Nuvolette di pensieri

Mormora l'acqua del ruscello

Figli e donne per la patria

1922 donna

Non voglio parlare solo di bonus bebè, ma è un buon tema dal quale partire per fare qualche riflessione.
Quel che non si comprende è che tutti i bonus hanno un costo sociale enorme, ma nascosto. Sono solo azioni pubblicitarie, che nascondono tagli da tante altre parti. Come molti hanno fatto notare, si tratta solo di operazioni di marketing, con alla base un’ideologia populista che parla alla pancia di una popolazione appiattita sugli annunci fatti al TG. Le donne italiane assuefatte ad essere etichettate come “intellettualmente limitate”, dalle stesse donne, come la Barbara della domenica pomeriggio, alla fine ci credono e se ne convincono. Non siamo questo, ma è quel che resta nell’immaginario.
Ci si mette anche la Lorenzin, dispensando consigli sull’impiego del bonus…
Rispetto all’indignazione e alla mobilitazione di Se non ora quando, oggi non assistiamo a nulla di tutto ciò, tutto è silente. Si ode qualche critica, ma sempre e solo da parte di persone già fortemente coinvolte, attive. Nonostante la lenta, ma inesorabile dispersione di Snoq, ormai spentasi, non c’è stata un’analisi e un lavoro dopo, compatto, critico, concreto, vivo, legato alla realtà. Probabilmente lo abbiamo fatto, ma in piccoli gruppi, le cui voci non si sono propagate.
Non suscita indignazione nemmeno la superficialità con cui si maneggiano le pari opportunità nelle sedi governative.
Se oggi l’ennesimo bonus bebè crea consenso e ha un valore enorme nel sentire comune, dobbiamo chiederci perché. Perché tuttora si accetta tranquillamente che vengano adoperati questi mezzi, con un convinto supporto alla costruzione della famiglia del mulino bianco, con un incitamento per le donne a tornare al ruolo di massaia. Le donne come strumento sostitutivo di welfare, un welfare vivente come mamme, nonne, badanti. Le donne come contenitore della progenie. Le donne a casa perché è meglio così, per il mercato del lavoro, per i datori di lavoro, per semplificare la vita un po’ a tutti. Perché lo stato non si senta chiamato a varare politiche strutturali serie per rendere la vita delle donne “tutte” un po’ più sana e meno strumentale a qualcos’altro o a qualcuno. Chiediamoci veramente perché per molte donne diventa più conveniente stare a casa. Malpagate, precarie, sfruttate, costrette a fare lo slalom tra casa e lavoro, senza orari o diritti, zero prospettive di carriera se malauguratamente scegli di far figli, il dover vivere un quotidiano senso di colpa, doversi sempre giustificare con capo e colleghi/e per il tuo essere donna, con tutto ciò che ne consegue. Non ne parliamo se ti ammali o si ammala un familiare! Quindi, anche noi, cerchiamo di smontare i fronti contrapposti casalinghe/lavoratrici. Cerchiamo di lavorare senza barriere o pregiudizi.
Quel che mi irrita maggiormente di questo ennesimo bonus, è il solito automatismo che lega i figli ai soldi. Come se fosse una questione unicamente pecuniaria. Mi sembra sempre che ci sia una precisa volontà di ignorare cosa significa essere genitori. Non è semplicemente il piatto di pasta. Questo poteva bastare negli anni ’40-’50. Ma le prospettive di un genitore non devono fermarsi a questo. Così come occorre guardare oltre la richiesta di più asili nido. Come ho più volte scritto, non è la soluzione. Aiuta certo, ma un figlio non è un pacco da parcheggiare da qualche parte, che siano i nonni, il nido o una baby sitter.
Dovremmo allargare lo sguardo e parlare di tutte le donne, qualunque sia la loro scelta di vita.
Perché non parliamo di tempi flessibili per le donne?
Perché non parliamo di pari trattamento, per dire no alle discriminazioni sul lavoro, no alle dimissioni in bianco e tanto altro.. Se vogliamo veramente aiutare le donne.
La precarizzazione dei contratti di lavoro, incentivata dalle ultime riforme, penalizza fortemente le donne.
Qualcuno dei legislatori ha mai provato a cambiare lavoro continuamente? Località, mansione, tipologia? Ha mai fatto la “trottola”, con un figlio piccolo e nessun aiuto, o con un familiare malato, con servizi sociali semi-inesistenti? La stabilità lavorativa aiuta anche a gestire più serenamente le difficoltà familiari quotidiane. Per non parlare poi del clima familiare.
Intanto iniziamo a fissare parità di salario uomo-donna. Perché noi donne non siamo necessariamente tutte incubatrici dei futuri figli della patria. Il resto vien da sé.. Ognuna avrebbe modo di scegliere in base alle sue esigenze e non sarebbe vincolata a una norma ad hoc, il bonus, subordinata a una scelta precisa, la maternità.
Questi sono aspetti molto concreti, ma su cui spesso ci si divide e ci si schiera. Quando sarebbe preferibile stare unite. Questa tendenza a legiferare per il particolare e non per l’universale, crea automaticamente delle discriminazioni. La legge targettizzata è un fondamentale mezzo di propaganda, utile a raccogliere consensi, ma che crea grossi problemi e trattamenti privilegiati assurdi. Si sprecano risorse importanti, ma solo per riuscire a mantenere il consenso e il potere. Non ci sono progetti a lungo termine, perché quel che importa è il risultato oggi.
Ma allora perché sembra che alla maggior parte delle persone vada bene questo tipo di soluzione parziale delle questioni?
Non a tutti sta bene così, ci si interroga, ma sembra unicamente un parlare a vuoto. Perché?
Questa difficoltà di incidere nella realtà e di unirci per un cambiamento radicale, merita una riflessione.
Elena, rispondendo a un post che avevo pubblicato su Facebook, mi ha dato lo spunto per farlo.
C’è da registrare una profonda divisione, distanza tra i luoghi del femminismo, come anche del mondo ambientalista, rispetto ai luoghi decisionali reali o della vita quotidiana. I rischi sono di compiere analisi di analisi, che servono solo a un circolo chiuso. Il distacco non è un dato odierno, ma credo congenito. Consideriamo la libertà e l’emancipazione delle donne. Per molte sono sufficienti queste semplici enunciazioni, tradotte in un qualche diritto socio-politico sbriciolato e pronto all’uso. Mordi e fuggi, divori e poi passi ad altro, alla successiva urgenza, al successivo bisogno. Assente è la consapevolezza di come si arriva a quel diritto o libertà, che comporta una consapevolezza di sé e una presa di coscienza che certi punti di arrivo presuppongono una assunzione di responsabilità in prima persona. Quindi come colmare il buco? Come trovare un linguaggio che includa anche altri ambiti, se vogliamo meno elitari e chiusi, come costruire nuovi luoghi reali di azione? Ahimè è un vero arcano. Innanzitutto è un problema legato allo stare in gruppo, alle sue dinamiche e al naturale istinto verticistico, gerarchico, laddove ci sono forti resistenze a lasciare spazi ad altri/e. Aprire la finestra e ricambiare l’aria è molto complicato. Implica una messa in discussione del proprio ruolo, per molt* è difficile mettersi a disposizione, rinunciando alla propria figura. I personalismi sono una brutta piaga. Di solito sono le stesse persone affette da queste manie egocentriche ad accusare gli altri appartenenti al gruppo di scarsa democrazia interna. Il passaggio verso la realtà è pieno di ostacoli. Non è detto che aprendo spazi di azione nel proprio quotidiano/territorio si ottengano risultati apprezzabili, si rischia di rimanere comunque confinati a relazioni asfittiche e autoreferenziali. Qualche giorno fa annotavo la prassi “dell’armiamoci e parti”, che in un gruppo è devastante, perché viene meno il “fare insieme”. “Coagulare l’impegno” (uso l’espressione di Elena), per raggiungere obiettivi concreti, è veramente difficile, perché ognuno tira l’acqua al proprio mulino, oppure ti risponde che non ha tempo ed energie. Alla fine ognuno pensa a sé. Tutto finisce quando trovi il tuo posticino al sole e vieni assorbito dal flusso consueto, ordinario.
I miei tentativi di allargare, approfondire il confronto, progettare sono spesso fallimentari o mi lasciano un po’ di sconforto, ma non per questo mollo. Ma è anche e soprattutto una questione di autorevolezza, o meglio di “corsie referenziali” privilegiate. Nessuno ti ascolta seriamente se non hai un titolo, una posizione sociale e professionale dalla quale parlare. Per questo credo che i discorsi restino chiusi, in cerchie elitarie autoreferenziali. Si dà la parola solo a coloro che sono già a qualche titolo nel giro di quelli che contano. Anche se parlano di aria fritta, quella viene percepita come aria di montagna, pura e alta. Se solo riuscissimo a scendere un po’ sulla terra e lasciassimo un po’ di spazio ai non “referenziati”, giusto quel tanto che basta per un ricambio d’aria? Non è solo una questione di ricambio generazionale, perché il morbo è trasversale alle generazioni. Dovremmo aprire, coinvolgere e rischiare anche qualche critica. Perché, a volte ho l’impressione che i “guru” della situazione abbiamo paura dell’allargamento per non rischiare critiche e non perdere la vista dall’alto tanto faticosamente conquistata.
Spesso il fallimento dipende dal fatto che non tutti gli attori sono realmente coinvolti al 100%. Non ci si crede realmente, spesso la partecipazione non va oltre a quello che si farebbe in un club di bridge. Ma non per questo si demorde. Si cerca di far girare le idee, di fare piccoli passi per una maturazione culturale propedeutica a un futuro cambiamento, che non può prescindere dalle variabili economiche, produttive e istituzionali. Sempre che tutto non si perda e non si dissolva strada facendo. Per questo sono cruciali le convinzioni personali, altrimenti si fa moda e suppellettili di analisi e parole. Penso che scrivere (lo so, spesso sembrano parole al vento) possa servire a far passare le idee tra le persone e tra le generazioni. Ma presuppone l’esistenza di un percorso personale, un partire da sé. Se non scatta quella scintilla, le parole ti passeranno attraverso, senza lasciare traccia. Non è una missione donchisciottesca, se ci crediamo sino in fondo. Il cambiamento nella realtà passa attraverso il cambiamento di mentalità, delle idee e della cultura, quelle che girano e non restano chiuse nei “salotti buoni” asfittici.
Dobbiamo spingere per portare il dibattito fuori, far girare le idee là fuori. Non per leggerci o parlarci tra noi. Dobbiamo osare il femminismo, viverlo e diffonderlo. Sovvertendo le regole della veicolazione del pensiero e delle pratiche. Questo significa includere nei nostri dibattiti anche fattori economici e che fanno capo al sistema capitalistico. Altrimenti è tutto inutile, se non si parla di crisi del patriarcato, delle forme classiche del capitalismo e del modello culturale occidentale.

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Genuflesse e sorridenti

L'angelo del focolare - 1925 - regia di  Carl Theodor Dreyer

L’angelo del focolare – 1925 – regia di Carl Theodor Dreyer

Al di là del fatto che sia condivisibile o meno la posizione, ritengo alquanto azzardato scrivere delle indicazioni su un aspetto come il matrimonio e le donne, tematica estremamente soggettiva e varia. Secondo Costanza Miriano noi donne per essere felici dobbiamo recuperare il nostro ruolo di angeli accoglienti del focolare, tutte sorrisi e parole dolci. Che mai ti venga l’idea di mettere il broncio, di contraddire il partner, di esprimere troppo le tue opinioni e di voler ogni tanto dire la tua quando si deve decidere qualcosa.
Penso che questo ritorno all’ortodossia sia portatore di un invito pericoloso per le donne, in un Paese che già di per sé non brilla per emancipazione e autoconsapevolezza femminili, così come stentano a essere rispettati i diritti delle donne, dal campo lavorativo a quello della salute riproduttiva e sessuale. Per non parlare del problema della violenza tra le mura domestiche.
Per questo ho trovato eccezionale e formidabile la protesta del Collettivo Altereva al salone del libro di Torino, lo scorso 10 maggio.
Ci stiamo imbarbarendo e al contempo non guardiamo in faccia la realtà. Non è recuperando un comportamento sottomesso, docile e remissivo che si mantiene in piedi un rapporto. Non ci si può ispirare a un passato idilliaco che non c’è mai stato. I matrimoni delle nostre nonne o bisnonne non erano immuni da problemi, da violenze o da rapporti difficili. Semplicemente allora le donne erano meno consapevoli dei propri diritti e culturalmente costrette ad accettare le regole di una società patriarcale, che teneva volontariamente le donne in una posizione di ignoranza e di debolezza psicologica e materiale. Il percorso di emancipazione delle donne è maturato gradualmente, di pari passo anche con la diffusione di una maggiore istruzione e della conseguente possibilità di poter fare da sé, lavorando, per non dipendere necessariamente dalle figure maschili (padri, fratelli o mariti).
I matrimoni di una volta non erano più felici, semplicemente non c’erano molte alternative per le donne.
Non vogliamo tornare ad essere mute ancelle della casa. Ora che siamo più consapevoli e possiamo finalmente parlare, diciamo fieramente no a qualsiasi tentativo di portarci al silenzio.
La scrittrice/giornalista in fondo lo fa per convenienza personale e per alzare un polverone sul nulla. È una donna molto fortunata, un po’ annoiata, ben inserita in un mondo clerical-chic e che non ha la miriade di problemi del quotidiano che vivono le persone semplici come noi. Vive nel suo giardino incantato e ci propina questa marmellatona avvelenata che cerca di rabbonire tutte quelle donne che non vogliono ammettere che la causa di tutti i propri mali sono proprio loro stesse. Perché? Perché non sanno tacere ed essere sottomesse.

Finiamola con questi finti consigli da amica e buttiamo alle ortiche tutte queste inutili pagine.

 

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