Qualche giorno fa avevo letto un articolo di Giovanna Badalassi sul mensile Noi Donne (qui), in merito a welfare, donne e lavoro.
Il testo ci sprona a leggere il reale contingente, i dati, i fenomeni, senza necessariamente passare per soluzioni e chiavi di lettura del passato, da non rinnegare a priori, ma da re-inventare. È un invito a cambiare l’approccio nelle politiche, per un nuovo saper fare politica. Solo un lavoro a 360° che includa diverse chiavi di lettura, ci può aiutare a leggere la complessità dei fenomeni sociali ed economici contemporanei.
“Lo sviluppo degli avvenimenti impone che le donne si impegnino su politiche a tutto campo, che ragionino anche di economia, sviluppo economico, di innovazione, politiche industriali, ambiente, contribuendo alla ricostruzione del benessere per tutti.”
L’impegno a cui siamo chiamate noi donne è un’attività che non collima con la semplice “presa del potere” fine a se stesso, bensì implica la messa in campo capacità nuove e sgombre da questioni di accaparramento di posizioni istituzionali e di potere. Ciò che è urgente è ben altro. È il nostro saper mettere in rete le idee e le soluzioni innovative e il nostro saper far rete.
“Capire, ad esempio, la portata e l’importanza di leggere l’economia e i conti pubblici in ottica di genere, avere le competenze per farlo ed elaborare proposte e politiche conseguenti. Saper leggere in ottica di genere un piano regolatore comunale, l’impatto occupazionale dei piani delle grandi opere e dei lavori pubblici, le scelte di politica fiscale, industriale e ambientale”.
Palese che non ci siano più risorse da investire e che non si possa contare su aumenti di spesa. Forse occorrerebbe ripensare a strategie e soluzioni, che non vadano a discriminare o a penalizzare nessuno, ma che sappiano guardare in faccia la realtà.
“il dato tutto italiano è l’abbandono del lavoro delle mamme alla nascita del primo figlio: lo fa quasi un terzo delle donne occupate, secondo i dati diffusi dall’Istat e dall’Isfol”.
Questo un punto cruciale, che ripeto non viene risolto con più nidi (questo è solo un pannicello caldo adoperato dai politici quando fanno i loro monologhi e show elettorali), ma con una seria e democratica (non solo per i soliti fortunati) flessibilità lavorativa, declinata al maschile e al femminile. Una rivoluzione culturale e mentale nel rapporto tra lavoratori e lavoratrici e datori di lavoro. Finora si è contato troppo e quasi esclusivamente su nonni e tate. Ma essere genitori dovrebbe essere una cosa diversa.
Se il lavoro, come mi ha detto di recente una mia coetanea, è come l’aria, forse sarebbe anche giunto il momento di rendere quest’aria più respirabile, per uomini e donne, per non trovarci impaludate sempre nel medesimo “equivoco” (per non dire gabbia) per cui sono le donne che si devono assumere da sole i compiti di gestione di casa, famiglia e figli. Forse sarebbe anche giunto il momento di ragionare su quale sia il giusto equilibrio tra lavoro e vita privata, e di cosa ne rimane di quest’ultima. Noi donne, al pari degli uomini, abbiamo finito con l’investire tutto il nostro essere nel lavoro, dandogli un valore smisurato e inconsapevolmente ne siamo divenuti strumenti, defraudati del senso della misura. Pensavamo di ricavare dei benefici immediati e tangibili dalla nostra partecipazione al lavoro. Forse per un periodo stato davvero così. Oggi possiamo affermare che è stato totalmente un successo? E se non lo è stato, cosa non ha girato nel verso giusto?
Se poi il lavoro scarseggia, non si può parlare e martellare a vanvera, facendo passare le donne come un mucchio di svogliate scansafatiche. Nessun incentivo tiene se c’è poco lavoro e i servizi sono rari o inesistenti. Il non lavoro ha molti perché, forse chi ha il compito di fare le leggi dovrebbe informarsi a riguardo, senza procedere per pregiudizi.
Infine, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare dei decreti attuativi del Jobs Act (qui un articolo su La Voce):
“Se nel complesso sono indicazioni positive a sostegno della maternità e del lavoro delle donne, restano aperti due aspetti. Il primo è che per ora si tratta di una delega e solo i decreti attuativi stabiliranno se gli obiettivi si tradurranno in prassi. Il secondo riguarda la clausola secondo cui ogni intervento dovrà essere realizzato senza ulteriori spese a carico dello Stato. Il rischio è che per quanto significative o condivisibili possano essere le politiche, la loro realizzazione dipenderà dall’effettivo reperimento di risorse economiche. E finora il nostro paese non è riuscito a considerare queste misure come prioritarie per lo sviluppo, e quindi in cima all’agenda politica. Un cambio di passo è quanto mai necessario”.
Abbiamo sotto i nostri occhi il risultato drammatico di un sistema lavoro-vita privata arcaico, immobile, granitico come quello che ci riporta Maria Rossi (qui), nella sua analisi del lavoro Dieci domande su un mercato del lavoro in crisi, di Emilio Reyneri e Federica Pintaldi. Un sistema lavorativo che premia il maschio, che attraverso il matrimonio riesce a garantirsi una serie di “servizi” di assistenza e di cura che gli permettono di concentrarsi sul lavoro e di essere anche più appetibile sulla piazza lavorativa. C’è una pericolosa frattura che ci spinge ancora verso il basso: necessità di tempo parziale per far fronte ai carichi familiari e salari che discriminano per genere. Se poi sei precaria, sei spacciata.
Cosa è stato fatto per realizzare i principi contenuti nella Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (1979, qui il testo), ad opera dell’Onu? Ha la mia stessa età e i suoi auspici sono ancora quasi tutti rimasti sulla carta. La realtà ha subito per alcuni aspetti dei drammatici passi indietro.
Nel testo di Maria Rossi leggiamo:
“In Italia il tempo consacrato dalle donne al lavoro familiare è il più alto in assoluto nell’Unione Europea e quello che vi dedicano gli uomini il più basso (dati Eurostat del 2006). Allo stesso tempo il tasso di occupazione femminile è il meno elevato . I due dati sono strettamente correlati, naturalmente. Altrettanto evidente appare la connessione tra l’assetto familistico del mercato del lavoro e quello del welfare, impostato sulla rigida divisione dei ruoli di genere. Gli uomini provvedono al mantenimento della famiglia, le donne sono delegate (e relegate) allo svolgimento del lavoro domestico e di cura. A loro continua ad essere affidata l’assistenza degli anziani non autosufficienti, degli infermi e dei bambini, considerata la drammatica carenza dei servizi pubblici. E’ necessario pertanto destrutturare l’intero sistema imperniato sul principio della divisione sessuale del lavoro se si vuole riequilibrare il rapporto fra uomini e donne.”
Vorrei qui commentare le proposte formulate da Maria Rossi nel suo post.
Punto 1. “Per evitare la discriminazione delle donne, dei migranti e dei giovani sul mercato del lavoro, si dovrebbe ripristinare l’obbligo della richiesta numerica nelle assunzioni, abrogato nel 1987 e sostituito dalla chiamata nominativa. Il sistema è stato poi completamente liberalizzato nel 1996. I datori di lavoro, che intendono assumere personale, dovrebbero cioè rivolgersi obbligatoriamente ai Centri per l’impiego e presentare una “richiesta di avviamento al lavoro”, nella quale andrebbero inseriti soltanto dati relativi al numero dei dipendenti richiesti e alla qualifica che devono possedere. Gli aspiranti lavoratori verrebbero inclusi in un’unica graduatoria, non differenziata, cioè, per genere e per nazionalità. Il sistema violerebbe le norme sulla libera concorrenza? Embé! Infrangiamole! Il principio della non discriminazione è più importante del rispetto delle regole del mercato”.
Sarebbe auspicabile quanto scrivi, soprattutto andrebbe assicurata la trasparenza nel mercato del lavoro, un reale funzionamento dei centri per l’impiego, a cui si è privilegiata una gestione privatistica della collocazione lavorativa. In un contesto di lavoro scarso, si è affermato un accesso al lavoro sempre più per reti e sulla base di relazioni personali. Questa è un’abitudine storica italiana, ma con la contrazione dei posti disponibili, la situazione si è aggravata. I risultati non sono sempre stati a vantaggio di una migliore qualità del lavoro, anzi. Per non parlare poi di certi metodi di reclutamento di personale che hanno interessato anche il pubblico. Forse la prima richiesta dovrebbe essere maggior trasparenza e un taglio drastico ai metodi di reclutamento familistico.
Punto 2. “Si dovrebbe procedere alla riduzione massiccia dell’orario di lavoro a parità di salario. Ciò consentirebbe di ridistribuire su una più ampia platea di soggetti gli impieghi disponibili. Questa misura dovrebbe essere affiancata dalla promozione di un processo di socializzazione e da un mutamento culturale tale da produrre lo smantellamento dei ruoli di genere. Gli uomini sarebbero così indotti a svolgere le stesse mansioni domestiche e di cura delle donne. La riduzione dell’orario di lavoro si tradurrebbe pertanto in una più equa ripartizione non solo degli impieghi produttivi, ma anche di quelli riproduttivi e in una più ampia disponibilità di tempo libero, soprattutto per le donne. La produzione dovrebbe essere cioè riprogettata e adattata a lavoratori e a lavoratrici che si assumono in ugual misura responsabilità di cura”.
Sarebbe auspicabile, sarebbe un’inversione culturale rivoluzionaria. Penso che questo potrebbe accadere solo in un sistema con una forte dirigenza statale, in un contesto statale che ri-assuma su di sé un forte ruolo di indirizzo economico, esattamente il contrario della deriva liberale in atto da qualche decennio. Un differente utilizzo del tempo lavorativo, ormai dilatato in modo abnorme (spesso senza ricavarne benefici in termini remunerativi), lasciando spazio al tempo per la vita, consentirebbe di sviluppare attività sociali, comunitarie e partecipative, indispensabili per sfuggire a un’alienazione da lavoro che oggi ancora esiste, solo assume forme più subdole e meno riconoscibili. Saremmo dei cittadini/e meno passivi/e.
Punto 3. “Si dovrebbe diminuire in modo significativo anche l’età pensionabile”.
Questo prevederebbe l’approntamento di una copertura di spesa, attuabile solo se per esempio si intraprendesse una seria lotta all’evasione fiscale. Non mi sembra che ultimamente si vada in questa direzione, purtroppo. C’è da fare un bel lavoro “a monte”.
Punto 4. “L’intera normativa sul lavoro che in questi due decenni ha introdotto la precarietà ed ha sottratto diritti alle lavoratrici e ai lavoratori dovrebbe essere abrogata, a partire dalla legge Poletti che ha sancito la totale liberalizzazione del contratto a termine e dal Jobs Act (legge delega 10 dicembre 2014 n. 183 e relativi decreti attuativi sui licenziamenti).
Si dovrebbe introdurre un reddito di esistenza universale e incondizionato, esteso agli immigrati. La sua erogazione potrebbe configurarsi come un potenziale contropotere, che incrinerebbe le condizioni di forte subordinazione dei precari. Garantire infatti un reddito stabile e continuativo a prescindere dalla prestazione lavorativa significherebbe ridurre il grado di ricattabilità dei singoli lavoratori/trici e incrementare il loro potere contrattuale. Significherebbe anche affermare il diritto di scegliere l’attività lavorativa e di riappropriarsi della quota di ricchezza sociale che si è contribuito a creare per il fatto stesso di esistere e di esercitare costantemente le proprie capacità di apprendimento e come remunerazione del lavoro produttivo di valori d’uso. La disponibilità di un reddito costituirebbe, soprattutto, uno strumento importante per l’esercizio dell’autodeterminazione, in particolare per le donne, in maggioranza prive di un’occupazione retribuita, consentirebbe alle vittime di sfuggire più agevolmente alla violenza dei partner e alle mogli prive di lavoro di separarsi più facilmente dai compagni nel caso in cui il matrimonio o la convivenza fossero diventati fonte di infelicità.
Si dovrebbe però scongiurare il fatto che l’introduzione di tale misura si risolva in una rinuncia da parte delle donne ad esercitare un’attività extradomestica che ritengono gratificante per evitare la fatica del doppio lavoro e in un disimpegno ancora maggiore degli uomini nello svolgimento delle incombenze domestiche e nell’assistenza a bambini, anziani, infermi. Ne deriverebbe il rafforzamento dei tradizionali ruoli di genere e, forse, un ulteriore ridimensionamento dello stato sociale.
Si dovrebbe soprattutto evitare che i datori di lavoro accentuino la loro predilezione per gli uomini nelle assunzioni, consolidando e irrobustendo la struttura familistica e patriarcale dell’organizzazione produttiva.
Per sfuggire a queste conseguenze è fondamentale, a mio avviso, affiancare a questo provvedimento la riduzione dell’orario di lavoro e innescare un processo di decostruzione dei generi e delle funzioni ad essi attribuite”.
Ripeto quanto ho detto al punto 2. Condivido le tue considerazioni su reddito di esistenza universale e incondizionato. Sarebbe da invertire l’attuale sistema che vede lo stato ritirarsi, disimpegnarsi, legittimare una gestione privata di molti aspetti delle nostre vite, in un sistema lavoro che decentra le regole e i diritti, che privilegia la contrattazione decentrata, a livello di fabbrica o peggio ancora ad personam, a discapito di quella centralizzata. In questo contesto, si comprende quanto siano diventate aleatorie le regole all’interno del mercato del lavoro. La tendenza attuale va verso una pericolosa nebulizzazione dei diritti.
Punto 5. “Si potrebbe eventualmente prendere in considerazione la creazione diretta da parte dello Stato o dell’Unione Europea di nuova occupazione qualificata, socialmente utile ed ecocompatibile e si dovrebbe procedere alla riconversione secondo tali principi dell’intera economia”.
Concordo, ci dovrebbe essere un nuovo impegno dal centro.
Punto 6. “Si dovrebbe introdurre un salario minimo europeo e pretendere il superamento del blocco dei contratti nella pubblica amministrazione contro il quale i sindacati hanno già depositato un ricorso al Tribunale di Roma, sollevando la questione di legittimità costituzionale”.
C’è bisogno di più Europa, ma realmente “socialista” e unitaria.
Punto 7. “Ritengo poi indispensabile estendere e riconfigurare il welfare state, o meglio, organizzare un commonfare imperniato sulla cooperazione sociale nella gestione dei beni comuni”.
Concordo. Qui la mia opinione sul commonfare.
Punto 8. “Ciò comporta preliminarmente l’abrogazione della norma sul pareggio di bilancio inserita nella Costituzione dal Parlamento italiano nel 2012 e la disapplicazione dei trattati europei di impianto neoliberista, a partire da quello sulla stabilità, coordinamento e governance nell’Unione economica e monetaria, noto come fiscal compact, che prevede fra l’altro l’obbligo per i Paesi con un debito pubblico superiore al 60% del PIL di rientrare entro tale soglia nel giro di 20 anni ad un ritmo pari ad un ventesimo dell’eccedenza in ciascuna annualità e il dovere di avere un deficit pubblico strutturale non superiore allo 0,5% del PIL. Si dovrebbero altresì modificare le disposizioni che regolamentano il funzionamento della Banca d’Italia, obbligandola ad acquistare i titoli di Stato rimasti invenduti. Ne deriverebbe il calo degli interessi su BOT e CCT e, dunque, la riduzione del debito pubblico e la salvaguardia dell’Italia da ulteriori manovre speculative. In assenza di questi provvedimenti, assisteremo – temo – ad un’ulteriore contrazione della spesa pubblica e all’accelerazione del processo di privatizzazione e di smantellamento del welfare state. Altro che espansione!
Si dovrebbe poi procedere alla ristrutturazione del debito pubblico e proclamare il diritto all’insolvenza”.
Speriamo nelle capacità del nuovo governo greco per trovare la chiave di un cambiamento di ottica e di mentalità.
Punto 9. “Si potrebbe, come proposto dagli intellettuali neo-operaisti, istituire una “moneta del comune” intesa come riconoscimento e remunerazione del lavoro vivo incorporato nelle attività di riproduzione e come potere d’acquisto da spendere nei servizi sociali (sanità, istruzione, cura…, ma anche trasporti) offerti all’interno di un circuito di valorizzazione consacrato alla produzione di valori d’uso e non di scambio.
Su questo punto non saprei come procedere per una concreta attuazione. Ma penso che ci voglia un cambiamento nella nostra percezione del lavoro, dei beni e dei servizi.
Punto 10. “Le politiche di welfare dovrebbero includere anche l’estensione della durata del congedo di paternità per nascita di un figlio. Il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro dovrebbe essere di pari durata di quello di maternità o, almeno, di tre mesi da fruire dopo il parto della partner. Il padre del bambino, proprio come la madre, dovrebbe percepire un’indennità sostitutiva di importo pari a quello della retribuzione. Il congedo parentale (facoltativo) dovrebbe essere fruito da entrambi i partner e comportare la corresponsione di un’indennità pari o di poco inferiore all’importo della retribuzione. Finché verrà retribuito al 30% del salario, ne fruiranno solo le madri, che, com’è noto, percepiscono di solito una remunerazione inferiore a quella dei compagni”.
Su questo aspetto, tra gli altri, si concentra la relazione Tarabella.
Punto 11 “Si potrebbero sperimentare forme di socializzazione del lavoro domestico e di cura che coinvolgano anche gli uomini e nuove modalità abitative che incentivino la cooperazione nell’attività di riproduzione”.
Da attuare senza che vi sia sopraffazione da parte di coloro che hanno magari uno status economico-sociale più elevato. Ho ascoltato un’esperienza di questo tipo, con più nuclei familiari uniti in una specie di comune (in questo caso di stampo cattolico), ma mi è sembrato che alcuni lavori e oneri di cura e di assistenza ricadessero in qualche modo su alcune famiglie in particolare. Dobbiamo evitare che si creino fenomeni di servitù volontaria.
Inoltre si dovrebbe passare da una mentalità individualistica a una maggiormente collettiva.
Punto 12. “Si dovrebbero promuovere forme di autorganizzazione e di autogestione”.
Un esempio: la Ri-Maflow.
Punto 13. “Si dovrebbe abrogare la legge Bossi-Fini che, collegando la concessione del permesso di soggiorno al possesso di un contratto di lavoro, obbliga gli stranieri ad accettare qualsiasi impiego ed impone loro l’assoggettamento alle peggiori forme di sfruttamento. Si dovrebbe applicare il principio della libera circolazione di tutti in qualsiasi parte del mondo e quello dello ius soli per i figli degli immigrati nati nel nostro Paese”.
Condivido!
Punto 14. “I titoli di studio conseguiti dai migranti nel loro Stato dovrebbero essere riconosciuti in Italia”.
Condivido!
Punto 15. Agli immigrati dovrebbe essere garantito il godimento di tutti i diritti sociali assicurati ai cittadini italiani.
Condivido!
Per gli ultimi tre punti, in primo luogo dovremmo porre fine alle barriere, alle propagande che contrappongono Noi/Loro, a una trincea a difesa di separazioni assolutamente indegne di un paese e di una Europa civile e democratica.