Il 25 novembre e per tutto il mese di novembre si riaccendono i riflettori sulla violenza di genere. Poi al giro di mese si torna nelle catacombe.
Allo stesso tempo c’è chi se ne occupa tutto l’anno, ma è un impegno invisibile, silenzioso. Ci vuole un piano di azione organico, ma sappiamo quanto sia complesso fare lavorare sinergicamente tutti gli operatori, i livelli di intervento (dalla gestione delle emergenze a quello culturale, più a lungo termine) sul lungo periodo, in maniera capillare sul territorio nazionale.
In un articolo recente si parlava della legislazione spagnola come un esempio virtuoso di protezione integrale contro la violenza di genere. A questo punto mi sorge una domanda: perché le donne spagnole hanno manifestato a Madrid lo scorso 7 novembre? Semplicemente perché hanno guardato in faccia la loro situazione, hanno rifiutato di assuefarsi alle morti delle loro sorelle, a una situazione molto simile a quella italiana, hanno compreso l’importanza di riappropriarsi degli spazi pubblici e di riprendersi la parola in piazza, rivendicando che la violenza di genere diventi una questione politica, di Stato, facendola così uscire dalla dimensione privata.
Da noi, dopo una breve stagione in cui sembrava insorgere una lotta collettiva e sembrava levarsi la necessità di non poter risolvere le cose rimanendo nella sfera personale o poco più in là, ci siamo nuovamente rituffate proprio lì. Come descrivere la percezione che si ha osservando il nostro paese?Una miriade di micro-commemorazioni della nostra condizione permanente di soggetti “destinati” alla violenza, perché a volte la sensazione è proprio questa.
Ma la violenza non può e non deve essere vissuta come un destino ineluttabile, definito dall’appartenenza al nostro genere. Certamente in queste occasioni c’è spazio anche per le riflessioni, ma spesso sono partecipate e indirizzate a chi già ha una buona sensibilità e conoscenza del tema. Per non parlare poi dell’ambiguità di alcuni contesti, che vogliono rieducarci sul rapporto uomo-donna.
Pochi i casi di lavoro diffuso, quello vero, che cerca di incontrare le persone, soprattutto le giovani generazioni per comprendere la mole di lavoro che c’è da fare, per fornirgli gli strumenti culturali necessari per una lettura diversa del mondo e dei bombardamenti comunicativi a cui siamo soggetti. Questo lavoro è prezioso e spesso poco valorizzato. Non piace? Piace avere sempre sotto controllo pubblico e situazione? Piace avere di fronte sempre lo stesso pubblico iperselezionato e addomesticato? Allora le situazioni “aperte” non fanno per voi. Ecco perché si pensa che sia più che sufficiente l’enorme mole di convegni e iniziative sul tema della violenza. La realtà là fuori però è ben diversa di una trattazione cattedratica, inamidata.
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L’ha ribloggato su Femminismi Italiani.
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