Nuvolette di pensieri

Mormora l'acqua del ruscello

Parliamone senza omissioni o paure: #surrogacy

su 22 marzo 2015
© Anne Geddes

© Anne Geddes

 

Non voglio entrare nel polverone di questi giorni. Non è quel punto di vista che mi interessa e che mi ha spinto a scrivere. Desidero partire dallo scritto pubblicato su DonnaeLab di Milena A. Carone (qui). Mettiamo da parte l’omofobia. Perché non si tratta di questo. Rischiamo di deviare il nostro ragionamento. Mi piacerebbe che ci fosse un dialogo sereno, aperto, senza paure. Invece, ancora una volta si ha paura di riflettere e di mettere in campo la questione del potere.

Il POTERE: chi oggi ha ancora in mano lo scettro virtuale e materiale, chi lo esercita, e i suoi squilibri tra uomini e donne. Il maschio, etero o omosessuale, resta quel primo sesso che ha sempre adoperato natura e donna per poter definire se stesso, per potersi affermare su tutto il resto. La discendenza è un nodo cruciale. Forse abbiamo trascurato il corpo femminile che per alcuni diviene oggetto, involucro per consentire questa discendenza. Non vogliamo essere incubatrici, madri per forza in quanto donne, non vogliamo essere oggettificate, adoperate come strumenti dagli uomini e poi, accettiamo di renderci tali per soddisfare un bisogno maschile di trasmettere i suoi sacri geni? Siamo schizofreniche a volte.

Ci può essere l’altruismo, il volersi mettere a disposizione di un’altra persona per aiutarla, ma questa è la faccia che più ci piace vedere o che tranquillizza il nostro immaginario. Dobbiamo avere il coraggio di guardare il lato in ombra e il ruolo delle donne in questo contesto e in quello più allargato dell’intera società. L’articolo tocca gli aspetti giusti. Io aggiungerei un’ulteriore riflessione. In questo tempo veloce, in cui ogni cosa si acquista e si consuma in fretta, anche il desiderio di maternità o paternità può subire questo destino, una volta raggiunto lo scopo. E allora non vorrei che questi figli fossero un soprammobile in nessun caso, che siano o meno frutto della scienza. Perché a monte ci deve essere qualche motivazione in più.
Personalmente credo che non ci sia differenza quando di tratta di maternità e paternità, che sia omo o etero, che si avvalga o meno della tecnica. C’è la stessa probabilità di incorrere in genitori più o meno sinceri e consci del proprio ruolo. Ma io rifletterei sulla vendita di un utero (più conseguente terapia ormonale pre-impianto, cosa da non sottovalutare), in cambio spesso di soldi. Si tratta di un controllo sul corpo di un’altra persona. Ha fatto bene l’autrice del post a richiamare un altro tema, la prostituzione. Io uso il corpo di una donna per soddisfare il mio bisogno di diventare padre, non curante dei suoi bisogni, se non quelli magari economici, che forse nella maggior parte dei casi saranno la molla vera ad essere incubatrici temporanee. E poi mi creo una serie di alibi, come il fatto che fosse pienamente consenziente, che tutto si basi su uno scambio equo e solidale.

Ecco, l’equità. Va tenuta presente l’equità delle posizioni “contrattuali” che si scambiano un bene, un servizio, in questo caso il comodato d’uso di un corpo. C’è sempre un equilibrio/squilibrio di potere economico-sociale-culturale tra le due parti? Possiamo affermarlo sempre? In che modo si manifesta lo squilibrio? Che distinzioni è necessario compiere? Se vogliamo disciplinare la materia, dobbiamo quanto meno adoperarci per evitare che questo squilibrio di potere, laddove c’è, si tramuti in una forma di violenza e di sopraffazione. Quando c’è di mezzo il denaro, dovremmo tutti essere più attenti.
Chi mi conosce o legge il mio blog, sa che io sono una sostenitrice della fecondazione artificiale, della diagnosi pre-impianto per evitare di trasmettere malattie gravi ecc. Son temi delicatissimi, su cui non si deve generalizzare, ma si deve conservare uno spirito critico, per osservare la realtà. Qui non stiamo parlando di semplice procreazione assistita, ma di una nuova frontiera di business, in cui c’è una domanda ben più vasta e sfaccettata delle casistiche di infertilità. Così come io non mi concentrerei solo sull’atto di generare, quanto sul crescere questi figli, starci insieme, aiutandoli a diventare degli adulti maturi e magari migliori delle generazioni precedenti. Perché questo non è mai un dato scontato, in ogni caso, in ogni contesto, in ogni combinazione genitoriale possibile.
Purtroppo, quando affrontiamo il tema non possiamo sgombrare il campo dagli abusi del business dell’utero in affitto e dello sfruttamento di donne. Altrimenti torniamo allo stesso modello di analisi semplicistico e appiattito di chi sostiene il sex-work bello e possibile. Spesso le condizioni delle donne che mettono a disposizione il proprio corpo non sono tali da consentire una piena libera scelta, un’alternativa. Sarebbe auspicabile, ma come in molte cose subentrano il business e le regole del mercato. Business per chi gestisce le “baby farms”. Potrebbero anche esserci donne che consapevolmente ci guadagnano da questa “opportunità” di vendere il proprio corpo, ma si potrebbero riproporre le stesse argomentazioni di cui ho spesso parlato a proposito della prostituzione. Quante potrebbero veramente dirsi libere da un bisogno che le spinge a questo tipo di soluzione?

A furia di non voler scontentare nessuno, ci riduciamo a un laissez-faire, in cui chi può si organizza e fa quel che gli pare, chi non può si adatta come meglio può, subisce e soccombe.

Non possiamo continuare a spostare il centro del discorso.

Poi non lamentiamoci se una donna scrive (qui): “Per noi la Gpa rimane un’esperienza cruciale di autocoscienza femminile; quando aiuta dei padri gay o dei padri single a diventare genitori, è un ulteriore strumento di liberazione dei maschi e uno straordinario modo per fare saltare in aria rappresentazioni sociali, ruoli di genere, imposizioni storiche fatte alle donne”.

Sì, con un bel colpo di spugna si spazzano via dominio e potere maschili, e si teorizza la liberazione maschile, facendo passare come taumaturgica la scelta di mettere a disposizione il proprio utero, missione necessaria per una pacificazione tra i sessi e per una presa di coscienza femminile. A mio avviso si tratta di negazione di un substrato culturale ancora vivo per supportare le proprie tesi. Oltre all’ignoranza c’è una rimozione colposa.

Dal mio punto di vista, sarebbe un impegno importante (psico-fisico), penso che lo farei solo se ci fosse un legame precedente, insomma una motivazione forte di partenza. Ma questo vale per me.

Resta il fatto che non è una passeggiata, anche perché il legame che si crea nei 9 mesi non è da sottovalutare, intendo dire che la separazione in alcuni casi potrebbe essere emotivamente dura. Questo non avviene sempre, ma dobbiamo metterlo in conto. Non siamo tutti uguali.

Penso che il percorso per diventare genitori non possa essere un puro tecnicismo, non può essere limitato ad esso, anche e soprattutto laddove ci si avvale della tecnica. Ci deve essere un percorso di presa di consapevolezza del senso pieno di ciò che comporta assumere quel ruolo per soli 9 mesi o per tutta la vita. In ogni caso.

E poi mi concentrerei sulla parola “bisogno”, a 360°.
C’è da compiere una riflessione su: il bisogno può e deve essere soddisfatto sempre e comunque, ad ogni costo? Perché poi ci sono sempre delle conseguenze delle mie azioni, delle mie scelte, di come soddisfo i miei bisogni. Vogliamo fregarcene delle responsabilità? Come si chiede Pina Nuzzo di DonnaeLab in un commento su Fb: “chi paga il prezzo?”

Soprattutto non vorrei che diventasse ancora una volta un tema discriminante per censo, per chi può permettersi di andare all’estero per soddisfare un desiderio, un bisogno di paternità o di maternità o come desiderate chiamarlo. Perché dobbiamo essere consci che delle regole si devono trovare, altrimenti resterà terra ignota, dove ognuno può fare come meglio crede. La domanda non è “perché e se vietare” la surrogacy, ma su chi tutelare, come tutelarlo, come equilibrare le parti e gli interessi di tutti.
E non crogioliamoci sulla spesso abusata parola “scelta”, moderno passepartout. E non conta nemmeno portare nella discussione storie di surrogacy felici, che presuppongono degli affetti, delle relazioni pregresse alla base della scelta della maternità surrogata, come una forma di dono. Questo è solo un pezzo del puzzle molto più complesso. Occorre tornare a discernere le cose più semplici. Senza chiudere gli occhi su aspetti della realtà che ci risultano scomodi da notare e da prendere in analisi. Ciò che ci disturba spesso ci è d’aiuto per capire gli aspetti più profondi e di difficile soluzione. Non adoperiamo la parola dono, per nascondere tutto il resto.

Se ci chiediamo cosa può spingere una donna a mettersi a disposizione, oltre al puro altruismo e senso del dono, da lì poi potremmo scoprire gli altri aspetti.

Ognuno di noi compie delle scelte, scegliere significa imboccare una strada ed essere consci che quella scelta è anche rinuncia a qualcosa, per me o per altri.

Forse alcune donne si sono disabituate a vedere e a riconoscere la questione degli squilibri di potere socio-economico-culturale-di genere. Si tende a dare per scontato l’assenza di un gradino, di un desiderio tuttora vivo di imporre da parte degli uomini i propri bisogni come irrinunciabili e “naturali”. Noi non possiamo stare a guardare. Quanto meno dobbiamo porci le domande e distinguere i casi. Dobbiamo ragionare attentamente affinché si riesca a trovare una regolamentazione che non sia cieca e sorda e pessima come lo è stato per la Legge 40. Dobbiamo trovare delle soluzioni che spazzino via discriminazioni e varie forme di violenza e di business a scapito delle donne.

Ecco che poi ti arriva anche il suggerimento (qui) per cui potrebbe rientrare in una professione.. Così ammazziamo come al solito ogni possibilità di dibattito su altri livelli.

Abbiamo permesso che la Legge 40 rendesse la fecondazione assistita un percorso ad ostacoli. Interroghiamoci su quali siano le priorità al momento e diamoci da fare affinché vengano rimosse le ultime barriere, chiediamo una regolamentazione che non sia di nuovo cieca e sorda. Per far questo ci vuole apertura mentale e di cuore, occorre il coraggio di scandagliare bene tutte le implicazioni e le sfaccettature del mondo Fivet.

A noi femministe il compito di essere “scomode” e di sollevare questioni cruciali.

 

Per approfondire:

http://www.theguardian.com/commentisfree/2015/feb/20/commercial-surrogacy-wombs-rent-same-sex-pregnancy

Baby Farms

http://www.dailymail.co.uk/femail/article-2574690/Wombs-rent-The-Indian-baby-farms-transforming-lives-poverty-stricken-local-women.html

http://timesofindia.indiatimes.com/india/SC-notice-to-govt-on-PIL-seeking-ban-on-commercial-surrogacy/articleshow/46376012.cms

http://www.bbc.com/news/world-asia-31546717

 


9 responses to “Parliamone senza omissioni o paure: #surrogacy

  1. cristinadellamore ha detto:

    Siamo consce che il proibizionismo tout court non funziona? E ci rendiamo conto che è sempre un problema di potere che nasce dai soldi? Se sì, è già un bel passo avanti. A me hanno chiesto soldi per un seme selezionato, con mia moglie abbiamo rifiutato, ovviamente

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  2. paolam ha detto:

    Cara Simona, che dire? L’ignoranza e l’inconsapevolezza di chi dovrebbe averne sono sconfinate. E non voglio presumere la malafede. metto il link di una Nota Fb sull’argomento, che mi è stata quasi estorta, perché i punti implicati dal tema in questione sono davvero troppi, e comporterebbero un impegno di scrittura… come il tuo!. Eccola qui: https://www.facebook.com/notes/paola-mazzei/corpi-di-servizio/806422612709282

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    • simonasforza ha detto:

      Grazie Paola, per il tuo contributo, che trovo molto interessante e che tocca dei punti fondamentali. Cito un passo centrale: “Per quanto mi riguarda, questo commercio è una delle versioni contemporanee della riduzione dei corpi delle donne a corpi di servizio, intendendo il servizio nei due aspetti che possono essere svolti da un corpo sessuato femminile: il servizio sessuale e quello generativo. E del resto, è questo il doppio compito che è sempre stato assegnato alle donne, congiunto che esso fosse in una stessa persona, anzi, in un unico corpo femminile, o disgiunto che fosse, nell’assegnazione dei due compiti distinti a due donne diverse, o a due categorie di donne allo scopo istituite”. Penso che renda benissimo il nocciolo della questione, su cui dovremmo riflettere.

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  3. Resta il fatto che (…) la separazione potrebbe essere emotivamente dura… sottinteso: per la madre. E per il bambin@? Mi stupisce non trovare traccia di questa riflessione nell’articolo.

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    • simonasforza ha detto:

      Cara Giada, hai fatto bene a sottolineare questo aspetto. L’impatto sui bambini è difficilmente valutabile, almeno in una fase precoce. La ricerca delle proprie origini è fondamentale per gli individui. Questo accade anche nelle adozioni. Non è una questione da sottovalutare assolutamente. Emotivamente sono tanti gli individui coinvolti, per questo auspico che si giunga a evidenziare tutte le problematiche connesse alla surrogacy, valutando come tutelare i soggetti più deboli e che magari non hanno la possibilità di manifestare una scelta totalmente autonoma. Ecco perché dicevo: “In questo tempo veloce, in cui ogni cosa si acquista e si consuma in fretta, anche il desiderio di maternità o paternità può subire questo destino, una volta raggiunto lo scopo. E allora non vorrei che questi figli fossero un soprammobile in nessun caso, che siano o meno frutto della scienza. Perché a monte ci deve essere qualche motivazione in più”.

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  4. […] L’aspetto della questione sulla quale mi sono concentrata io, però, non è tanto chi, come e perché decide di servirsi della surrogacy, ma la madre surrogata in quanto soggetto ignorato da tutti quelli che parlano di “utero in affitto”, un espressione di per sé emblematica dell’opera di rimozione della donna e del suo corpo intero. […]

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  5. […] L’aspetto della questione sulla quale mi sono concentrata io, però, non è tanto chi, come e perché decide di servirsi della surrogacy, ma la madre surrogata in quanto soggetto ignorato da tutti quelli che parlano di “utero in affitto”, un espressione di per sé emblematica dell’opera di rimozione della donna e del suo corpo intero. […]

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  6. […] dibattito v. Milena Carone, Che amara gabbana,  e  Simona Sforza, Parliamone senza omissioni o paure.  Per un analisi più generale v. Pina Nuzzo, Figure […]

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