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Sex work non è un termine neutro

su 28 dicembre 2014
Las senoritas de Avignon - Picasso

Las senoritas de Avignon – Picasso

 

Oggi desidero condividere con voi questa mia traduzione (perdonatemi se non è perfetta!) di un articolo molto interessante (dal titolo Why we shouldn’t rebrand prostitution as “sex work”, qui l’originale) di Sarah Ditum, pubblicato lo scorso 1 dicembre su New Statesman.

La prostituzione va raccontata per come è nella realtà. Le parole sono cariche di senso e vanno adoperate con oculatezza.

 

Daisy aveva 15 anni quando fu segnalata per la prima volta alle autorità di polizia per prostituzione. Lei ha raccontato a pochissime persone questa parte della sua vita, perché non desidera che questa possa avere ripercussioni in quella attuale (in questo articolo ogni dettaglio che possa identificarla è stato rimosso). Questo fa di lei una delle tante voci di donne che non ascolterete mai nei dibattiti attorno all’industria del sesso.

I responsabili politici e le femministe continuano a ripetere di “ascoltare le sex workers”, ma vale la pena sottolineare come si possano ascoltare solo le voci di coloro che volontariamente desiderano condividere la loro esperienza, maggiori saranno state le pene sofferte e minore sarà la probabilità che desideri renderle pubbliche. Figure come Brooke Magnanti “Belle de Jour” e Melissa Gira Grant (autrice di Playing the Whore), possono diventare rappresentative del mondo della prostituzione probabilmente proprio perché le loro esperienze positive sono inusuali. Sul fronte opposto troviamo donne che si definiscono “sopravvissute”, come Rachel Moran e Rebecca Mott. Per queste donne, il commercio sessuale non è altro che un trauma, e ripercorrere quel trauma è parte integrante della loro campagna pubblica di sensibilizzazione sul tema. Questo è il duro scotto da pagare ed è ciò che Daisy, incontrata in un centro di sostegno alle donne vittime di violenza, rifiuta di fare: “Mi rifiuto di costruire una mia “carriera” fondata sul fatto di essere una “ex” di qualcosa, non è un’etichetta che desidero accettare”. La questione delle etichette è fondamentale quando affrontiamo il tema della prostituzione. Al momento è in atto una campagna a cura della Associated Press per rimuovere la parola “prostituta” dal suo Stylebook del 2015. Certamente il suo uso distruttivo e dispregiativo come sinonimo di “donna” è da bandire. Nel 1979, i poliziotti che indagavano sul killer dello Yorkshire discriminarono tra donne “vittime innocenti” e le prostitute (quasi a voler sottolineare la linea di demarcazione, come se in qualche modo si volesse defraudare le donne morte di un uguale diritto alla vita, ndr). In un appello straordinario diretto all’assassino, la polizia del West Yorkshire promise di continuare a contrastare la prostituzione, arrestando le prostitute, quasi a voler sottintendere che fossero in qualche modo concordi nell’azione di “pulizia” attuata dal killer, seppur con metodologie meno violente (naturalmente questo appello non sortì alcun effetto, perché Sutcliffe, the Ripper, uccise altre due donne, prima di essere catturato). Nel 2006, la polizia di Ipswich indagò su un altro serial killer che prendeva di mira le donne che vendevano sesso, ma questa volta il linguaggio usato fu differente: in questo caso le vittime non furono definite “prostitute”, ma semplicemente donne. Si tratta di un piccolo ma significativo slittamento di senso. Le circostanze in cui le donne vengono uccise sono rilevanti per le indagini, ma non devono essere presentate come una giustificazione delle loro morti.

Coloro che si definiscono sostenitori delle sex workers vorrebbero introdurre il termine sex worker all’interno dello Stylebook; io sono una dei firmatari di una lettera rivolta all’AP affinché rigetti tale richiesta. Cosa c’è che non va nel termine sex worker? Per prima cosa, si tratta di un termine molto generico. Esso può includere sia le prostitute di strada, sia le escort, sia le spogliarelliste, che le operatrici delle hot-line, le tenutarie dei bordelli, i venditori di sex toys, così come i loro “manager”. Chiaramente non stiamo parlando di categorie assimilabili, per cui qualsiasi teoria o legge che tenti di trattarli con un approccio unitario rischia di soccombere sul fatto che non tutte le fattispecie sono riconducibili al sex work. “Sex work” è utilizzato anche da coloro che affrontano le tematiche di genere in maniera zelante: il termine prostituta sarebbe così imbevuto di una connotazione “femminile”, da essere necessario specificare quando si tratta di prostituzione maschile, mentre “sex worker” potrebbe essere valido per entrambi i generi. L’intenzione potrebbe essere anche buona, ma può essere fuorviante: perché la maggioranza di chi si prostituisce è donna, e coloro che usufruiscono dei servizi sessuali sono prevalentemente uomini. Quando si tratta di prostituzione, il genere neutro è una mistificazione. Se da un certo punto di vista il termine “sex worker” è troppo ampio, da un altro è troppo riduttivo: arriva a comprendere molte più cose della vendita di sesso, ma esclude coloro che hanno venduto o vendono sesso ma non si riconoscono come “sex worker”. Daisy è una di loro. Quando le ho chiesto se definirebbe mai se stessa come sex worker, la sua risposta è stata accesa: “Non vorrei adoperare quell’espressione. Nessuna donna è una “sex worker”. Non è un lavoro, si tratta di violenza”. La storia di Daisy dimostra che è impossibile concordare con il liberalismo più ottimista, che sostiene che le donne siano in grado di compiere una scelta razionale quando entrano in questo mondo o scelgono di scambiare sesso con il denaro. Quando una giovane adolescente scappa dalle violenze familiari, ha una vita fatta di espedienti, piccoli crimini, senza una fissa dimora. Un giorno la persona con cui sta le propone di fare sesso con un suo amico. “Era un magnaccia (ponce)”, mi dice. Io le chiedo quale sia la differenza tra magnaccia (ponce) e mezzano/procacciatore (pimp). La risposta sta tutta nei metodi con cui questi uomini controllano le donne: un pimp si serve di minacce, mentre un ponce sfrutta la vulnerabilità emotiva. “Un mezzano ti dice subito – sei lì solo per fare soldi,” dice Daisy. “Un ponce (magnaccia) ti dice che ti ama e che ci tiene a te, ma alla fine il risultato non cambia.”

Naturalmente non vi è certezza che il racconto che una donna fa della sua esperienza di vita sia effettivamente rispettato da coloro che sostengono di ascoltarla. Quando Maya Angelou è morta a maggio di questo anno, le rappresentanti delle sex workers l’hanno annoverata tra le loro fila, nonostante Maya non si fosse mai definita una “sex worker”. Un articolo apparso sul sito Vice l’ha arruolata per la causa dell’International Whores’ Day, mentre in un articolo su Mic, Angelou diviene uno strumento utile per una reprimenda contro il femminismo in generale: “Quando il femminismo si fissa su quello che le donne dovrebbero e non dovrebbero fare – sia che si tratti di sex work, che di matrimonio, di percorsi di carriera che di scelte di stili di vita – perde la sua missione principale per l’uguaglianza, la diversità, l’accettazione. Falliscono le sue donne e le sue leader, come Maya Angelou.” Certo è vero che Angelou non indulge mai in una condanna di se stessa quando racconta la sua esperienza di prostituzione nel suo Gather Together in my Name. Ma allo stesso tempo, nessuno può leggere la sua autobiografia, traendo la conclusione che lei auspichi che altre donne seguano la sua esperienza. Più avanti ha raccontato la sua esperienza come “pimp” e di essere successivamente diventata la mezzana di se stessa.

Tuttavia esistono donne che sono considerate totalmente riabilitate. La reputazione di Andrea Dworkin come SWERF (acronimo di “sex worker exclusionary feminist“) ha avuto la meglio sulla sua esperienza personale nel mondo della prostituzione, fondamentale per il suo lavoro. “I presupposti delle prostitute sono anche i miei presupposti”, disse in un suo discorso nel 1992. “Sono i miei punti di partenza… La prostituzione non è un’idea astratta. È la bocca, la vagina, il retto, penetrato solitamente da un pene, talvolta mani, talvolta oggetti, da un uomo e poi da un altro, e poi un altro e un altro ancora.” Questi aspetti sono difficili da affrontare, senza scivolare nella scabrosità, e Daisy devia sempre il discorso quando ci avviciniamo a parlare di sesso reale. Mi chiedo se questi tentativi di cambiare argomento siano intenzionali o meno.
“Non mi va di parlare dell’atto in sé”, mi dice. “Non voglio che sia squallido. Mi interessa far capire i danni emotivi che quell’atto provoca.” Per Daisy questo danno interiore è stato molto profondo: mentre nella prostituzione, mi dice, che era incapace di creare relazioni intime. “Come ti comporti con una persona che fa sesso con altri?” mi chiede. “Come puoi condividere qualcuno che ami con altri? Sono degli elementi che ha compreso a distanza di tempo. “Quando ero coinvolta in prima persona, ero la più grande sostenitrice di quello che facevo. Dovevo giustificare in qualche modo quello che facevo. Come avrei potuto sopravvivere altrimenti?” Quell’imperativo di sopravvivenza non ha portato Daisy a drogarsi o a bere, ma ha sviluppato un’altra mania compulsiva: “Compravo. Era la mia cura.” Verso la fine della sua esperienza, Daisy guadagnava £200 a serata e 500 da venerdì a sabato. Se li spendeva tutti, perché non sopportava l’idea di tenerli. Esistono anche danni fisici. Domandandole se avesse mai subito aggressioni da parte di clienti, Daisy mi ha indicato una cicatrice sul suo volto: la violenza è qualcosa di inevitabile quando ci si prostituisce.

Perciò se definiamo il sesso un lavoro, che diamine di lavoro è? L’elemento del danno fisico potrebbe avvicinarlo a un tipo di lavoro ad alto rischio, tipico degli uomini, come coloro che lavorano sulle piattaforme petrolifere; ma questo tipo di impieghi solitamente comportano una serie di vantaggi compensativi del pericolo che si corre. Nella prostituzione, l’unica cosa prodotta è l’orgasmo maschile, e più una donna è in uno stato di pericolo, meno può dettare le proprie condizioni. Forse allora il sex work appartiene ai generi di lavoro femminili più umili, come le pulizie e la cura dei figli (una connessione tra English Collective of Prostitutes e la campagna per il riconoscimento di un salario per le casalinghe); ma noi riconosciamo che il lavoro domestico è un lavoro anche se non retribuito, mentre il sesso dovrebbe essere un piacere e non un noioso obbligo. Per questo l’analogia non regge. Potrebbe essere qualcosa di simile a fare l’attrice o la ballerina – arti che presuppongono un pieno uso del corpo? (In questo caso ci sono dei precedenti storici, che vedono attrici e ballerine spesso associate all’immagine di prostitute o quanto meno ne avevano la fama). Ma gli attori e i ballerini sono personaggi pubblici celebri: la prostituzione avviene nel privato, e come la maggior parte delle cose che avvengono nel privato, essa non conferisce prestigio a coloro che la praticano, per quanto bravo/a possa essere.

Attori e ballerini non forniscono l’accesso ai loro organi intimi, e si applicano in una formazione personale onerosa, che non è richiesta a chi si prostituisce. Infatti, l’unico requisito per prostituirti è che tu abbia un corpo da penetrare e che un uomo sia disposto a pagare per farlo. I sostenitori del sex work, amano ricordarci che nessuna donna vende letteralmente il suo corpo, dal momento che mantiene la piena proprietà sulla propria persona. Ma chiaramente, ciò che viene pagato dai clienti è effettivamente il corpo – il bene che viene acquistato è il diritto di accedere al corpo della donna per un certo periodo di tempo e/o il compimento di atti specifici. Ciò che gli uomini comprano dalle donne non è il loro lavoro, ma una licenza monouso per penetrare il loro corpo. I critici della prostituzione sono spesso accusati di voler controllare la sessualità femminile, ma vale la pena ricordare che se la prostituzione dipendesse dai desideri delle donne, non dovrebbero essere pagate per partecipare: nessuno ha più potere sulla sessualità di una donna di un uomo che la paga per facilitare il suo orgasmo.

“Sex work” non è un termine neutro: esso veicola i suoi presupposti politici tacitamente nascosti, così come qualsiasi altra scelta. Quando parliamo di “sex work” noi avalliamo l’idea che il sesso possa essere una professione per le donne e un piacere per gli uomini – uomini che hanno il potere economico e sociale di agire come una classe di “padroni” in materia di prestazioni sessuali. Noi accettiamo che i corpi delle donne esistano in quanto risorsa “utilizzabile” dalle altre persone – persone di sesso maschile con i mezzi per pagare per scopare. La prostituzione è un’istituzione economica costituita non solo da donne che vendono sesso, ma significativamente, da uomini che creano la domanda, commettono la violenza ed estorcono un tributo emotivo alle donne con cui fanno sesso. Alcuni di questi uomini riconoscono che ciò che fanno può essere potenzialmente dannoso: un uomo intervistato (qui) ha ammesso che egli avverte quanto sia “emotivamente dannoso per le donne”, prima di auto-assolversi sostenendo di essere “solo uno in più dei tanti”. Daisy ha lasciato la prostituzione a 30 anni, e ora lei sostiene di essere di nuovo “un tutt’uno, mente e corpo”. Possiamo ascoltare solo lei e le donne come lei, se si desidera adoperare argomentazioni oneste in merito a ciò che comporta la vendita di sesso.


11 responses to “Sex work non è un termine neutro

  1. pittoredianime ha detto:

    Ho letto la traduzione dell’articolo, mi son fatto un’idea. C’è un rigetto – esiguo, involontario, marginale- della società del consumo in cui siamo immersi. Chiarisco subito che non sto sciorinando concetti ideologici o politici, il mare in cui nuotiamo non è d’acqua ma di bancomat, etichette e mode, questo credo sia pacifico.
    Questo rigetto, dicevo, è espressione del disgusto di pochi per la mercificazione di ciascuna cosa, il corpo è solo una componente, oggigiorno diamo un prezzo ad un sentimento, finto come una banconota da sette euro, magari comprato con un assegno.
    E’ un discorso molto amplio che potrebbe abbracciare vari ambiti, mi fermo perché risulterei troppo prolisso. Ci tengo però a condividere un pensiero: per quanto attiene la mercificazione del corpo, ad oggi dicembre 2014, anche la donna è protagonista come consumatrice.
    In misura minore, forse, però modelli, accompagnatori, gigolò non sono così rari.

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    • simonasforza ha detto:

      Il discorso si può estendere certamente ad altri ambiti. Qui ci sono in gioco delle vite umane, dobbiamo difendere chi non ha scelta. Per quanto riguarda il fenomeno maschile, esiste certamente, ma in misura differente, non solo in termini di numeri. Le radici e la natura sono diverse.

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  2. pittoredianime ha detto:

    Perdonami Simona se posso risultare invasivo, non è l’amore della polemica che mi spinge ma l’importanza dell’argomento che hai deciso di trattare. Mi concederò un’ulteriore risposta ringraziandoti per l’ospitalità che stai dimostrando.
    Non si può pensare che ci siano natura e radici diverse.
    Non ci può essere giustificazione ad atti sbagliati, per ogni azione c’è un motivo -certo è ovvio- non è detto però che sia valido.
    Dire che i motivi siano diversi è come sentir dire ad un sex offender – in volgare uno stupratore- che ha commesso il gesto perché la vittima era provocante: aveva una minigonna! Discorsi che fanno inorridire, son sicuro che convieni con me su questo, discorsi però che nascondono una traccia: apporre sull’orma del gesto un timbro di liceità. Qualsiasi sia la prospettiva, la luce, l’ombra o l’oscurità che accarezza un oggetto, l’oggetto rimane tale, cambia solo l’occhio che lo percepisce.
    Ecco, ti chiedo di non far sì che una differenza di luce possa mostrarti come diversa una cosa che diversa non è.
    Un saluto

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  3. pittoredianime ha detto:

    Appena possibile darò un’occhiata, nel caso offrendo la mia opinione anche lì 🙂

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  4. […] a non parlare di sex-work, ma di prostituzione. Le parole sono importanti. Ne avevo parlato qui. “Siamo vulnerabili perché viviamo nel sommerso, siamo isolate, abbandonate per strada o in […]

    "Mi piace"

  5. […] prostituirsi, tanto da non essere in grado di metterlo da parte (ricordiamo il racconto di Daisy qui). Io e tutte le sopravvissute lo sappiamo, non abbiamo mai conosciuto una prostituta felice. Ho […]

    "Mi piace"

  6. […] Qui in “Occidente” o nel mondo laico tendiamo a restare distanti, come se queste cose non ci riguardassero. Se ne parla molto poco. Si tratta della stessa “rimozione” che a volte si commette quando si parla superficialmente di prostituzione. Ragioniamo a compartimenti stagni. Questa estate Amnesty International ha di fatto preso posizione sulla prostituzione. Ha commesso due errori: separare la tratta e lo sfruttamento dalla prostituzione, adottando il termine “sex work”; neutralizzare la violenza definendolo un lavoro, e come fa giustamente notare Stephanie Davies-Arai (qui), ha rimosso la disuguaglianza di genere, attraverso l’uso del termine neutro “sex work”, che poi neutro non è, come dicevo qui. […]

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  7. […] come il termine sex worker, coniato dagli sfruttatori, serve solo a deformare la realtà di abuso e violenza di cui è intrisa […]

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