Nuvolette di pensieri

Mormora l'acqua del ruscello

Cosa accadrà dopo gli hashtag #metoo e #quellavoltache?

su 19 ottobre 2017


Mi sono presa un po’ di tempo per riflettere. Un tempo che non è quasi più possibile concedersi prima di provare a leggere ciò che accade. Per vari motivi ho assunto questo tempo lento e l’ho adoperato. Soprattutto in ascolto e in dialogo. Forse questo pezzo non sarebbe stato scritto senza tutto questo, senza tutto ciò che in questi giorni mi ha attraversato, senza lo scambio come sempre proficuo con Maddalena, senza tutte quelle coincidenze che ti portano a interrogarti, senza fretta, mettendo insieme tutti i pezzi. Provando a gettare lo sguardo un po’ attorno, un po’ più in là delle circostanze e dell’immediato accadere.

 

Cosa accadrà dopo l’hashtag #metoo o #quellavoltache?

Cosa accadrà dopo che avremo esaurito questo canale in cui convogliare la nostra indignazione e le nostre innumerevoli esperienze in cui il potere maschile si è palesato e ha voluto agire su di noi un abuso, una molestia, una violazione della nostra persona?

Cosa accadrà quando questo flusso di coscienza collettivo sarà esaurito e ripiegato su se stesso, quando i trend dei social si saranno sgonfiati? Cosa accadrà alle donne dopo questo moto spontaneo di condivisione? Mi chiedo questo e, immediatamente dopo, quale sia il senso compiuto di una denuncia se resta solo tra le mura di un social, persa nel flusso senza sosta, soppiantata da un’altra notizia, con la velocità delle ali in volo di un colibrì. Cosa accade ogni volta che una donna trova il coraggio di parlarne e dopo subentra un silenzio spiazzante a coprire tutto? Scoperchiare il pentolone su questo tipo di fatti è un po’ ingenuamente come scoprire in che condizione vivano le donne e sorprendersi di come sin da piccole si debbano confrontare con simili costumi machisti, tutti connotati da un senso di onnipotenza e di proprietà delle “femmine”. Femmine per dare un senso di assimilazione al mondo animale, perché evidentemente una certa mentalità e stile di comportamento maschile non sono mai andati oltre al considerarci sub-umane, confermando l’esercizio consolidato nei secoli di una sorta di “diritto” maschile su di noi.

L’ingresso delle donne in un numero crescente di ambiti non ha fatto altro che moltiplicare le occasioni in cui sottometterle, molestarle, ricattarle, manipolarle, umiliarle. Perché nel frattempo non c’è stato un cambiamento culturale in quel tessuto maschilista, mai incrinato e mai messo in discussione. Perché nel frattempo si è confidato in un progressivo riassetto, in chiave di restaurazione o in chiave progressista. Perché nel frattempo i comportamenti e le modalità di relazione sono rimaste irrigidite su un’incompleta accettazione della presenza e del ruolo pieno e non subordinato delle donne. Non si tratta unicamente di molestie o ricatti sessuali, ma di un’infinita sequenza e varietà di sottili lesioni dei diritti fondamentali e della dignità delle donne. Non essendo mai stati seriamente affrontati, avendo subito cicliche rimozioni e riduzioni, scardinare questi comportamenti, talmente invasivi da restare nel profondo delle esperienze delle donne, risulta un percorso in salita. Restano lì e riaffiorano, come abbiamo visto in questi giorni.

Due anni fa usciva il libro-denuncia Toglimi le mani di dosso di Olga Ricci, che costituisce una tappa fondamentale nel cammino di una consapevolezza nuova, visto che è un testo in cui l’autrice racconta la sua esperienza di molestie e ricatti nel mondo del giornalismo. A monte vi era un blog, Il porco al lavoro, purtroppo al momento offline, che ha raccolto tante storie di donne che hanno vissuto esperienze simili. Le storie riaffiorano e danno voce a vissuti traumatici, sepolti sotto un’enorme difficoltà e senso di impotenza che induce a le donne a tenere per sé gli abusi. Olga Ricci creò nel suo blog uno spazio in cui queste testimonianze potessero emergere e potessero ottenere la giusta attenzione, creando una sensibilità non fugace, né frettolosa. Penso che questo sia stato il suo pregio, dare una casa a queste storie, passare dalla dimensione individuale di un’esperienza a una più ampia, mostrando un fenomeno enorme, sottovalutato, volutamente marginalizzato e reso invisibile. Lavori come quello di Olga Ricci hanno materializzato queste lesioni che le donne trovano sul loro cammino professionale e lavorativo, consegnandole ad una valenza non più individuale ma collettiva, perché la violenza di genere giammai deve essere relegata al ruolo di una vicenda personale della singola donna abusata.

Le storie, come quella di Olga, ci scuotono per riportarci con i piedi per terra, per ricordare a coloro che sostengono che nel mondo del lavoro le donne abbiano raggiunto la parità, anzi che siano “avvantaggiate”, che così non è, che il sistema non si è ancora liberato di questi mostri che si sentono padroni delle donne, come se fossero soprammobili e oggetti a loro completa disposizione. Quel racconto vivo arriva come un pugno, perché parla a noi donne e riesce a portare a galla il senso di impotenza, di confusione, di frastornamento, di solitudine e di isolamento. Congiunto ai sensi di colpa e anche di incredulità che ci travolgono quando ci troviamo ad affrontare simili abusi e che ci portano a porci tanti se, tanti punti interrogativi col conseguente senso di smarrimento. Uno schiaffo a tutte le nostre competenze, aspirazioni legittime, a fare semplicemente bene il nostro lavoro, quello per cui siamo disposte a lavorare per pochi euro, senza orario, senza prospettive, senza contratto, solo per passione, perché non ci si riesce a immaginare in un’altra occupazione. Perché le nostre competenze dovranno pur valere? Oppure è una chimera, un mito?

Eppure dopo la pubblicazione e la divulgazione di Toglimi le mani di dosso non c’è stato l’effetto “bomba”, come ci si sarebbe aspettate. Non un interrogarsi e uno scuotersi dello specifico ambito lavorativo messo sott’accusa, alcuna luce ha rischiarato le fitte nebbie descritte da Olga Ricci, al sol fine di tentare di affrontare il problema delle molestie sui luoghi di lavoro. Non c’è stata una diffusione a tappeto del dibattito. Se ne è parlato, certamente, ma di certo non si è verificata la valanga di commenti e reazioni innescate dalla vicenda Weinstein. Perché? Cosa ha impedito di affrontare questo problema e scoperchiare il vaso di Pandora? I lustrini e lo star system si sono svegliati da un consapevole torpore o, meglio, fenomeno di cecità omertosa e condivisa del “tutti sapevano ma abbiamo preferito girare la testa dall’altra parte”, atteggiamento che non scagiona e non costituisce un alibi per chi attorno non è intervenuto a fermare il produttore. E, forse, occorrerebbe poter convogliare questo diffuso malessere per potere passare dallo star system ad altri ambiti lavorativi, chiamando ciascuno alle proprie responsabilità. Perché conosciamo le ragioni per cui le donne fanno fatica a denunciare e il contesto è uno dei fattori: il rischio che non ti credano, che ti puntino il dito dicendo che te la sei cercata o che ne hai tratto dei benefici, è altissimo. Processate e colpevolizzate dall’opinione pubblica e da chi gli sta intorno, spesso lasciate sole in queste battaglie a difendersi da attacchi su più fronti.

Non permettiamo che cada il silenzio e che tutto si risolva in un’ondata temporanea di reazione e di denuncia, impegniamoci a consolidare consapevolezza e azioni capaci di rendere permanente la nostra protesta. Certi abusi, molestie e ricatti non devono più trovare spazi e conseguentemente essere tollerati come consuetudine ineluttabile. I social mangiano tutto, i social divorano velocemente consumando un tema dietro l’altro. La scia, affinché sia positiva e produca effetti duraturi, necessita di un’assunzione collettiva di responsabilità perché le cose cambino, ciascuno nel proprio contesto, scuola, media, aziende pubbliche e private, associazioni, gruppi, famiglie, magistratura, corpi intermedi, istituzioni. Abbiamo bisogno di risposte politiche perché si tratta di questioni politiche.

Certamente gli hashtag hanno fatto da detonatore a tante storie personali, sepolte ma mai rimosse. Ma tutto sta avvenendo in un luogo che non offre la possibilità di garantire la giusta protezione, profondità e che non permette un passaggio ulteriore. Un passaggio necessario perché la bufera mediatica non sia avvenuta inutilmente e, soprattutto, perché si compia un cambiamento concreto. I social, in grado di accendere in pochi istanti i riflettori, hanno reso evidente l’esistenza di un fenomeno dai contorni enormi, anche se non se ne ha purtroppo un quadro preciso. Un’onda lunga di partecipazione e condivisione c’è stata, inutile negarlo, ma passiamo a valutare l’effetto di questo tsunami alla luce di quanto di molesto vorremmo che non accadesse più sui luoghi di lavoro.

Impegniamoci affinché ci sia maggiore e migliore consapevolezza sul problema e sugli strumenti difensivi, a disposizione di chi subisce questo tipo di soprusi, abusi e violenze. Interroghiamoci su come trasformare la consapevolezza personale in una collettiva, il più possibile permanente, e determiniamoci a che il racconto di ciascuna non si richiuda su se stesso e non si riaccostino i battenti della questione, terminata la prima fase di consapevole narrazione.

Dopo la catarsi collettiva attraverso gli status su Facebook si deve costruire, per uscire dal vicolo cieco, non richiudere il problema nella scatola, tornando al proprio privato dopo aver raccontato #metoo. Poiché non è il racconto su un social idoneo né sufficiente a mutare il quadro concreto, è necessario consolidare in azione la protesta virtuale e guardare le molestie da vari punti di vista. Colmare quella mancanza di solidarietà, che ha fatto puntare il dito e giudicare le donne, capire cosa accade tra colleghe, indagare sulla terra bruciata che si crea attorno a chi subisce questi abusi e si sente come Olga. Capire perché per un hashtag si crea un effetto domino di reazioni a catena e poi nella vita lavorativa di solidarietà ve ne è così poca, se non addirittura zero. In un senso di precarietà che tutto inghiotte, rivalutare anche questo stato d’animo di solidale empatia , che non deve essere considerato zavorra inutile e demodé.

Interroghiamoci sul perché ci liberiamo delle nostre personali zavorre sui social, ma anche sul motivo per il quale in parallelo non reagiamo di fronte ad un episodio di molestie e di ricatti sessuali che riguardi una collega. Riflettiamo sul fatto che sono tante le variabili e che ognuna reagirà diversamente non solo dall’altra, ma a seconda del frangente e del momento di vita.

Cresciamo con costanti percezioni di doverci muovere nelle sabbie mobili di discriminazioni, sessismo, giudizi e pregiudizi, eppure siamo sempre impreparate, incredule quando ci imbattiamo in certi vortici di molestie. Vengono meno difese e lucidità per poter reagire. Su questa paralisi “i porci al lavoro” contano, insieme al fatto che molto probabilmente non denunceremo, perché l’onere della prova per ricatti e molestie resta a nostro carico, così come dentro noi ne resteranno gli effetti. Potremmo anche scegliere di non denunciare mai, ma il danno che abbiamo subito è reale, non è inesistente. Voi questo dovete riconoscerlo, altrimenti siamo proprio all’anno zero. Da questo riconoscimento del danno si deve partire, senza minimizzare o derubricare.

Andiamo al di là dell’uso spontaneo delle nostre testimonianze e della loro funzione, come se fossero solo fotogrammi di tante vite e valutiamo gli effetti al di là del luogo virtuale adoperato per parlarne. Se quel #metoo riuscisse a superare la dimensione personale e diventasse una dimostrazione collettiva, per dire “anche se non ho mai subito, io ti supporto, io ti credo, io ti difendo, io sto al tuo fianco, senza se e senza ma, perché mi metto nei tuoi panni e non sto col bilancino e il cronometro in mano per giudicare come e dopo quanto ne hai parlato”, potrebbe diventare collante umano per mandare in soffitta queste barbariche modalità di oppressione delle donne in ambito lavorativo e non solo.

Australian artist Meredith Woolnough – #womensart


Perché, per impegnarci in prima persona, dobbiamo sempre attendere che la cosa ci tocchi e ci riguardi da vicino? Questo sarebbe il momento per trasformare quel vuoto di sorellanza solidale in un pieno di condivisione che non si può estinguere in una manciata di giorni, ma è in grado di renderci più partecipi, consapevoli e meno indifferenti in ogni luogo e contesto in cui agiamo.

Oltre le testimonianze dobbiamo riempire di sostanza questa richiesta di attenzione sul problema. Perché alla base ci sono delle istanze che non devono essere lasciate inevase dalle istituzioni preposte. Scardinando in primis il senso diffuso di questi uomini che si sentono intoccabili, impunibili e nel pieno diritto, in virtù del loro status di potere e di genere, di esercitare qualsiasi tipo di controllo e di dominio sulle donne.

Eppure qualche semino è già stato gettato in questo terreno, forse occorre adoperarsi, prima che si richiuda il varco aperto da un hashtag, per diffondere consapevolezza e riattivare un percorso di cambiamento concreto. Non siamo all’anno zero*, ma usciamo dai social e agiamo, diffondiamo consapevolezza oltre l’onda emotiva. Domani non vogliamo trovarci con figlie e nipoti che raccontano ancora le medesime storie di molestie e abusi sul lavoro.

Il gruppo Chi Colpisce Una Donna, Colpisce Tutte Noi

 


Per approfondire:

https://simonasforza.wordpress.com/2016/05/01/rimozione-collettiva/

http://www.dols.it/2016/12/12/sulle-molestie-nei-luoghi-di-lavoro-litalia-si-allinea-alleuropa/

http://www.raiplay.it/video/2017/10/Intervista-in-esclusiva-a-Asia-Argento—17102017-02f1d3b6-7dce-4b8a-a6bd-f43e003db6cf.html


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