Bando alle ciance, procediamo.
Molte donne hanno risposto con un “io ci sto” a questo appello, per dire basta, per dire che è giunto il momento di raccontare i nostri “io non ci sto” a un Paese che ha mille cose che non vanno per le donne, mille aspetti in cui si esplica la violenza nei loro confronti. E allora urliamo gli “io non ci sto” in un corale racconto del nostro presente e i nostri “io ci sto” per suggerire ipotesi di cambiamento per il futuro di tutte. Per le donne che vogliono lavorare ad un nuovo spazio, per coloro che con entusiasmo hanno accolto il mio sassolino nello stagno, con loro e per loro vado avanti.
Così iniziava il Manifesto di Rivolta Femminile:
“Le donne saranno sempre divise le une dalle altre? Non formeranno mai un corpo unico?”
(Olympe de Gouges, 1791).
Sono trascorsi oltre due secoli, eppure sembra che ad oggi la risposta a quella domanda sia ancora no. Anzi dopo un tentativo e un’ illusione di aver smontato questa abitudine alla divisione, ci siamo ricascate alla grande con l’ulteriore rischio di perdere importanti pezzi di pensiero e di riflessioni femministe. Spesso ci perdiamo nei meandri di personalismi e di una infinità di micro-conflitti al nostro interno, con la conseguente incapacità di lavorare in modo unitario o quanto meno solidale. Altre volte ci si ritrova di fronte ad un femminile, che per il potere ha scelto di mimare il maschile e di ripeterne valori, linguaggio, modi e relazioni, condannando al silenzio le voci dissonanti.
Allora per fare da cassa di risonanza a chi voglia dire la propria opinione su come vive la sua condizione femminile in un Paese certamente non all’altezza di corrispondere ai bisogni delle donne, lancio qui un tentativo di presa di parola collettiva:
Io non ci sto a una donna definita in rapporto all’uomo, che non può costituire il modello di lettura di noi stesse e del mondo;
Io non ci sto al perpetuo monologo patriarcale;
Io non ci sto a una suddivisione tra donne vincenti e perdenti;
Io non ci sto alle discriminazioni sul posto di lavoro;
Io non ci sto alle differenze salariali uomo-donna;
Io non ci sto al mobbing;
Io non ci sto alle molestie sul lavoro;
Io non ci sto alla precarietà lavorativa, con le sue ricadute sulle nostre esistenze;
Io non ci sto all’esclusione lavorativa e sociale per chi sceglie di diventare madre;
Io non ci sto a un welfare che poggia quasi esclusivamente sulle donne e sul loro contributo gratuito;
Io non ci sto agli stereotipi;
Io non ci sto all’equazione donna-madre;
Io non ci sto all’imposizione dei ruoli di genere sin dalla prima infanzia;
Io non ci sto ai ruoli sociali imposti e attesi;
Io non ci sto ai servizi per le donne, come i consultori che vengono sempre più ridotti e trasformati ;
Io non ci sto all’obiezione di coscienza che mi impedisce di esercitare il mio diritto ad una maternità libera e consapevole;
Io non ci sto all’abuso e oggettificazione del corpo delle donne;
Io non ci sto alla stigmatizzazione delle donne per la loro condotta sessuale;
Io non ci sto alla mercificazione delle donne;
Io non ci sto alla sopraffazione ed alla discriminazione;
Io non ci sto alla violenza sulle vittime di tratta;
Io non ci sto alla normalizzazione della violenza in ogni sua forma;
Io non ci sto alla violenza psico-fisica, che ci annienta e per alcune comporta la perdita della vita.
Non basta più solo parlarne tra di noi, ora penso sia giunto il momento di dare corpo e voce unitarie e fare rete, gruppo, come le sorelle spagnole, dando vita a qualcosa di concreto. Non lasciamo cadere nel vuoto questa voglia di cambiamento che è dentro di noi, facciamola uscire! Coraggio, raccontiamo i nostri “io non ci sto” e come potremmo dire “io ci sto a un Paese che…”, “io ci sto a lottare per chiedere/pretendere/costruire…”. Potrebbe essere questa la formula del nostro manifestare il 7 novembre, in concomitanza con la manifestazione delle nostre sorelle spagnole, in varie città, paesi, borghi, unite insieme da un filo che ci porta a non poter più stare zitte. Perché cambiare è possibile se lo vogliamo.. partendo dal basso, da un movimento spontaneo. Quanto meno proviamoci! A breve ci sarà un terzo passo di questo cammino che abbiamo intrapreso insieme e ci aspettiamo i vostri racconti, la vostra partecipazione per comporre questo mosaico collettivo.
non credo ci sarà mai pieno accordo su cosa è “oggettificazione” e cosa no. A me il concetto in sè lascia perplesso
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Ci tengo ad aggiungere due argomenti ai quali tengo moltissimo: l’incapacità delle istituzioni di tutelare le donne che pubblicamente esortano a denunciare, come dimostra l’alto numero di vittime che si erano rivolte alle forze dell’ordine prima di morire per mano dei partner violenti, e l’enfasi sulla bigenitorialità, che mette a rischio l’incolumità di donne e bambini coinvolti in separazioni e divorzi causati da violenza domestica.
L’abitudine a derubricare il maltrattamento in famiglia a “conflittualità di coppia” costringe le vittime di violenza a stipulare accordi con i loro aggressori, esponendo se stesse e i figli al proseguire di quella violenza che con la separazione avevano sperato di eliminare dalle loro vite.
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Parole molto belle, ormai siamo donne che hanno conquistato la parola, ma le parole muovono davvero il mondo se hanno tutta la potenzialità dei corpi reali delle donne.
Faccio alcune osservazioni non per demonetizzare l’iniziativa, ma perché vorrei uscire dalla fase di protesta e testimonianza per arrivare davvero a dei cambiamenti.
1. Il percorso di riflessione è avviato da molto molto molto tempo e molto è già stato scritto e fatto.
Potrebbe essere interessante fare un elenco di tutto quello che abbiamo già detto scritto e fatto come singole e come associazioni o gruppi su questi temi.
Sono certa che ne verrebbe un elenco lunghissimo e renderlo visibile materialmente, nei modi che potremmo inventarci, sarebbe una grande azione di memoria di noi stesse.
Non siamo all’anno zero della politica delle donne. Cancellare la memoria delle lotte di chi è venuta prima di noi ci condanna alla riproduzione del patriarcato nelle sue forme più subdole, che si annidano nelle strutture sociali, ma anche nelle forme relazionali e nelle impronte delle coscienze.
2. Non si costruisce l’unità d’intenti in pochi giorni e non possiamo continuare a ripeterci, anche nelle forme espressive.
3. L’Udi ha lanciato due anni fa la Convenzione NOMORE insieme a molte associazioni tra cui DiRe. Non è la perfezione ma è qualcosa. La conosce? Ritiene che sia superata e dobbiamo fare e chiedere altro?
Costruire una piattaforma è un processo che richiede pazienza e le emozioni che la sostengono devono saper reggere la durata necessaria a portare a casa un risultato, altrimenti sono fuochi di paglia, confortanti in una notte buia, ma non indicano la strada.
Non avanzo dubbi perché penso che tutto sia inutile ma proprio perché penso che tutto possa essere utile e nessun pensiero di donna venga ignorato
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Potrebbe essere utile ripercorrere i passi sinora fatti, molte non sono a conoscenza di questo bagaglio, ma ancor più, alla luce di questo percorso, ci dovremmo interrogare perché le criticità e i suggerimenti contenuti nella Convenzione NOMORE non abbiano avuto un effetto benefico e di reale cambiamento. Cosa ha congelato i contenuti di quel documento, cosa ci ha impedito di superare realmente i problemi? Faccio qualche esempio, la PAS, di cui non ci siamo ancora liberati e che ritorna periodicamente. Linguaggio e cultura dei media, abbiamo ancora una difficoltà notevole a cambiare approccio. Il mio tentativo è orientato a questa presa di responsabilizzazione collettiva, interrogandoci sui motivi della situazione attuale, soprattutto di fronte a una difficoltà di mobilitarci a fronte di una progressiva perdita di diritti e di difficoltà a fare applicare trattati come la convenzione di Istanbul. Chi vigila, chi monitora? Sono consapevole che il cammino è lungo, ma non penso che si possa continuare a lasciare le cose come stanno. Quindi mi piacerebbe lavorare in questo senso, perché la situazione non ci piace così com’è e siamo stanche di rassicurazioni blande.
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La discriminazione è spesso un filo invisibile con cui si incatena, basta pensare che in alcuni luoghi di lavoro le donne che rientrano dalla maternità vengono “punite” con de-mansionamenti.
Staremo a vedere la sperimentazione della nuova legge sull’astensione facoltativa “frazionata” cosa porterà alle donne su questo versante.
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[…] https://simonasforza.wordpress.com/2015/09/28/secondo-passo/ […]
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[…] è cambiato in questi ultimi mesi, da quando a settembre scrivevo questo post (seguito da altri qui e qui, qui e qui e qui) e iniziava un tentativo di organizzare un percorso unitario per giungere a […]
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