Nuvolette di pensieri

Mormora l'acqua del ruscello

Che tipo di società vogliamo costruire?

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Pubblico un estratto di un mio articolo pubblicato su Dol’s Magazine.

Davanti a una mancanza di alternative ogni scelta può sembrare valida. Si dovrebbe evitare di rendere le donne degli uteri e nulla più, perché alle donne deve essere garantito altro. Per questo altro dobbiamo lottare. Io non vedo uteri che camminano, io vedo donne e pretendo che abbiano pari opportunità di vita. Dovremmo immaginare che alcune donne vengano destinate a essere fattrici seriali per potersi sostentare? Che senso avrebbero i sussidi sociali e i sostegni statali quando potresti mantenerti affittando una parte del tuo corpo? Cosa accadrebbe se si aprisse il mercato degli organi o dell’utero in affitto? Tanto per capirci, dovreste mettervi nei panni delle donne che non vivono nel lusso e che vivono in condizioni precarie. Lo so in Italia e in Europa non è consentita la vendita, ma se per ipotesi le cose cambiassero, nel nome di una libertà senza limiti? E sono sempre le altre, donne lontane da noi che devono sottostare a questo ulteriore affievolimento di diritti. La vita intima va rispettata solo quando è la nostra, poi possiamo ignorare e non rispettare quella delle altre, perché abbiamo bisogno di ignorarne la dignità per soddisfare le nostre esigenze contingenti? Perché non c’è tanto sbracciarsi quando chiediamo un lavoro dignitoso, che ci consenta di esprimere liberamente la nostra persona in ogni ambito? Che esistenza libera e dignitosa può derivare dal diventare merce sul mercato? E anche se ci fossero donne disposte a mettersi a disposizione gratuitamente, quante ce ne sarebbero? Ah, sì, la gravidanza è una passeggiata di salute, poi con i trattamenti ormonali va ancora meglio. Provate per credere. Anche se siamo utero-munite non dovete ridurci a essere mother machine. Non è il nostro destino obbligato e meritiamo forme di libertà più ampie e che ci rispettino in toto, come esseri umani al 100%.

 

Per leggere l’articolo completo: http://www.dols.it/2016/02/07/che-tipo-di-societa-vogliamo-costruire/

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Non relazioni. Compro e pretendo?

18feb

 

Ho partecipato a un altro incontro organizzato dalla Caritas Ambrosiana sul tema della prostituzione. Relatori don Stefano Cucchetti e Lea Melandri. Il filo conduttore era il denaro, nel tentativo di scandagliare come esso e il mercato entrano in contatto con i temi etici. Possiamo porre il mercato in una posizione subordinata, oppure regola e determina ogni aspetto delle nostre vite?

Qui di seguito proverò a fare una sintesi dell seminario, aggiungendo qualche mia annotazione a margine degli interventi. I miei commenti saranno evidenziati da (Ndr).
Il tema è: il denaro come grande mediatore. Il corpo in prostituzione diviene bene mobile che messo sul mercato crea profitti. Il fenomeno come sappiamo è molto frastagliato, complesso.
Il bilancio delle unità di strada della Caritas nel 2014 parla di 1.386 contatti. La libertà di scelta è quasi impercettibile da questo punto di osservazione. Ma ancor più importante è sottolineare come consapevolezza e libertà di scelta non siano mai sovrapponibili. Questo dobbiamo tenerlo presente sempre, per non fare confusione sul concetto di libera scelta, come ho sentito in uno degli interventi del pubblico.

Cucchetti introduce il suo ragionamento attorno al denaro, citando Umberto Galimberti:

“La prostituzione è da considerarsi come sintomo del regime sessuale che caratterizza la nostra società. Alla sua base non si trova il sesso, ma il denaro. Il denaro infatti una volta dato si separa in modo assoluto dalla personalità e tronca ogni ulteriore conseguenza nel modo più netto. Pagando in denaro ogni cosa è chiusa nel modo più radicale. Di fronte al denaro tutto diventa merce” (qui un documento interessante da leggere).

A livello filosofico, sono pochi i contributi sul tema del denaro. Cucchetti cita il lavoro di George Simmel del 1902 (qui un bel pezzo di qualche anno fa su Simmel, pubblicato sul mensile Noi Donne).
Il denaro diviene pertanto un “grande presente silenzioso”, qualcosa che abita le nostre vite, gli imprime una impronta fortissima, ne determina, in modo più o meno invasivo, ogni aspetto.
È l’intero sistema di vita che viene impattato.
Cucchetti a proposito della locuzione latina “pecunia non olet”, cita un episodio della vita di S. Francesco:

“Francesco disprezzava il denaro al punto da considerarlo alla stregua del diavolo ed ai suoi frati era assolutamente vietato anche solo toccare una moneta. Un giorno, però, un uomo lasciò una offerta in denaro sotto la croce della chiesa di Santa Maria della Porziuncola ed uno dei fraticelli la prese con una mano e la poggiò sul davanzale di una finestra. Questa cosa fu riferita a Francesco ed il frate decise di recarsi da lui per scusarsi. Si prostrò quindi a terra in attesa della punizione, che Francesco gli comminò subito: togliere con la bocca la moneta dalla finestra e deporla su sterco d’asino fuori dalla chiesa, a simboleggiare che non c’era differenza tra quel denaro e lo sterco. Il frate obbedì senza fiatare, quasi sollevato che la punizione fosse così lieve”.

Il denaro per sua caratteristica è un elemento che non reca con sé informazioni sulla sua origine, perde la sua “puzza”. Ma Francesco cerca di farci ricordare che invece la puzza permane.
L’economia monetaria per Cucchetti è l’unica possibile, perché più efficace e semplice, si impone maggiormente rispetto ad altre soluzioni. Questo perché il denaro è uno strumento di mediazione molto pratico: è capace di oggettivare i rapporti commerciali. Se io desidero un bene che non ho, ma che un altro possiede, questo altrui possesso rende quel bene resistente al mio desiderio. L’oggetto è carico della soggettività della persona che lo possiede. L’oggetto parla dell’altra persona. Se io voglio soddisfare il mio desiderio, sorge il problema di come vincere quella resistenza, il legame soggettivo tra la persona e l’oggetto posseduto.
Il denaro è l’unico strumento di mediazione quantitativo (e non qualitativo), consente di misurare le cose. Ha valore per la sua quantità ed è in grado di staccare dal soggetto i suoi beni. Il denaro oggettivizza. Attraverso il denaro la mia identità, all’interno del mercato, da un lato si estende (dal lato dell’identità desiderata, se ho denaro a sufficienza posso comprare di tutto, è solo una questione di quantità), dall’altro si riduce (il denaro mi priva dei miei oggetti, la mia casa per esempio). Pezzo dopo pezzo, tutto si può sganciare da me, tanto che la mia identità reale può trovarsi ridotta all’osso. “Sono una psiche nuda, perché persino il mio corpo è acquistabile” secondo Cucchetti. Le entità desiderate possono diventare infinite:
– Il cliente attraverso l’accesso a “ennemila” donne;
– La prostituta che sceglie, implica un non limite del desiderio, di benessere, “di bella vita”.
Ma al contempo si verifica una riduzione dell’identità stessa sia del cliente che della prostituta.

A questo punto mi sorge una domanda. Ma siamo ancora al mantra della prostituta che sceglie? Non so se Cucchetti si è reso conto di questo particolare. Mi sembra che si rischi di cadere nel solito equivoco di fondo. Ma ora proseguiamo con il ragionamento. (Ndr)

Secondo Simmel, per quanto il denaro sia in grado di quantificare ogni cosa, il fatto che sia in grado di separare le persone dai propri oggetti di possesso è solo illusorio. Se torniamo al nostro tema principale, è chiaro che in prostituzione, per quanto la donna si convinca della possibilità di oggettificazione del proprio corpo, si tratta di una illusione. In questo caso riemerge il dramma soggettivo e questa separazione forzata non può reggere a lungo.

Mi viene in mente l’intervista a Rosen Hicher che avevo pubblicato qualche settimana fa. Non si può reggere in una situazione di violenza. (Ndr)

Cucchetti è convinto che non si debba fare a meno del denaro o del mercato, ma sia necessario tornare a sentire “la puzza” dei soldi, “ridando soggettività al denaro, riscoprendo un modello economico come mediazione di relazioni e non di oggetti/oggettualità”. Viene ripreso il passaggio del Vangelo sulle monete con l’effigie di Cesare, con la famosa risposta di Gesù “rendete a Cesare quel che è di Cesare”. Questo significa riagganciare il denaro alla mediazione relazionale. Gesù usa il denaro per svelare una ipocrisia, che c’è dietro l’uso del denaro. Ridurre tutto a un oggetto è comodo, perché permette di non scorgere che dietro ci sono relazioni. Occorre tornare a comprendere lo spessore delle qualità relazionali (un esempio sono le pratiche di micro-credito). Attraverso un recupero del concetto di “restituzione”, del riconoscere un debito che muove nuove consapevolezze nelle relazioni concrete.

Passiamo all’altra relatrice del seminario. Per comprendere il tessuto dell’intervento di Lea Melandri, consiglio la lettura preventiva di questo suo articolo (qui), comparso di recente su Il Manifesto.

Lea Melandri esordisce parlando di contesto prostituzionale allargato, che oggi si esplicita anche nei lavori precari. “Il denaro è un elemento portante del potere che l’uomo esercita sulle donne”. Si rievoca il rapporto uomo-corpo materno, che si manifesta sia attraverso le cure e l’accudimento, sia come fonte delle prime sollecitazioni sessuali. La prostituzione non è un lavoro come un altro, ma un impianto base della relazione tra sesso e denaro, sesso e lavoro, sesso e vita affettiva. Senza dimenticare l’ambito della politica. Melandri si chiede se per caso siamo tutte in qualche modo sex workers. A tutte è chiesto di imparare a vendersi bene, a rendersi appetibili, anche e soprattutto nel lavoro.

Mi ricorda tanto il consiglio che la mia insegnante di lettere del liceo diede a mia madre: “Sa sua figlia deve imparare a vendere meglio la sua merce”. Sì, è tutta una questione di commercio, di rendere “bello” un prodotto, perché così com’è non è sufficientemente in linea con il mercato. Non importa la sostanza, l’importante è che si presenti e che venga presentato al meglio. (Ndr)

Occorre interrogarsi alla luce della storia del rapporto tra i sessi, così come dei rapporti familiari, per comprendere cosa c’è dietro i clienti. Il bisogno di regolamentare e il desiderio di occultare hanno dato il via all’idea delle red zone dedicate alla prostituzione, denotando una profonda ipocrisia. Questi sono i nostri padri, amici, fratelli ecc. Lea Melandri è contraria a colpire i clienti, perché si dovrebbe ragionare sull’immaginario sessuale maschile che vede donna uguale corpo, al servizio dell’uomo. “Rassicurante ma riduttivo parlare del fenomeno prostituzione solo in termini di tratta o di sex workers”.

Qui c’è un evidente problema. Riconosco che si tratta di una rivoluzione culturale da fare, modificando l’immaginario sessuale maschile. Ma questo implica un lungo periodo. Sul breve periodo, per scoraggiare il consumo di sesso a pagamento e iniziare un percorso di cambiamento nelle pratiche maschili, l’idea di colpire il cliente è il primo step necessario. Altrimenti corriamo il rischio di rinviare e di continuare tacitamente a consentire e ad avvallare certi comportamenti.
Permane l’oscillazione di posizione che avevo avvertito anche nell’articolo sul Manifesto. (Ndr)

Melandri cita l’antropologa Paola Tabet, che annota un continuum tra prostituzione e ciò che per secoli si è svolto all’interno della vita coniugale, in cui il legame sesso-denaro era presente, nel rapporto tra marito e moglie.
Per mantenere il controllo sulle donne, gli uomini hanno creato anche la dicotomia tra sante e puttane.
Oggi con il fenomeno delle veline, delle escort, delle ragazze immagine, il corpo è divenuto ancora di più capitale, moneta di scambio. Non si tratta certo di corpi liberati, ma non sono prostitute tout court. Sono soggetti che si oggettivizzano. Si tratta di una emancipazione malata, perversa, data dalla società dei consumi. La donna è stata identificata nel corpo. Si sceglie un tipo di emancipazione formale e narcisistica per evitare laliberazione reale, effettiva. La disuguaglianza uomo-donna ha portato la donna ad adoperare il corpo e la sessualità per ottenere dei vantaggi, quindi in modo funzionale all’ordine socio-economico esistente.

Facciamo attenzione alle parole. Evitiamo di cadere in un trappolone, che alla fine dice che le donne sono manipolatrici e che tutto sommato hanno l’arma del corpo e la usano per raggiungere posizioni più favorevoli o di potere. Secondo me, a questo punto stiamo smarrendo la strada. Ci stiamo dimenticando che chi è in prostituzione nella maggior parte dei casi non ha scelta e non ha alcun potere: non trae vantaggio dal fatto che il suo corpo venga usato, messo in vendita sul mercato del sesso. Qui c’è un grosso equivoco, perché sembra che tutto sommato chi si prostituisce possa avere il suo tornaconto personale. La necessità di sopravvivenza e la schiavitù dell’essere merce deumanizzata non mi sembrano proprio elementi attinenti al vantaggio personale. (Ndr)

Melandri cita Pia Covre: “definire la prostituzione come un lavoro significa porre una separazione tra corpo e sessualità”. Un’occasione irripetibile per giungere alla “riappropriazione di se stesse”.

Ecco spuntare nel discorso il mantra secondo cui la prostituzione è un elemento di libertà, un mezzo per raggiungere la piena emancipazione femminile. Come mai non ci avevamo pensato prima!! (Ndr)

Poi Melandri cita Ciccone di Maschile Plurale, che si interroga sul potere del cliente e della prostituta. Ha più potere colui che acquista la merce o chi la possiede e la mette in vendita?

Oibò! Qui buttiamo alle ortiche decenni di riflessioni sugli squilibri di potere esistenti. Come possiamo dimenticarcene? Evidentemente ad alcuni fa comodo cancellare, rimuovere un dato palese. Cavolo, abbiate il coraggio di andare a raccontare certe cose alle donne che ogni giorno vivono in prima persona la vita sulla strada, o in bordello, la sostanza non cambia. Siamo alla teorizzazione del potere delle prostitute?! (Ndr)

Poi arrivano le lodi al testo di Giorgia Serughetti, che tinteggia un quadro romantico, bohémien del mondo della prostituzione (un pamphlet-invito a prostituirsi in massa, perché è un mestiere come un altro, ben remunerato e tutto sommato piacevole), tra fidanzate a noleggio e l’uomo che finalmente si abbandona a una relazione con una donna, senza il peso delle responsabilità. Ma che cosa c’entra la parola relazione se qui c’è solo un rapporto usa e getta con un corpo che per il cliente non ha nemmeno dignità umana, ma è solo un oggetto. Allora, siccome gli uomini hanno difficoltà crescente ad assumersi responsabilità di coppia, a vivere relazioni tra pari, è bene che trovino oggetti da comprare, necessari per i loro bisogni fisiologici? A questo è ridotta una donna? (Ndr)
Perché non abbiamo mai il coraggio di spostare i riflettori sull’uomo, sulla sua percezione deforme della donna? Qui il problema sta tutto dal lato della domanda, e non pensare di colpirla è sinonimo di connivenza. Non smetterò mai di ripeterlo. Vogliamo responsabilizzare il cliente o dobbiamo concedergli ancora decenni di alibi? Dobbiamo attaccare quella mentalità diffusa che vede come “normale” l’uso del corpo di una donna da parte dell’uomo. Questo non è né normale, né eterno, né ineluttabile! E diamoci da fare per aiutare chi è sulla strada e non ha né scelta, né potere. Costruiamo per loro delle alternative. Contestualmente occupiamoci del lavoro culturale, per costruire un nuovo modello di civiltà e di relazioni. (Ndr)
Per fortuna gli interventi del pubblico (tranne un caso) hanno raddrizzato il tiro, evidenziando i pericoli che derivano dal considerare la prostituzione un lavoro come un altro.

Lea Melandri dopo gli interventi precisa che per lei la prostituzione non rappresenta una modalità di liberazione e di emancipazione della donna.
Non mi stancherò mai di ripetere che quando c’è un bisogno da soddisfare, non c’è mai libertà. Laddove non c’è una uguaglianza economica o sociale, non vi può essere equità tra due posizioni. Senza dimenticare mai il divario di genere e i conseguenti squilibri. Ricordiamoci “la puzza” dei soldi. (Ndr)

 

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Poco orgoglio

jane austen

 

A volte, ascoltando alcune storie, mi sembra di vivere in uno di quei romanzi ottocenteschi, in cui le donne non potevano essere altro che mogli o istitutrici. Chissà cosa penserebbe Jane Austen se potesse vedere come siamo ancora conciate male nel 2014. Tuttora ci sono donne che confidano in questa “ricerca” che apre il romanzo Orgoglio e pregiudizio. Mi è stata raccontata l’ennesima parabola della donna che ha investito ogni briciolo di energia nella ricerca di un marito facoltoso, il tutto per potersi dotare di casa lussuosa, colf e tata h24 per la prole. La narrazione mi è sembrata un tantino pretestuosa, un po’ per suggerirmi che forse i soldi non fanno la felicità ma aiutano, e che tutto sommato col senno di poi questa mia coetanea è stata più furba, di me e di tante. Più furba anche della sorella che suo malgrado non ha percorso gli stessi passi e non ha anelato al denaro, come si corre dietro a un osso prelibato. Narrazioni di questo tipo mi suggeriscono che possiamo confermare lo stato di emergenza contingente. Molto velatamente queste storie suggeriscono ciò che il Silvio consigliò anni or sono. Il problema è che c’è chi ci crede e anziché profondere le proprie energie in un investimento su se stesse, sulle proprie capacità intellettive o pratiche, su una crescita personale e su un affidamento nelle proprie capacità, si dedica alacremente e monodirezionalmente alla ricerca di un uomo ripieno di soldi, almeno quanto un tacchino per il giorno del Ringraziamento. Or bene, anni e anni di riflessioni, di tentativi di emancipazione, di allargamento dell’istruzione nulla hanno potuto per scardinare questo tipo di mentalità. Nulla. Posso affermare che mia nonna fosse più emancipata di molte mie contemporanee, quanto meno aveva compreso numerosi meccanismi e distorsioni di cui era vittima la donna e aveva cercato di affrancarsene, per quanto i tempi le permettessero di fare. Le narrazioni delle ricerche dei tacchini si fanno sempre più particolareggiate e servono a fornire delle indicazioni a coloro che per loro stoltezza non hanno tenuto conto dei trucchi principali di cui una donna, a loro parere, non può fare a meno. Mi si suggerisce che sono cavoli miei se non riesco a conciliare lavoro e vita privata, perché basterebbe avere una conduzione più oculata delle proprie scelte. Vedi come vive semplicemente Tizia? Tu ti affanni e non vivi comodamente perché hai perso tempo sui libri e in rapporti personali non proficui economicamente. Siamo ancora al matrimonio buono a cui ipotecare una vita intera. Abitiamo ancora una vita che ci viene data in concessione da un uomo. A questa ennesima storiella ho risposto semplicemente che mi auguro che mia figlia non venga su così idiota e vuota, perché vivrebbe come una schiava, illusa di essere libera e felice. L’unica cosa che mi auguro per lei è che mantenga sempre la fierezza, la sua autonomia di pensiero, non si venda mai per niente al mondo e che coltivi se stessa come una pianticella preziosa e unica, che si concentri sulle cose durature e non caduche e fonte di servitù. Per me non ci sono molte differenze tra le olgettine e chi non ha altro obiettivo che trovare un asino dalle orecchie magiche, che produca oro a volontà. Il lavoro che abbiamo davanti è enorme. C’è bisogno di un pensiero femminista per smantellare la segatura che riempie troppe vite e sostituirla con idee, sostanza, curiosità, voglia di fare, di imparare e di investire su se stesse, riprendendo in mano il proprio destino. Possiamo fare la differenza, anche se a volte è davvero impossibile farsi ascoltare e mostrare delle alternative e vedute differenti.

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