Proseguo le mie riflessioni avviate con questo articolo. Gli studi sulla doppia presenza si sono focalizzati su come a partire da essa le donne elaborano e costruiscono la propria identità. Entrare nel mondo del lavoro per molto tempo è stato considerato un salto in un ambiente straniero, ostile, e le donne stentano ad essere considerate totalmente adeguate, e soprattutto come una presenza permanente. Il fatto di essere sempre sentite “di passaggio” non ci ha agevolate e abbiamo dovuto faticare non poco a costruirci una nostra identità, alcune hanno accorciato i tempi e hanno abbracciato il modello maschile, identificandosi con quel modello di lavoro e di produzione. Il modo di produzione femminile caratterizzato da un orientamento ai bisogni (Ulrike Prokop sul lavoro domestico) non è detto che non possa tornare utile anche in ambito lavorativo.
Adele Pesce a metà degli anni ’80 (in Lavoratrici e Lavoratori) parla di dilemma uguaglianza/differenza:
“rivendicare una trasformazione dei rapporti di potere tra uomini e donne nello spazio di lavoro senza omologarsi al modello maschile, cioè conservando e rendendo significativo il valore della propria differenza senza che questo porti a una svalorizzazione del proprio lavoro e della propria identità.”
Quando si dice “avere le idee chiare”. Insomma da allora cosa è successo?
Dal Monitor sul lavoro realizzato da Daniele Marini per Federmeccanica, qui, mi sembra che siamo ancora a un livello di ricerca cristallizzato su un modello di riferimento maschile, con una rigida divisione dei ruoli.
“«Le donne — dice Daniele Marini, docente di Sociologia all’Università di Padova e direttore scientifico di Community Media Research — presentano in generale un minor livello di identificazione con il lavoro. Hanno una pluralità di identità, sono mogli, madri, amiche. Il lavoro non è il loro centro esclusivo».”
Questo denota quanto siamo ancora indietro culturalmente e praticamente nella condivisione dei pesi. Il peso di tutto ciò che non collima con la vita lavorativa sembra incombere ancora solo sulla donna e la donna non esce da questo cliché. Ma scusate, solo noi siamo tante cose? Non esistono i padri? Questo vuol dire che l’impegno degli uomini è facoltativo, mentre quello delle donne è dato per scontato e guai se viene meno, saette e fulmini su colei che manca il ruolo storico con tutti gli orpelli e le incombenze.
“La flessibilità, le nuove tecnologie aprono spiragli molto grandi, si ha una sorta di individualizzazione del lavoro. Le persone — dice il docente — si vedono come dei professionisti in carriera e cercano nel lavoro sì, un reddito e uno stipendio, ma a parità di condizioni si domandano anche qual è il percorso che fa far loro».”
La figura dell’imprenditore di se stesso: peccato che il dipendente medio non abbia gran margine di scelta e di contrattazione, si rischia lo schiacciamento pur di avere un lavoro, accettare o lasciare. Ma questo naturalmente resta un problema di conflitti di classi che da un po’ di tempo si cerca di cancellare, facendoci immaginare di essere sullo stesso piano dei padroni, sì, io li chiamo ancora padroni, perché è la parola che esprime meglio la realtà e le distanze.
“Un’altra voce è quella della formazione: le donne ne fanno meno degli uomini e l’unica voce in cui sono allo stesso livello è la formazione al di fuori del lavoro, su temi di interesse personale.”
Questo fenomeno si traduce in stagnazione di carriera e di crescita professionale. E anche la formazione su temi di interesse personale spesso langue perché c’è uno strabordare dei tempi di lavoro sui tempi di vita.
Riprendo un ragionamento di Cristina Borderías:
“Produzione e riproduzione esigono dalle donne logiche di azione e accettazione di valori radicalmente contrapposti. Abbiamo due culture del lavoro, l’ambivalenza esprime la difficoltà di rispondere e di identificarsi con queste logiche contraddittorie; il sentimento di scissione della propria vita, la difficoltà di pensarsi solo in una delle due sfere, il rifiuto della dicotomia tra il familiare e il professionale e della subordinazione di una sfera all’altra. L’ambivalenza con cui le donne vivono queste dicotomie si manifesta come una reazione contro la mistica maschile della produzione che pretende di fare del lavoro il centro della vita e contro la mistica tradizionale della femminilità che pretende di ridurre la propria vita a quella degli altri e cancellare la propria autonomia. Ma proprio i passaggi continui da una sfera all’altra, da una logica all’altra, da una cultura all’altra, ciò che paradossalmente colloca le donne come soggetti capaci di concepire la globalità di una vita sociale.”
(Cristina Borderías, ‘Evolucion de la division sexual del trabajo. Barcelona 1924-1980‘, PhD thesis (Barcelona, 1984)
Quanto sarebbe meglio includere il pensiero e le ricerche sinora svolte da donne come Cristina Borderías, anziché formulare domande e indagini del tutto prive di cultura di genere.