Me lo vedo il solito rito, rituale dell’8 marzo. È qui, condito e farcito come ogni anno, tra chi si ostina a chiamarlo ancora “festa” e chi cerca di riportarci a una riflessione che sia la più ampia, diffusa e consapevole possibile. Impossibile quest’anno non sentire quel sentore di rogo che aleggia su tante delle nostre conquiste in tema di diritti. Impossibile non avvertire sempre più l’avanzata delle truppe reazionarie che marciano sui nostri corpi, sulla nostra autodeterminazione, sul cambiamento culturale che da anni stiamo cercando di portare avanti, nonostante fatica, divisioni e strumentalizzazioni.
E di fronte a ciò che avviene alle vite delle donne, alle loro scelte sempre più soffocate e limitate da nostalgiche formule patriarcali tuttora in voga e assai diffuse, abbiamo una estrema difficoltà a fare diventare questi attacchi qualcosa che stimoli e provochi una reazione a catena, compatta e unanime, un grido che invochi un’azione urgente e non più rinviabile. Abbiamo difficoltà di creare un linguaggio e un progetto comune, comprensibile a tutte. Abbiamo una difficoltà a riconoscere tuttora le radici di genere di alcuni fenomeni, di alcune disuguaglianze e discriminazioni. Concetti e lotte perse e disperse nel mare magnum di un calderone unico di una solidarietà, di un’umanità generalista, di un volemose bene disperso e confuso. Coscienza che si smarrisce in un rincorrersi un po’ da un appuntamento all’altro, tra una passerella e un selfie, senza un ordine e una definizione del come, dove vogliamo arrivare. Tutto annegato in un muoversi e mobilitarsi come se si stesse andando a una festa. Purtroppo occorre riconoscere che la festa la stanno facendo a noi da tempo e che davvero non c’è più tempo.
Accade che tra capo e collo il Ddl Pillon, marcia spedito verso l’inglobamento degli altri testi collegati, il suo ritiro si allontana, mostrando un iter che potrebbe essere non facilmente controllabile da chi da mesi ne evidenzia il pericolo. E l’unica carta che resta da giocare è evidenziare l’impianto ideologico e culturale, giuridico che è alla sua base, già contro i principi costituzionali e del nostro ordinamento. Occorre combattere sempre più su questo livello, mostrarne i reali intenti e le ricadute telluriche in materia civile e penale. E poi elaborare una seria strategia parlamentare di contrattacco. Cosa ci vuole per prendere le distanze da un siffatto disegno? Sappiate che anche da qui si è capaci di trarre le conclusioni di mesi di temporeggiamento.
Accade che tra capo e collo si vuole continuare a smantellare la già precaria condizione dei diritti sessuali e riproduttivi. Tra imbarazzi e ambiguità politiche, tra una picconata e un regionalismo che ci rende sempre più diseguali, tra fiumi di obiettori e l’avanzata dei nochoice, tutto può accadere. E questa atmosfera smorza qualsiasi voglia di tornare a rivendicare di più, a correggere quelle parti di legge 194 costruite furbamente per permettere questo progressivo sgretolamento. Non so se giocare in difesa e di rimessa alla lunga non sia controproducente.
E mentre in Spagna si galoppa in tema di genitorialità e congedi, in UE si parla di 10 giorni di congedo obbligatorio e retribuito dopo la nascita di un figlio, da noi spuntano come funghi tentativi di propagandare la maternità con toni idilliaci, tanto da passare sul Corrierone un grande spot sulla famiglia numerosa, inanellando parole come Provvidenza, benedizione, evento (mica frutto di una scelta), i figli vengono. Tutto questo nel 2019. Un bello spot per spingere la natalità, che in realtà potrebbe avere solo l’effetto contrario vista la situazione. Almeno che, almeno che non continuiate a considerare le donne degli uteri ambulanti, con “attitudini” naturali immutabili come ancora si sente dire. Sei tu che sei “refrattaria” alla chiamata della natura femminile, sei tu che “non ce la fai” e sei egoista. Il femminismo “ti ha dato alla testa”.