questi tempi è emerso ancora una volta come il carico di cura sia tuttora assai sbilanciato e a carico delle donne. La chiusura delle scuole, necessaria e ineludibile, ha creato non pochi problemi di gestione e di conciliazione, come d’altronde accade in caso di malattia dei figli o di scuola chiusa per vacanze. Chi non ha i nonni o entrate sufficienti per una tata si è trovata di fronte ai consueti problemi, eppure se ci pensiamo, sono gli stessi di prima, allorquando la scuola non può essere la soluzione ad ogni problema di conciliazione. Qualcuno, come il Moige, ha provato a proporre qualche richiesta (che va bene, a patto che i permessi non siano ad esclusivo carico delle madri).

Il non poterci permettere interruzioni, che non fa rima solo con il precariato o con contratti strambi o col lavoro autonomo: questo è il nocciolo del problema. Pensare che noi coincidiamo e siamo il nostro lavoro, un altro pezzo del problema.

Pensare che il nostro valore e la nostra priorità sia il nostro lavoro e quanto ci rende. Quando c’è un valore negato a tante attività “gratuite”, di cura, di solidarietà, di sostegno sociale, che sono invisibili ma vanno a creare valore, colmare i vuoti, permettere che l’economia visibile possa mantenersi in piedi.

Il richiamo e l’invito allo smartworking in questi giorni si è fatto necessità, per cause di forza maggiore oggi si scoprono modalità di organizzazione del lavoro alternative, spesso mal digerite da tanti vertici aziendali che preferiscono vedere il gregge a sformare le sedie piuttosto che riorganizzare il lavoro.

 

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QUI UNA VERSIONE LUNGA DELLE MIE RIFLESSIONI

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Lo Stato della parità


Vorrei riuscire a scrivere di good news, ma proprio mi manca il materiale. Ci arriva in questo primo scorcio di 2020, la non notizia per cui il Consiglio d’Europa condanna l’Italia nel suo rapporto Grevio, annotando che “la causa dell’uguaglianza di genere incontra ancora resistenze nel paese e che sta emergendo una tendenza a reinterpretare e riorientare la nozione di parità di genere in termini di politiche per la famiglia e la maternità.” Si aggiunge come tali ostacoli si manifestino anche in ambito scolastico, dove non c’è un intervento sistemico sul tema, anzi spesso avversato. La consapevolezza sulle questioni di genere non si costruisce improvvisando o negando la necessità di intervenire nel’educazione delle nuove generazioni e nella formazione universitaria. Quindi dopo l’ennesimo richiamo, come se nulla fosse, tiriamo dritti. Assorbiamo anche i dati sui gap con una facoltà metabolica formidabile, nemmeno i dati del mondo del lavoro, che di anno in anno vengono confermati, ci fanno reagire.

Nemmeno quando la situazione è stra-conosciuta e monitorata da anni: “Dal 2011 al 2017 165.562 donne hanno lasciato il lavoro soprattutto per le difficoltà di mettere d’accordo pannolini e ufficio. E vanno aumentando: erano 17.175 nel 2011 e nel 2017 sono salite a 30.672. Tre su quattro – tra quante si sono dimesse – sono mamme lavoratrici: il 77 per cento del totale, secondo i dati 2017 dell’Ispettorato nazionale del lavoro.”

Per comprendere meglio come si consolidano certi trend negativi, leggiamo uno stralcio dal Sole24Ore:

“Una ragazza su quattro con meno di 30 anni non studia e non lavora . Ancora oggi il 16% delle ragazze meridionali non finisce la scuola, contro il 10% del nord e l’8% di chi vive nelle regioni del centro.

Una nota di Istat mostra che oggi la metà delle donne con due o più figli fra i 25 e i 64 anni non lavora. Fra le coppie giovani che hanno figli solo nel 28% dei casi lavorano entrambi a tempo pieno, il che significa che possono permettersi servizi di accudimento. Una donna su dieci con almeno un figlio non ha mai lavorato , per dedicarsi completamente alla cura dei figli, la media europea è del 3,7%. Al sud ha fatto questa scelta una donna su cinque con almeno un figlio (…).

D’altro canto avere un figlio cambia molto di più la vita professionale di una donna rispetto a quella di un uomo. Alla domanda “fai fatica a conciliare lavoro e famiglia?” la percentuale di uomini e di donne che hanno risposto di sì è la stessa, ma alla prova dei fatti il 38,3% delle madri occupate, oltre un milione, ha dichiarato di aver apportato un cambiamento, contro poco l’11,9% dei padri, circa mezzo milione di uomini.”

Il pericolo di un passo da gambero lo intravede anche l’EIGE:

“I progressi sulla parità di genere non possono essere dati per scontati”, ha affermato Virginija Langbakk, direttore dell’EIGE. “I governi devono aumentare il potere e fornire risorse adeguate ai meccanismi istituzionali che promuovono la parità di genere”. Sebbene tutti gli Stati membri dispongano di organi governativi per la parità di genere, “molti di essi sono stati retrocessi nella gerarchia governativa e le loro funzioni sono diminuite. Le tendenze dell’ultimo decennio hanno portato alla fusione di organismi indipendenti per la parità di genere con altre organizzazioni antidiscriminazione.

L’impegno per l’integrazione della dimensione di genere si è indebolito dal 2012, con solo un quarto degli Stati membri che hanno ottenuto ottimi risultati in questo campo. E mentre la maggior parte degli Stati membri dispone dei metodi e degli strumenti per raccogliere dati disaggregati per genere, la produzione e la diffusione mancano in diversi paesi. Ciò può rendere difficile valutare adeguatamente la situazione della parità di genere.

“Se vogliamo vedere progressi, l’uguaglianza di genere deve essere intrecciata in ogni fase di tutti i processi politici, dalla raccolta di dati disaggregati per genere alla valutazione sensibile dell’azione di genere dell’azione del governo. Questo è l’obiettivo dell’integrazione della dimensione di genere, a cui il Gli Stati membri dell’UE si sono impegnati dal 1995 quando hanno adottato la piattaforma d’azione di Pechino alla Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulle donne “, ha dichiarato Barbara Limanowska, coordinatrice del programma di integrazione della dimensione di genere dell’EIGE.”

Qui per visionare lo stato dell’Italia:

@EIGE


E secondo il Wef, l’Italia qualche passo indietro lo ha fatto in termini di gender gap. Siamo al 76° posto su 153 Paesi nel Global Gender Gap Report 2020, l’anno scorso eravamo al 70°.

Metto in fila un po’ di fatti, forse per deformazione personale che mi porta a stipare fonti.

Il gender pay gap non ci sembra un tema prioritario? Fa nulla, ma qualcuno dovrà guardare in faccia tutti gli aspetti, specie se fa politica.

La zavorra del tempo e di come viene impiegato a seconda del genere non è a mio avviso una faccenda da mettere in coda alla lista, ma andrebbe inserito nelle valutazioni a 360° necessarie prima di varare qualsiasi intervento correttivo.

La difficoltà a conciliare la si racconta, si raccontano le storie personali e se vogliamo davvero che qualcosa cambi, per prima cosa occorre ascoltare e credere a ciascuna, senza la litania di “più nidi per tutti”, perché di semplificazioni mitologiche ne abbiamo abbastanza. Perché diciamocelo chiaro e tondo non di soli nidi e servizi si nutre il superamento del problema. Vi narro brevemente un piccolo dettaglio tratto da un mio recente ritorno al lavoro. Mio marito per conciliare i suoi turni con i miei, per consentirmi di ottemperare all’impegno preso, a un certo punto ha deciso di prendersi 10 giorni di ferie, perché alternativa non c’era. Questo accade, questa è la soluzione fai da te, chiudi “buchi” che mi è accaduta personalmente. Ritengo che in giro ci siano tante soluzioni similari, che però non cambiano i risultati e le acrobazie, quando non ti puoi permettere o non hai nessun aiuto. Immaginate cosa accade nelle famiglie monogenitoriali, senza nonni e senza risorse economiche. Ci arrampichiamo sugli specchi e con il dito giudicante, consigliamo alle donne di trovare un equilibrio che non sempre ci può essere, e nessuno si è mai sognato di parlare di scelte, ma di scelte obbligate che di fatto sono delle tenaglie, delle mannaie. Comunque, restiamo fiduciose in attesa di non sentire più dalla politica “suggerimenti” facili del tipo “tenete duro”, “non lasciate il lavoro, tutto si può fare”. La trappola per le donne sono le donne (e gli uomini) in posizioni confortevoli che danno consigli e magari legiferano sulla nostra pelle, senza scendere al piano terra nemmeno per un secondo.

Lasciamo perdere come da piani privilegiati ci osservano, e torniamo a cogliere l’aria che tira.

Un immaginario e un contesto che sembrano venire dall’800, perché nemmeno negli anni ’50 avrebbero avuto per esempio l’ardire di fare una campagna informativa per la salute femminile come quella ideata dalla Regione Sicilia. Perché le nostre istituzioni sono esattamente lo specchio del livello del pensiero italico medio.

Nel contesto attuale non mi sembra nemmeno un’anomalia che dalla kermesse sanremese, per bocca del direttore artistico e presentatore, sia stata proferita una simile frase:

“Questa ragazza molto bella, sappiamo essere la fidanzata di un grande Valentino Rossi, ma è stata scelta da me perché vedevo, intanto la bellezza, ma anche la capacità di stare vicino ad un grande uomo, stando un passo indietro malgrado la sua giovane età. ”


Non sorprende, non risuona nuova, un pensiero normale, comune, non risulta fuori luogo e fuori tempo, nessuna si alza all’istante e prende le distanze. Accettiamo di stare un passo indietro, lo consideriamo connaturato al nostro dato biologico di femmine della specie. Socialmente in effetti deve essere ancora ben radicato, tanto da poterlo dire con nonchalance. La consapevolezza e la prontezza di un rifiuto (magari un debole segnale di coraggio) non sono qualità evidentemente così diffuse. Quindi, intanto è fluito il concetto dello “stare un passo indietro”, che da quella posizione si guadagna sempre qualcosa, invece di ascoltare le nazifemministe che inquinano il dibattito e le pacifiche relazioni uomini-donne e i buoni vecchi valori saggi di una volta, quando il patriarcato regnava indisturbato. 

Normale quindi sentire di ventenni che non trovano nulla di strano se a decidere del loro futuro sia il fidanzato, che gestisce il loro cellulare, le loro amicizie e scelte di studio, impedendoti ad esempio di iscriverti all’università, perché possessivo e geloso. Il passo per il resto è breve.

Normalizzare e strizzare l’occhio a mentalità e tradizioni per nulla innocue rappresenta la resistenza e la tendenza a conservare tipiche di Paesi fermi a un paleolitico culturale. Si tratta anche di una mancata evoluzione della mascolinità verso orizzonti più paritari e inclusivi, in grado di leggere l’uguaglianza di genere non come un attacco frontale, ma come un’opportunità positiva, che sgombri finalmente il campo da tutte quelle gabbie stereotipate che limitano sia donne che uomini. Ma di questo non possiamo farci carico solo noi donne.

Il raggiungimento della parità di genere non è “un argomento femminile”, ma riguarda tutti e tutte, presuppone l’azione e l’impegno di uomini e donne. Basta con questo eterno fardello che ci lasciamo scaricare addosso.
L’idea che sia una “roba da donne” andrebbe politicamente e culturalmente rigettata, in favore di una visione diversa, di una responsabilizzazione e consapevolezza collettive, che così è un danno per tutti/e. La differenza di approccio non è irrilevante, si vede che occorre ripartire dalle basi e magari imparare qualcosa dal cammino femminista.

Ritornando qualche passo indietro, le reazioni al pensiero espresso a Sanremo ci sono state, ma alla fin fine, tutto passa e si sedimenta, eccome se si stratifica nelle nostre menti.

Ed a furia di recuperare e di guardare con nostalgia al passato, finiamo con lo sdoganare e col mandare in onda anche l’ennesimo trapper, Junior Cally, che supera di gran lunga i suoi predecessori per misoginia, volgarità, sessismo, odio e istigazione alla violenza contro le donne. Ho deliberatamente scelto di non includere i suoi “versi”, per non diffonderli ulteriormente. Perché l’asticella a quanto pare si può solo alzare. Non è che noi non abbiamo capito la musica e l’arte contemporanea, che soffochiamo la libertà di espressione, non è per vecchiezza dei nostri ragionamenti, ma perché premiare un autore di testi violenti contro le donne mandandolo a Sanremo ci sembra un tantino aver oltrepassato il limite, la misura è colma, al di là di ciò che porterà sul palco.

Chiudiamo il cerchio con il richiamo del Grevio di cui parlavamo all’inizio. Non solo è carente un intervento educativo e culturale, ma è addirittura spesso in senso contrario, deleterio. Tutto sembra remare contro e qualsiasi intervento che coinvolge le nuove generazioni appare un esercizio disperato. Parlare con queste basi e in questo contesto può diventare un’impresa titanica. Ma va fatto, nonostante le difficoltà e le resistenze e dobbiamo pretendere che diventi diffuso e permanente in ogni luogo e in ogni istituto scolastico. Che magari si riuscisse a cambiare finalmente modo, parole e termini per fare comunicazione, arte, tv senza dover adoperare i soliti triti e ritriti messaggi sessisti, violenti, misogini e che continuano a legittimare la violenza, la discriminazione e la subordinazione delle donne. Non sentiamo il bisogno dell’ennesima dose quotidiana di finta attenzione, nemmeno se il festivalone decide di “compensare” concedendo uno spazietto alla co-conduttrice per accennare alla violenza maschile contro le donne. Tutto a questo punto appare una messinscena di cattivo gusto, una contraddizione indigesta e posticcia, che testimonia quanto questo Paese abbia compreso la gravità della situazione. Non ci prendete in giro, ne possiamo fare a meno. A questo giro nemmeno delle scuse e dei passi indietro verbali a posteriori possono servire a sanare la faccenda. Perché ormai ciò che è stato detto e fatto è giunto a destinazione e la pezza arriverebbe in sordina. Il messaggio è arrivato forte e chiaro: donne state al vostro posto, vi conviene, magari come diceva Silvio “sposate un uomo ricco”, e fatevi una risata se Sanremo accoglie sul suo palco un trapper che nel suo repertorio colleziona anche testi che sviliscono e umiliano le donne, per usare un eufemismo. Il tutto dalla tv pubblica che dovrebbe fornire gli strumenti idonei per educare una cittadinanza che rispetti le donne. 

Con il passare degli anni tutto appare immutato, immutabile, incellofanato, compresa la rappresentazione e la narrazione che riguarda le donne. Qui un monitoraggio sulla tv pubblica del 2017, a cura dell’Università Roma Tre. Per l’Europa: K. Ross, C. Padovani, Gender Equality and the Media, 2017. Per lo scenario internazionale: http://whomakesthenews.org/. FONTE (grazie alla professoressa Elisa Giomi)

Ci uniamo al sindacato Slc-Cgil che ricorda nel suo comunicato: “che il Contratto di Servizio ci impone di “superare gli stereotipi di genere, al fine di promuovere la parità e di rispettare l’immagine e la dignità della donna anche secondo il principio di non discriminazione”.

Per quanto ci riguarda possiamo far arrivare il nostro dissenso agli organismi di vigilanza e garanzia preposti. Ci sono alcune petizioni su Change.org che stanno girando, ma potete anche scrivere direttamente alla Commissione di vigilanza dei servizi radiotelevisivi com_rai@camera.it

O anche al MISE: comitato.minori@mise.gov.it

Qui un esempio di testo.

Intanto, qualcosa si muove anche in RAI: il presidente della Rai Marcello Foa ha espresso la sua posizione e un richiamo.

Diamo spazio e voce a una differente rappresentazione delle donne. Pretendiamo rispetto e non briciole. E anche nel caso sia stata una trovata per accendere i riflettori su Sanremo, siamo ben oltre il limite, e in ogni caso non sulla nostra pelle, come se nulla fosse. I cosiddetti “creativi”, gli autori sappiano trovare, adoperare contenuti, linguaggio e format idonei a veicolare un differente ruolo della donna, consono ai tempi, consono all’educazione alla parità e all’uguaglianza di genere, consono a tutti i mille impegni che l’Italia ha sottoscritto e che in gran parte sono rimasti sulla carta. Perché per riformare e correggere un sistema siffatto occorre una visione che sappia legare tutti i pezzi che compongono il puzzle delle discriminazioni di genere, consapevoli che come in un domino, un fattore influenza l’altro, indebolendo o rafforzando l’intervento.

P.S.

Ringrazio la sociologa Sveva Magaraggia per queste sue parole:

“Anche la musica, con il suo linguaggio esplicito, può contribuire a migliorare la nostra società se, a mio parere, chi scrive e interpreta le canzoni sia disposto ad assumersi appieno la responsabilità dei messaggi che veicola. Perché è troppo semplice nascondersi dietro “l’arte”, il diritto di parola, di espressione, quando quella espressione è pregna di violenza compiaciuta. Nessuno vuole impedire a questi artisti di esprimersi, ma che almeno abbiano il coraggio di assumersi la responsabilità di ciò che scrivono e cantano, perché quelle canzoni hanno conseguenze sulla formazione del pensiero di centinaia di giovani, abituano alla degradazione di esseri umani. Nessuno vieta loro di avere questi pensieri, ma costringerli a porsi domande che sorpassino il troppo facile scarico di responsabilità fornito dall’appello alla libertà artistica, sì. Questo sì. Soprattutto su una tematica così delicata come la violenza degli uomini.”

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Anno nuovo, quali prospettive

@pixabay.com


Torno a scrivere per fare un po’ il punto sulle prospettive che abbiamo davanti.

L’anno si è aperto con un’ottima notizia, una di quelle che ti rincuorano: Laura Massaro ha vinto in appello e finalmente può tornare a respirare dopo la battaglia giudiziaria che ha visto coinvolti lei e suo figlio per l’affidamento, con tanto di accusa di Pas incombente, che ha tenuto tutti con il fiato sospeso per 6 anni. Grazie a tutti coloro che si sono spesi per questa causa e alla tenacia e al coraggio di questa madre. Grazie Laura per ciò che hai fatto! Una battaglia per tutte le donne. Ci auguriamo che si moltiplichino questo tipo di vittorie e che teorie spazzatura non trovino più spazio nelle aule di tribunale e che le donne e i minori vengano ascoltati veramente. Infatti ha ragione Laura, non è finita del tutto: “Il problema è la 54 del 2006 di cui la pas è un accessorio, il più feroce.” E tante madri hanno dovuto lottare contro questa serpe che si insinua nelle Ctu e non permette di andare a fondo nelle situazioni in cui si denuncia violenza domestica, scoraggiando la denuncia e in numerosi casi troncando le relazioni madri-figli. Ci auguriamo infine che venga presto restituita a Laura la responsabilità genitoriale. Non c’è niente di più importante che ridare serenità a un bambino che chiede solo di restare con le persone a lui più care.

Non possiamo abbassare la guardia, perché ci sono altri segnali che ci indicano che le cose non sembrano filare lisce. Campanelli d’allarme che continuano ad arrivarci in sordina, un po’ silenziati da altre questioni che fanno maggior rumore e attraggono le nostre attenzioni. Attorno abbiamo dei cambiamenti che ci dovrebbero far capire la pericolosa inversione che si sta facendo largo. Una storia che inizia qualche anno fa, quando, per mano di Regione Lombardia, venne varato il sistema O.R.A. per la raccolta dei dati degli interventi nei centri antiviolenza operanti sul territorio (ne avevo tra l’altro già parlato qui). Metodo che prevede un tracciamento degli accessi ai CAV, con la trasmissione dei codici fiscali delle donne. In barba a quanto previsto dalla Convenzione di Istanbul per quanto concerne le attività dei servizi inerenti all’intervento in casi di violenza, si decideva di intaccare il diritto all’anonimato delle donne. Le nuove regole diventavano condizione imprescindibile per accedere ai bandi e ai finanziamenti regionali. A livello di Comune di Milano si era giunti a una soluzione: un codice alfanumerico per i centri che sceglievano di non fornire il Codice fiscale; il C.F. per tutti gli altri enti coinvolti.

A livello regionale ci sono state interrogazioni, ordini del giorno da parte delle opposizioni, cercando di trovare un compromesso che non discriminasse nessuna pratica dei Centri. Regione Lombardia difende strenuamente la sua piattaforma O.R.A., che a loro dire garantisce l’anonimato. Ma anche a un neofita tutto ciò appare più come un arroccamento su posizioni che invece dovrebbero giungere a una composizione nell’interesse primario delle donne. Eppure, come abbiamo visto l’alternativa ci sarebbe, introdurre un doppio sistema di tracciamento, per andare incontro alle esigenze ed agli approcci di entità diverse. Perché di approcci appunto si tratta: di salvaguardare una storia e le esperienze di coloro che per prime hanno costruito ed elaborato un modello di intervento. Non è affatto questione secondaria garantire l’anonimato e la privacy, specialmente in una fase iniziale nel percorso di fuoriuscita dalla violenza. Si tratta di rispettare le donne e un percorso che nasce da un’analisi profonda delle radici della violenza maschile contro le donne, un cammino che parte dal femminismo e al suo disvelamento sul potere maschile e sulla mascolinità tossica, sui meccanismi che generano un fenomeno che necessita di interventi non solo di emancipazione delle donne, ma sulla cultura. Cura e accoglienza delle donne nelle situazioni di violenza, accompagnamento verso l’uscita, ma anche prevenzione, come prevede la Convenzione di Istanbul. Insomma, c’è tanto alle spalle di determinate esperienze sul territorio, che non si possono perdere. Chiaramente si continuerà a sollecitare le istituzioni preposte affinché giungano a trovare una soluzione idonea.

Non si può sacrificare una storia, un modello nato dalle donne per le donne. Non ci stiamo a criteri discriminatori per quanto concerne le regole di raccolta dati e per i criteri di accesso a bandi per la gestione dei centri e per i finanziamenti. Non è solo forma, ma soprattutto sostanza di un modus operandi che va tutelato e non smarrito per ragioni burocratiche. Si tratta di dare spazio ed agibilità a tutte le soluzioni, a tutti i soggetti, mettendo però sempre al centro le donne.

Quali sono i risultati sul campo che possiamo già vedere? Il centro antiviolenza di Corsico “La stanza dello scirocco”, ha cambiato gestione. Ringrazio le donne dell’associazione VentunesimoDonna per aver divulgato la notizia e per tutto il lavoro di sostegno svolto negli anni: “Dal 31 dicembre “La Stanza dello Scirocco” il Centro Antiviolenza del Distretto di Corsico non è più gestito dal Cadmi”, che è stata esclusa dalla partecipazione al bando per la gestione del centro, passato alla Fondazione Padri Somaschi.

Non so perché, ma la situazione me ne ricorda un’altra. Avete presente i consultori? La Lombardia ha sperimentato una crescita esponenziale del privato accreditato, in stragrande maggioranza di matrice confessionale: dai risultati di un progetto che ha indagato la galassia dei consultori familiari italiani a 40 anni dalla loro nascita, emerge che i consultori accreditati lombardi sono 91 (35% del numero complessivo dei consultori familiari riportato dai referenti). Non è difficile immaginare che piano piano la natura, i valori, gli obiettivi e le caratteristiche con cui erano nati siano state modificate, rimodulate, cambiando anche alcuni elementi che erano il cuore del presidio consultoriale.

Siccome abbiamo già grosse difficoltà, non possiamo assolutamente permetterci di perdere il bagaglio di esperienze e la consapevolezza che abbiamo costruito negli anni, con pratiche e visioni germogliate grazie al femminismo. La differenza c’è. L’emersione della violenza ha bisogno della collaborazione di tutte le forze in campo, tutelando le donne, i loro diritti e le loro scelte, affinché si intervenga il prima possibile e si interrompa la spirale dei maltrattamenti che si consumano per anni.

Ciò che è accaduto lo scorso 17 dicembre a San Siro ai danni di una diciottenne, testimonia quanto sia importante intervenire precocemente per evitare conseguenze peggiori, interrompendo l’escalation sin dai primi segnali evidenti di maltrattamenti. Nella frase con cui ha provato a difendersi il compagno della vittima “Sto solo picchiando mia moglie” c’è tutto il substrato patriarcale che legittima la violenza sulle donne. Occorre accompagnare le donne in un percorso in cui riescano a riconoscere cosa stanno vivendo e proteggerle nel difficile cammino di uscita da relazioni tossiche e violente. In questo caso, per esempio, le violenze erano iniziate nel marzo 2017, con un ricovero in ospedale e un tentativo di suicidio negli ultimi mesi. Non aggiungo altro.

Abbiamo veramente molto lavoro da fare e non possiamo permetterci di perdere elementi preziosi. Troviamo soluzioni equilibrate che sappiano andare incontro all’unico essenziale obiettivo: consentire alle donne di vivere libere dalla violenza maschile.

p.s. il Comitato Abitanti di San Siro e Nudm Milano stanno organizzando una passeggiata contro la violenza sulle donne per il 28 gennaio. Qui l’evento con i dettagli:

https://www.facebook.com/events/954292334965273/

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Supporto, protezione, cura, percorsi di autonomia e di liberazione dalla violenza

 

 

@Marzia Bianchi


Un altro novembre è passato, insieme a un altro 25 novembre di iniziative, pioggia di dati e un interesse che sembra concentrarsi per lo più attorno a un “dovere” da ottemperare, volto a “riempire” una data sul calendario, piuttosto che a un impegno di cui si è fortemente convinti, vista la realtà che viviamo e che stenta a diventare più a misura di donna. Siamo ben lontane non solo dalla piena parità di genere, ma soprattutto dal riconoscere le donne come soggetti titolari di diritti. Siamo lontane, anche se molte di noi sostengono ottimisticamente dalla loro comoda prospettiva che il “grosso” della fatica è compiuto. Ed è in questa euforia, in questo ottimismo che si rischia di perdere il senso della realtà, in questa sensazione di aver compiuto tutto il possibile che invece assistiamo al reiterarsi di tanti segnali che dovrebbero farci capire che assai poco è cambiato per noi donne. E ci si accorge che in queste difficoltà non sempre troviamo nelle donne delle alleate. I dati che provengono dall’indagine ISTAT e Skuola.net ci illustrano la fotografia di un Paese dove albergano tenaci i più pesanti dei pregiudizi.

infograficaViolenzaDonne

E se non cambia la percezione e non ci si disfa di antichi retaggi, sarà un cammino fatto di “un passo in avanti e due indietro”. Sarò breve. Non vogliamo proprio capire che non si cambia direzione e mentalità solo perché gli anni passano e il tempo ci illumina. La storia non è un cammino verso un certo e incessabile miglioramento, verso un progresso inarrestabile generale, verso generazioni più consapevoli in automatico. La comprensione dei fenomeni, la consapevolezza non arrivano da sole. Ci vuole volontà, meno sottovalutazione dei problemi, più lavoro strutturato, più coraggio. Non è un problema solo di formazione, ma di cosa avviene in noi, che cambiamenti mettiamo in moto e accogliamo, quanto siamo in grado di maneggiare e tenere a bada certi meccanismi culturali e relazionali, che cosa siamo disposti a rottamare del nostro vecchio sistema di stereotipi e convinzioni. Invece, inesorabilmente, inciampiamo sempre negli stessi ingranaggi patriarcali, nella retorica che ci rende meno pesanti gli eventi e ci permette ancora di auto-assolverci. Una pacca sulle spalle, che guarda al futuro fiduciosa.

Quindi, dal mio osservatorio livello zero, posso dire di essere preoccupata e di riporre la mia speranza e la mia fiducia in pochissime realtà e soggetti femminili. Ne abbiamo di strada. Ne abbiamo di strada perché le distanze e le discriminazioni sociali si allargano e noi donne siamo e restiamo le prime a farne le spese. Non si tratta di vedere il bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno, ma di dare la giusta misura di tanti segnali. La lotta alla violenza maschile contro le donne non è un abito da indossare per convenienza, tornaconto personale, o per una stagione celebrativa.

Abbiamo bisogno di terremotare le nostre coscienze per frantumare quelle scorie patriarcali. Abbiamo bisogno di spingerci convintamente nella direzione di credere e di proteggere le donne, salvaguardando i loro figli e il legame indissolubile madre-figlio. Abbiamo bisogno di professioniste che abbandonino ‘falsi modelli’ e sappiano da che parte stare, perché non è indifferente o questione secondaria . Abbiamo bisogno di ricordarci ogni giorno e tenere ben presente cosa avviene alle vite delle donne e quanto la violenza lasci segni profondi, nei corpi, nelle menti, nelle storie di ciascuna.

Non possiamo fermarci, non possiamo adottare delle lenti superficiali per guardare i fatti, i fenomeni, i vissuti. Dobbiamo compenetrarci empaticamente nelle vite di queste donne e sgombrare il campo da strutture culturali nocive. Questo mi auguro. Per le prossime generazioni e soprattutto per coloro che da professionisti incontreranno e dovranno aiutare le donne. Purtroppo, è tuttora molto più facile e comune pensare alle donne come manipolatrici e non demorde l’argomentazione delle ‘false accuse strumentali’. Se solo pensaste al pesante iter e alle difficoltà a cui vanno incontro le donne che decidono di denunciare e di cercare di uscire da relazioni violente, forse tutti questi castelli mentali crollerebbero e non potreste più tanto superficialmente etichettare come ‘bugiarde croniche’ le donne. Ne ho abbastanza: o si cambia oggi, oppure domani saremo o allo stesso punto o peggio.

Vi invito a guardare queste immagini, che hanno composto la mostra “L’invisibilità non è un super potere” che è stata esposta all’ospedale San Carlo Borromeo di Milano. È nata dall’esperienza della chirurga del P.S. Maria Grazia Vantadori, e da REAMA – Rete per l’Empowerment e l’Auto Mutuo Aiuto, di Fondazione Pangea. Accanto alle radiografie eseguite alle donne che negli anni hanno fatto accesso alle cure del P.S. dell’ospedale San Carlo, sono stati esposti gli scatti della fotografa Marzia Bianchi, che ha tratto ispirazione dalle storie delle donne con cui ha parlato e dal lavoro di Reama. Le storie si intrecciano, si susseguono ciascuna nella propria unicità e specificità, ma la trama di fondo compone un medesimo schema, in cui la violenza maschile sulle donne viene esercitata all’interno delle relazioni e segue un ciclo e dinamiche che si ripetono e che ben conosciamo.

Osservate e leggete le storie in silenzio, per pensare, per non rimuovere ciò che la violenza causa ogni giorno a tante donne. Attraverso i corpi, le parole delle donne riusciremo a comprendere che è nostro compito contribuire personalmente ad abbattere il muro di indifferenza o diffidenza nei confronti di chi decide di uscire dalla violenza. Troppo forte è ancora oggi l’abitudine a prendere le parti del soggetto socialmente detentore del potere e di uno status privilegiato. Troppe persone ancora fanno fatica a credere alle donne. Da ciò la difficoltà a strutturare interventi di supporto e di protezione adeguati, che siano poi anche in grado di mettere in campo progetti di autonomia e di liberazione completa delle donne che hanno vissuto situazioni di violenza, restituendo loro la fiducia in sé e per consentire loro di costruire un futuro differente.

Dall’iniziativa/mostra “L’invisibilità non è un super potere”, esposta all’ospedale San Carlo Borromeo di Milano, da giovedì 21 novembre a domenica 8 dicembre. E’ possibile ingrandire le fotografie cliccando sopra una di esse con il mouse, si avvierà in automatico la galleria fotografica.

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Allarghiamo la consapevolezza sulla violenza maschile contro le donne

Quante volte abbiamo detto che dobbiamo moltiplicare le occasioni per conoscere più da vicino ciò che ciascuna donna sperimenta nel corso della sua vita, con una frequenza elevata e pervasiva, come le statistiche continuano a registrare. Ma noi tutte lo sappiamo come si vive in questo sistema culturale e comportamentale che da secoli ci schiaccia e cerca in tutti i modi di ricondurci al nostro posto, al nostro ruolo, a ciò che un uomo prescrive come corretto e cosa buona per una donna. Il femminismo ci ha permesso di guardare in faccia tutto ciò che da secoli ci accadeva e di analizzarlo nel profondo, fino ad arrivare alle radici di questo costrutto sociale e culturale patriarcale.

Violenza maschile sulle donne, declinata in tante variabili, alcune sottili e invisibili, abilmente celate o minimizzate, anche da noi stesse donne, educate e cresciute nella medesima broda culturale, che ci fa attendere tanto troppo prima di capire cosa sta realmente accadendo e ribellarci, che ci inculca sensi di colpa e mille strategie di negazione. Sessismo, violenza sessuale, economica, stalking, pressioni dentro e fuori casa. Non siamo esagerate, non siamo paranoiche, non ingigantiamo ciò che sperimentiamo sulla nostra pelle, non siamo isteriche, non siamo misandriche, non odiamo gli uomini, non giochiamo a fare le vittime. Se troviamo un varco per riuscire finalmente a parlarne, ascoltateci, sul serio però, senza rivittimizzarci e senza minimizzare. Tutto questo, dicevamo, parte da una società, che in tutti i suoi contesti e luoghi, sia capace e intenda cambiare la sua cultura in modo radicale, a partire da come si considera una donna, iniziando a rimuovere stereotipi, pregiudizi, etichette, insomma tutta quella polvere patriarcale che si è abilmente insediata nelle nostre relazioni, nella nostra mentalità, nelle nostre aspettative. Ecco, perché credo che sia un’occasione importante quella offerta dal progetto SFERA – Sviluppo della Formazione per Reti Antiviolenza, che nasce da un accordo fra l’Università degli Studi di Milano-Bicocca (Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale) e PoliS-Lombardia, grazie ad un finanziamento della Regione Lombardia, Direzione Generale Famiglia e Pari opportunità, per la formazione di reti territoriali, volti alla prevenzione e al contrasto della violenza di genere.

Un percorso di formazione gratuita, fino a esaurimento posti, costruito per moduli, laboratori ed eventi, articolato seguendo le “4P” previste nella Convenzione di Istanbul (Prevenire la violenza; Proteggere e sostenere le vittime; Perseguire i colpevoli di violenza sessuale e domestica; Promuovere politiche integrate).

I percorsi sono rivolti agli ordini degli assistenti sociali, degli psicologi, dei giornalisti, al personale dei centri anti-violenza, al terzo settore e a chi opera nel mondo dello sport, all’associazionismo, con un interessante modulo rivolto a chi lavora nei consultori pubblici e privati, “L‘accoglienza e la presa in carico delle vittime: servizi territoriali + servizi ospedalieri”, previsto per il 19 novembre 2019, dalle 14:00 alle 18:30.

Sapere, essere consapevoli di cosa siano certi fenomeni e di quanto di frequente accadano episodi della sfera della violenza maschile contro le donne fondata sul genere e spesso occultata, come ci ha perfettamente illustrato la professoressa Patrizia Romito, ne Un silenzio assordante, è il primo passo per guardare in faccia questi atti di violenza e assolutamente non consentire più che nemmeno un singolo episodio subisca una forma di silenziamento. Parliamone, affrontiamo questo fenomeno, cogliamo ogni più piccolo segnale nei nostri ambienti quotidiani, lavorativi, relazionali, familiari. Partiamo da noi. Penso che ogni occasione, specialmente se accompagnata da professionisti e da esperti che operano quotidianamente su questi aspetti, sia utile a costruire quel terreno fertile di consapevolezza e possa costituire un importante leva per scardinare la cultura che è alla base della violenza maschile contro le donne. Una missione di cui tutti e tutte noi possiamo farcene portatrici/portatori. Qualcosa che dobbiamo raccontare (come da Il male che si deve raccontare, di Simonetta Agnello Hornby e Marina Calloni), che dobbiamo affrontare e disvelare, portarlo sempre più davanti agli occhi di chi ancora oggi nega, ridimensiona, sminuisce la sua gravità e diffusione, non ha gli strumenti per riconoscerlo sin dai suoi primi segnali. Succede, non è qualcosa lontano da noi. Prendiamo consapevolezza e allarghiamo la consapevolezza. A 360°, come una sfera.

Tutte le informazioni per le iscrizioni e le date degli incontri le potete trovare qui.

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Riconosciamoci. Uniamoci.

Yo por ellas, ellas por mí – Fonte https://www.youtube.com/watch?v=xglTGuDd1-M

 

Un bilancio-riepilogo dell’operato del fù governo giallo-verde lo ha tracciato egregiamente Giovanna Badalassi su Ladynomics.

E se il buon giorno si vede dal mattino, li abbiamo lasciati lavorare abbastanza per trarre più di una qualche fondata conclusione. Abbiamo assistito a una sorta di prova generale di cosa accadrebbe se tutto dovesse prendere il colore verde, perché il traino e l’impronta di questi 14 mesi sono stati nettamente di stampo leghista, con i 5stelle a ruota, schiacciati da una macchina politica divoratutto e da un equilibrio che alla fine ha visto ribaltare i pesi delle due parti della maggioranza. Ma non è di colori che desidero parlare. Il vero problema riguarda le donne, al di là della questione incarichi:

“A partire dalle misure economiche, da quelle effettive a quelle che abbiamo rischiato e che forse ancora rischiamo: quota 100 ha favorito soprattutto uomini, il reddito di cittadinanza è stato utilizzato soprattutto da uomini, la flat tax avrebbe scoraggiato il lavoro delle donne, l’aumento Iva colpirebbe soprattutto le donne, per non parlare della saltata chiusura domenicale dei negozi che avrebbe penalizzato soprattutto il lavoro femminile.

Per continuare con le misure sociali: il disastro del Decreto Pillon, il costante attacco ad ogni diritto delle donne, una quotidiana messa sotto accusa della figura femminile moderna ed emancipata a favore di una esaltazione della famiglia “tradizionale” che manco nell’800.

Per finire con la propaganda social esaltatoria del maschilismo più stereotipato e arcaico, con attacchi feroci a donne che esprimono le proprie opinioni. E poi ancora sessismo, tanto, troppo, a volontà, tutti i giorni, ad ogni ora, da ogni postazione, istituzionale, stradale, balneare.

Un maschilismo straniante, che, descrivendoci come streghe, cubiste o piuttosto ancelle devote, ha cercato di farci dimenticare il peso sociale ed economico delle donne in Italia.”

Sto vedendo la terza stagione di Handmaid’s tales e sinceramente avverto la stessa angoscia e preoccupazione per il nostro futuro, per il livello di smarrimento di tutti i passi e passaggi che sinora abbiamo compiuto anche se con enormi fatiche. Tutto appare talmente fragile che fa paura pensare che potrebbe dissolversi in brevissimo tempo. Al netto delle difficoltà della realizzazione concreta di una politica delle donne nella situazione contingente italiana, mi rendo conto di una cosa. Se penso alla Svezia, per esempio, nulla lì è germogliato per caso e scrittrici come Astrid Lindgren hanno gettato le basi e ispirato intere generazioni di bambine che diventate donne hanno con coraggio plasmato una società e un Paese, maturato e cresciuto, non rimasto al palo di nostalgiche formule.

Flavia Amabile su La Stampa si/ci chiede:

“dove sono le donne? Ieri in Senato, per esempio, c’era un problema enorme da risolvere enorme e nessuna traccia di donne al’origine, e nemmeno alla fine. Chiunque abbia avuto la pazienza di osservare gli interventi dei protagonisti del dramma italico si è trovato di fronte a un muro di giacche scure, cravatte altrettanto bigie, e qualche sporadica presenza femminile: tre su diciotto persone nei banchi della Lega mentre parlava Salvini, praticamente nessuna nell’inquadratura televisiva principale. Una sola nel banco governativo circondata da nove uomini.”

Questo durante l’intervento di Conte al Senato. Ma spesso è volentieri è una presenza massiccia maschile quotidiana, salvo poche, rare eccezioni, che prendono parola ogni tanto e si intravedono nei TG. Lo stesso deficit lo si può riscontrare nei discorsi, e quando c’è sembra posticcio, un tema appiccicato qua e là. Sì, dicono, alcuni leader di partito ci hanno in testa, ma chissà come mai c’è sempre un inciampo, una fase delicata, un ordine superiore che non permette di centrare il punto, d tradurre in parole e impegni seri quella parola “innominata”. Tutto vago, talmente vago che non si riesce a cogliere e a fissare nel fiume di dichiarazioni che si susseguono. Colgo le parole di un post di una mia amica e concittadina Helga Sirchia che su Facebook rompe questo silenzio pesantissimo proprio su questo aspetto, in queste ore frenetiche di consultazioni e comunicati da crisi di governo:

“Dirò allora la unica cosa , pronuncerò la unica parola che NESSUNO, in ore e ore di interventi, da un capo all’altro dell’agone .. o del circo che dir si voglia, ha non dico affrontato, ma sfiorato:

DONNA.

CHE SI TRASCINA UN ALTRO GRAVISSIMO ATTO DI OMISSIONE :

VIOLENZA SU DONNE E BAMBINI

(…) SI, Vi diamo NOTIZIA CHE

LE DONNE ESISTONO ! sono più della metà della nostra comunità … e degli elettori: )

Una ogni 3 giorni ammazzata . Stupri, ravange porn, sessismo, violenza domestica , violenza psicologica, violenza verbale , violenza assistita : vite spezzate, che sono centinaia e centinaia di casi in tutto il nostro BelPaese.

I ‘figli d’Italia’ che dietro a proclami o progetti di legge deliranti , stanno subendo il più grande genocidio in vita ..

ALLORA, perché , perché nemmeno una parola?”

 

Non possiamo continuare ad accontentarci, sbobinare le ore di interventi parlamentari per andare a scovare col lanternino quei pochi secondi e quella manciata di attenzione che chi imbastisce i discorsi ha la buona volontà di inserire. Siamo alle solite e la puzza di “interesse” lasciato marcire perché c’è qualcosa di più importante di mezzo ci ha nauseato. Ci vuole un ribaltamento, un cambio netto, a questo punto non c’è più da pazientare e da accontentarsi, eh no, nemmeno di proposte di nomi femminili che no non rappresentano affatto le donne, ma solo la cauta e rassicurante prosecuzione di un sistema patriarcale e machista. Deve essere ben chiaro che non esiste rappresentanza di valore e di qualità se non si cambia radicalmente profilo, cultura e background della rappresentanza delle donne. E la storia non si costruisce in un paio di mesi. Non provate a strumentalizzare la storia delle lotte delle donne. Femministe e dalla parte delle donne lo si dimostra sul campo, siete pregate di intraprendere il cammino. Non accetteremo opportunismi e manovre illusioniste. Non ci convocate solo quando avete bisogno del nostro voto per poi cancellarci il giorno dopo. Questa omissione, rimozione, cancellazione delle donne, dei loro diritti e di quelli dei loro figli, produce solo disastri e lo abbiamo visto ben chiaro. Nominiamo le donne e diamo loro posto centrale e prioritario nell’agenda politica del prossimo esecutivo. Dimostriamo di saper svoltare e di avere colto il vento che ovunque nel mondo parla di una marea femminista. Non dormite nelle vostre vite privilegiate, toccate e sporcatevi le mani con la realtà. Diamo voce e peso alle donne, alle loro istanze, ai loro diritti civili. L’ho scritto innumerevoli volte su questo blog e torno a farlo. Lo faremo ancora e ancora e ancora.

Pretendiamo un’attenzione sincera e seria. Non pannicelli caldi o qualche tocco di rosa. I nostri diritti acquisiti in anni di lotte sono già stati indeboliti e sono sotto attacco da tempo, troppo tempo e non siamo più disposte ad aspettare. Esistiamo e siamo il 51% del Paese, un’Italia che continua ad avere una voce prevalentemente maschile e a scansare l’unica vera opportunità di ripresa e di inversione di tendenza: LE DONNE. Svegliamoci e lavoriamo a una politica differente, a partire dalle misure che devono dare la possibilità alle donne di poter scegliere come costruire la propria vita, libere da qualsiasi imposizione, schema, pregiudizio, discriminazione e violenza.

 

Incontriamoci. Riconosciamoci. Uniamoci. Abbiamo la forza e le capacità. Il tempo è ora.

 

E la musica può dirlo molto meglio di tante altre forme di espressione. Buon ascolto.

 

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