Si parla spesso di “rivoluzione” necessaria, di un adeguamento del mondo del lavoro ai cambiamenti nella società e nella cultura, di un modello diverso. Poi ci spiaggiamo davanti a una serie di resistenze.
Leggo qui che secondo una ricerca ADP:
“solamente 1 donna su 3 (33%) dichiara di volere una legge che consenta all’interno della propria azienda la denuncia di disparità salariale, il 48% non sa prendere posizione. (…) Delle quattro generazioni che lavorano, i risultati mostrano che i Millennials si oppongono maggiormente al divario retributivo di genere: poco meno della metà (40%) dei lavoratori tra i 16 e i 34 anni ritiene che la segnalazione del divario retributivo di genere sia necessaria nella propria organizzazione, contro il 24% degli over 55.”
Perché c’è questa riluttanza a prevedere un monitoraggio trasparente su questo gap? Cosa si teme?
L’unico modo per contrastarlo è prevedere una regolamentazione, non basta affidarsi alla buona volontà della singola realtà aziendale.
E poi occorre modificare l’organizzazione del lavoro immaginata, strutturata sulla base delle esigenze di soggetti maschili, che hanno potuto e possono ancora contare sul welfare familiare, con le donne che “naturalmente” assicurano gran parte di tale lavoro gratuito, invisibile. Ma molte cose stanno cambiando e il sistema non funziona più come in passato. Modello di lavoro da rivedere non solo ragionando su monte ore (riflettendo anche sulle effettive esigenze produttive e di produttività) o su salario minimo, perché sappiamo che le discriminazioni di genere, che si acuiscono con l’età, hanno effetti da non lasciare ai margini della discussione.
“Non migliora l’inclusione di donne, adolescenti e bambini/e in Italia, più a rischio di esclusione sociale e povertà rispetto ai maschi adulti: mancano infatti cambiamenti positivi sostanziali nell’ambito della violenza di genere e sui minori e resta limitata l’inclusione economica e sociale delle donne. L’Italia, 27° con 57 punti, fa peggio delle principali democrazie europee (Francia 12°, Germania 14°, Gran Bretagna 16°), ma anche di Bulgaria (24°), Repubblica Ceca (19°) e Portogallo (20°), che negli anni passati erano più indietro in classifica. In Europa fanno peggio i Paesi baltici, Cipro, Slovacchia, Ungheria, Croazia e Romania.
Se per salute e capitale umano ed economico l’Italia continua a beneficiare di una discreta rendita di posizione, non altrettanto si può dire per l’inclusione economica delle donne e l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro. In 5 anni peggiorano gli indicatori sulla sicurezza ambientale e non migliorano gli indicatori relativi alla violenza di genere e sui bambini.”
È quanto emerge dal WeWorld Index 2019. “Solo puntando sulla promozione di politiche sociali indirizzate a favorire l’inclusione economica e politica delle donne, il mantenimento nei percorsi di istruzione dei giovani studenti, l’abbassamento del tasso di disoccupazione e maggior attenzione alla sostenibilità ambientale, in particolar modo in zone periferiche e svantaggiate, l’Italia può sperare di tornare ai livelli delle principali democrazie europee” conclude il presidente Marco Chiesara.
Insomma, includere le donne e permettere una loro partecipazione attiva, senza relegarle in una dimensione esclusivamente di cura e domestica.
Eppure, continuo a leggere analisi e progettazioni per il mondo del lavoro che sono monche della dimensione di genere, eppure la nostra Costituzione ne parla, ma si perde per strada, nelle maglie di un’analisi “neutra”, senza alcuna declinazione che contempli un fatto innegabile: il gender gap. E allora tutte le politiche del lavoro non possono essere pensate come un abito che può andare bene per tutti/e. Le politiche del lavoro a “taglia unica” purtroppo sono tuttora molto in voga, e tutto sommato si fondano su modelli e ruoli “classici”.
Così ci perdiamo i pezzi e dietro questa dimenticanza volontaria rallentiamo sempre più. Il Wef e il suo Global gender gap report ci vede al 118° posto per partecipazione economica e opportunità.
Insomma, mentre si è intenti a far passare una controriforma in tema di affido e di diritto di famiglia, rendendo più arduo separarsi; mentre in Italia i carichi di cura restano per lo più sbilanciati verso le donne, madri o caregiver familiari, in Europa si tenta di fare qualche passo in avanti e segnare la strada per tutti gli stati membri.
Il 4 aprile il Parlamento europeo ha approvato in via definitiva le nuove misure per facilitare la conciliazione tra lavoro e vita familiare. La direttiva, approvata a larga maggioranza entra in vigore il ventesimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’UE. Gli Stati membri dovranno conformarsi alle norme entro tre anni.
La nuova normativa stabilisce i requisiti minimi che tutti gli Stati membri dovranno attuare nel tentativo di aumentare le opportunità delle donne nel mercato del lavoro e rafforzare il ruolo del padre, o di un secondo genitore, nella famiglia. Tali norme saranno a beneficio dei bambini e della vita familiare, rispecchiando al contempo più accuratamente i cambiamenti sociali e promuovendo la parità di genere.