Anche le parole sono importanti, influenzano la percezione che uomini e donne hanno dei generi, all’interno della società. Così come elidere il titolo accademico o istituzionale per le donne, chiamandole solo signora o con il nome proprio, significa stabilire un confine di disparità. Appellare una persona con il solo nome di battesimo non significa annullare le distanze (questo è quello che ci vogliono far credere), ma spesso è un utile escamotage per rimuovere qualsiasi barriera protettiva e aprire la porta a qualsiasi atteggiamento, violenza verbale, sopruso e abuso. La stampa e i media nostrani sono particolarmente inclini a riproporre i più beceri epiteti sulle donne, come se non ci fosse limite e rispetto. Si va dal sessismo benevolo a qualcosa di peggiore. Questo non accade solo sulla stampa, ma ci tocca quotidianamente, sia nella vita reale che sui social. Capita che quando un uomo non ha argomentazioni per sostenere le sue tesi, trovandosi di fronte a un’interlocutrice, per zittirla e colpirla con violenza, la apostrofi con parole come: tesoruccio, micetta, miciona, patatina, fegatosa erinni (come qualcuno mi ha di recente apostrofata), ciccina ecc.: insomma ci siamo capiti. È come se ti volessero schiacciare con le parole, intendendo svilire ogni tentativo civile di dialogo e confronto. Questo accade su ogni tipo di argomento, la politica in primis. Tutto ciò è il risultato di venti anni nel corso dei quali le espressioni di sessismo, omofobia e razzismo hanno avuto pieno sostegno da buona parte delle forze politiche. Poche le voci che si sono esposte per diffondere e chiedere un linguaggio e dei comportamenti corretti. Questo perché in realtà si doveva difendere e diffondere l’idea di un soggetto maschile forte, arcaico, superiore, in grado solo di propagandare una visione triste, sbagliata e sconfortante dell’idea di maschio. Un atteggiamento trasversale, che parte da destra e arriva anche in area cosiddetta progressista.
Anche l’uso del maschile generico (per rappresentare uomini e donne indistintamente) e il fatto che in alcune lingue i sostantivi hanno un proprio genere grammaticale, maschile e femminile (l’italiano, il francese e il tedesco), possono avere (secondo alcuni studi) un riflesso nelle differenze di status uomo-donna. L’inglese e le lingue scandinave hanno nella maggior parte dei casi sostantivi neutri e il genere viene definito attraverso l’uso dei pronomi. Qui se si desidera approfondire.
Sembrerebbe che il gap tra i generi sia influenzato anche dalla lingua e dalla dotazione (o meno) di un genere preciso per i sostantivi.
Proporre cambiamenti in ambito grammaticale può forse servire a migliorare le cose. Al di là dell’uso dell’articolo “la” al posto di “il” (per esempio per la parola “cantante”), una “-a” al posto della “-o” è meglio del suffisso “-essa”: avvocatessa sembra trasmettere implicitamente un prestigio inferiore, mentre avvocata (forma simmetrica) aiuterebbe a equiparare i due status (vedi Alma Sabatini, 1987 qui; pag. 129, Chiara Volpato, Psicosociologia del maschilismo).
A volte le sfumature sono importanti.
L’ha ribloggato su tasurinchi.
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la correttezza non si può imporre per decreto. se qualcuno/a ti apostrofa come “tesoruccio” sui social per sminuirti bisogna cercare di non farsi intimidire
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[…] di una gestione del potere malata e dannosa. Noi non staremo zitte! Altri post sul sessismo: https://simonasforza.wordpress.com/2014/11/12/le-parole-contano/ https://simonasforza.wordpress.com/2014/10/16/le-strategie-del-dominante/ […]
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