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Doing gender

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Simone De Beauvoir sosteneva che “donna non si nasce, si diventa”.
Ho trovato molto interessanti le argomentazioni di Chiara Volpato sul tema (in “Psicosociologia del maschilismo”) e vorrei condividerle. Secondo la storica francese Michelle Perrot questo processo si può applicare specularmente all’uomo: “la virilità non è più naturale della femminilità”. Diventare donna o uomo significa cercare di assomigliare ai modelli che la propria cultura attribuisce all’uno o all’altro genere. Candace West e Don Zimmerman, due sociologi statunitensi, nel 1987 coniarono l’espressione doing gender, per indicare che la formazione di un’identità di genere è un percorso, un processo che attraversa l’intera esistenza. La mascolinizzazione è un processo che inizia da piccoli e si compone nel rapporto con i pari e poi lo si completa da adulti. Ma a quanto pare i maschi sono chiamati ad affrontare molti più ostacoli delle femmine. Devono eliminare da sé, fisicamente e mentalmente, l’influenza “effeminante” della madre e delle donne, devono acquisire modi bruschi, atteggiamenti che certifichino il loro essere maschi DOC. I bambini devono affrontare il distacco dalla figura materna per costruire la propria identità maschile, mentre per le bambine la femminilità è rafforzata dall’identificazione con la madre. Margaret Mead, nel 1949, sottolineava come nei ragazzi sia più forte la preoccupazione di non diventare mai “veri uomini”. Sin da piccoli i maschi sono chiamati a compiere un processo di autodifferenziazione, mentre alle femmine viene richiesta una semplice accettazione di sé (non semplice, ma che di solito è raggiungibile). Viene poi richiamata una sorta di ricerca da parte dell’uomo di raggiungere il medesimo “trionfo”, la sensazione di successo che prova la donna con il parto (su cui nutro qualche dubbio, ma evidentemente gli uomini la vedono così). Ecco che i vari riti di iniziazione, le prove e la solidarietà maschile servono proprio alla certificazione di essere veri uomini. Secondo l’antropologo David Gilmore (Manhood in the Making: Cultural Concepts of Masculinity, 1990) la femminilità si presenta come “condizione biologica che può essere culturalmente perfezionata”. Per Gilmore esiste una “tendenza, presente nella maggior parte delle culture, a polarizzare i ruoli sessuali, enfatizzando le potenzialità biologiche e definendo la correttezza dei comportamenti maschili e femminili in modi opposti e complementari”. “La virilità, è una nozione eminentemente relazionale, costruita di fronte e per gli altri uomini e contro la femminilità, in una sorta di paura del femminile e innanzitutto di se stessi” (Pierre Bourdieu La domination masculine, 1998). L’ipotesi che la dominanza maschile nasconda un complesso di inferiorità rispetto alla potenza generatrice della donna, la ritroviamo in Luciano Ballabio (Virilità. Essere maschi tra le certezze di ieri e gli interrogativi di oggi, 1991): “la paura di somigliare a una donna, che è alla base della tradizionale socializzazione maschile, sarebbe espressione di una inconfessata e inconfessabile invidia del potere femminile”. Per cui il maschilismo sarebbe un’autodifesa virile dalla paura della femminilità (da qui anche il mito della creazione della donna da una costola di Adamo). Per questo si ricorre alla competizione tra maschi, all’adozione di comportamenti iper-mascolini, si codifica l’eterosessualità come “normalità” sessuale (visione che sfocia nell’omofobia). Secoli di cultura che hanno codificato il maschio perfetto, il cui ritratto è mutato ben poco, difeso e sostenuto dagli uomini, come vessillo della superiorità maschile. Chiara Volpato nel suo “Psicosociologia del maschilismo” la chiama “stagnazione nelle prescrizioni di mascolinità”. L’adesione al modello e al principio di solidarietà omosociale (relazioni non sessuali tra membri dello stesso sesso) maschile sono necessari, indispensabili per far parte del gruppo egemone.

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