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Potenziali

su 23 dicembre 2014

levatrice

 

Siamo ai bilanci di fine anno e arrivano anche i dati sulla natalità (qui un articolo pubblicato su InGenere). All’appello e sotto la lente c’è la generazione di “quelle” nate negli anni ’80. Il resto è fuori focus (ci siamo persi gli anni ’70, di già???) e comunque siamo sempre alle analisi del potenziale femminile. Galline in batteria all’appello! Questioni trite quelle del matrimonio che costa troppo e che è sempre meno diffuso. Roba a cui non bada più nessuno dotato di un minimo di materia grigia. Si può organizzare un matrimonio con un budget bassissimo e poi la questione della natalità non la si può legare al matrimonio. Dovremmo aver già superato questo scoglio. O mi sbaglio? Così come quelli che mi dicono “sai ci piacerebbe avere un figlio, ma ci vorrebbe una stanza in più” e non vivono certo in 50 mq. Allora, inizi a capire che ci sono ragioni più profonde se si fanno sempre meno figli. Ognuno ha ragioni diverse e tutte da rispettare. Di questi tempi un minimo di razionalità e di pianificazione non guastano, vista la precarietà a 360°. Anche quando sulla carta tutto sembra fattibile e sembrerebbe poter filare liscio, nulla avviene mai tranquillamente. Come ho detto altre volte, ci sono tanti fattori che vanno a incastrarsi e non è scontato che lo facciano. Inoltre, anche quando ci si sente pronti ad affrontare i marosi della genitorialità, spesso non contempli lo scontro con la realtà dei fatti. Come concilierai i tuoi orari di lavoro (che sia part-time o midi/full-time; qui un articolo recente sulla conciliazione)? Qui iniziano le montagne russe. Attorno a me ho solo esperienze di famiglie che hanno scaricato quasi al 100% la gestione dei figli ai nonni. Gli intoppi quotidiani spesso e volentieri vengono completamente delegati. Ci siamo evidentemente abituati a fare così, impossibilitati da un sistema che non consente un equilibrio sano tra tempo del lavoro e tempo “libero”. Naturalmente, le mie conoscenze sono un campione non rappresentativo dell’intera popolazione, ma indicano bene lo stato in cui versano le politiche di sostegno alla genitorialità nel nostro paese. Nonne che devono svolgere i compiti di vice-mamma, alle prese con i nipoti, con orari che sfiorano le h24. Poi c’è chi ha le disponibilità economiche per pagare tate full-time. Il resto picche: senza nonni disponibili, sei in balia delle onde. Perché si sa, inizia il balletto dei “favori”, delle intercessioni, che devi chiedere in giro, senza dare mai per scontata la collaborazione dei nonni o di altri soggetti.. Il vuoto di certezze e di punti di riferimento, che non ti permettono di organizzarti, mai. Per cui come fai? Come fai a lavorare? Cosa racconti al capo: “sa, dipende tutto dalla nonna, se mi fa il favore e se oggi è disponibile a darmi una mano”. Ognuno conosce le sue situazioni, potete immaginare il resto senza che ve lo debba raccontare. Quindi, al di là di strutture familiari nuove o old-style, matrimoni o meno, stranieri o meno, qui c’è bisogno di un welfare serio, un modello che non vada verso il workfare anglosassone, ma sia capace di trovare nuove potenzialità per migliorare le condizioni di vita della popolazione italiana. Tutta, non solo di coloro che godono della protezione del modello familistico, che per decenni ha sostenuto e tuttora sostiene e copre i buchi di uno stato sempre più in ritirata. Per questo mi piace il senso del commonfare. Mi piacerebbe anche che soluzioni come il Jobs Act venissero lette anche in termini di ricadute sul nostro futuro, sulle nostre aspettative di vita, sul nostro effettivo balzo dall’esser figli a essere adulti prima e genitori, magari in futuro, ma anche no. Perché se le generazioni dei nonni diventano welfare sostitutivo, questo significa solo una cosa: negare futuro e capacità di visioni prospettiche. Non vogliamo scaricare sullo stato il nostro essere genitori, ma quanto meno ci auguriamo che qualcuno si svegli e proponga soluzioni affinché non si continui a perpetuare pericolose discriminazioni a cui molti di noi sono purtroppo soggetti.
Quindi, non puntiamo il dito sulle donne, sui loro uteri e sugli ovuli che non si trasformano in prole per la patria. Puntiamo a comprendere tutti i fattori che oggi influiscono sulle scelte, tutte, non solo quella di fare o meno un figlio.
Non mi preoccupa che si facciano meno figli, ma che le prospettive per tutti siano sempre più preoccupanti e che non vi siano proposte politiche che vadano a migliorarle. La questione non è “fare più figli”, ma che futuro dargli, nel caso decidessimo di diventare genitori.

E si torna al tema della “cura”.

Chiudo, riprendendo Silvia Federici:

“Se riteniamo che il lavoro domiciliare non sia vero lavoro, che la premessa del passaggio da assistenza sociale generale ad assistenza da fornire solo a chi lavora sia corretta, allora nessuno è titolato ad avere un supporto istituzionale per crearsi una famiglia. E quindi lo stato ha ragione quando afferma che crescere i figli è una responsabilità personale e che se vogliamo centri di cura diurni, per esempio, dobbiamo pagarceli. Riassumendo, l’approccio è di insistere che qualsiasi richiesta e strategia che non interessi tutte le donne e, prima di tutto, quelle che sono state più sfruttate e discriminate, qualsiasi approccio che non mini le gerarchie che sono state costruite tra noi, è fallimentare, e mette a rischio qualsiasi vantaggio abbiamo potuto momentaneamente ottenere”.


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