Nel titolo di questo post riprendo la domanda posta da Carol Gilligan, nel suo saggio La virtù della resistenza. Il tema è “le vite delle donne”. Forse occorre centrare innanzitutto la nostra collocazione. Se è vero che filosoficamente parlando viene prima il futuro del passato, che in fondo non è altro che la rivisitazione/lettura/ricordo che oggi facciamo di un qualcosa accaduto, ma che non possiamo che definire nell’oggi, che poi è futuro, dobbiamo mettere insieme le vite delle donne, ben sottolineato da quel NOI.
“Le vite delle donne sono un segnale luminoso – o come direbbe Virginia Woolf, un faro – che illumina il cammino che noi, come esseri umani, abbiamo percorso e anche la strada a venire. Le voci delle donne offrono una risonanza che potrebbe aiutarci a non smarrire la via”.
Ma quali sono queste voci, che posizioni sottolineano, che cosa sappiamo di loro? Interroghiamoci se con il passare degli anni ciò che hanno detto ha lo stesso significato o se esso è stato stravolto per essere riadattato e consumato ai nostri giorni. Anche perché oggi di NOI ci sono svariate sfumature.
La grande conquista è stata affermare e portare al riconoscimento che i diritti delle donne sono diritti umani, che deriva dalla straordinaria scoperta che le donne di fatto sono esseri umani. Ogni tanto va ribadito, perché ultimamente veniamo associate a cose, merci e via discorrendo. Di recente mi è stato detto che “onde evitare di rinchiudersi in temi strettamente femminili” è preferibile dedicarsi ad altro, tipo la difesa dell’ambiente e del territorio. Proprio la stessa cosa, in effetti. Le donne le mettiamo in un angolino, tanto le battaglie son già state compiute in passato. E qui la riflessione sul concetto di “futuro” tornerebbe utile, per spiegare la necessità di tornare a difendere certi diritti. Non conta nemmeno spiegare che i diritti delle donne significano anche migliore qualità della vita per l’umanità, che quando si parla di prostituzione, non stiamo parlando unicamente di donne, bensì di relazioni/non-relazioni, di strutture di potere e di dominio maschili ecc.
Non possiamo che prendere atto di certe posizioni.
E si riparte sempre da zero. Ogni intuizione e disvelamento sembrano archiviabili, e così il femminismo si azzera a ogni ondata, suscettibile delle onde che provengono da altri ambiti (la politica istituzionale, l’economia, il welfare). Ariel Levy parla di “distorsioni della memoria storica: è come se il femminismo fosse affetto da una sorta di sindrome della falsa memoria”. Un “disordine della memoria culturale”, che porta a modificare il senso degli slogan storici (il corpo è mio e me lo gestisco io, il senso della scelta personale, l’affermarsi di un’etica personalistica, tutto il capovolgimento su “vittime” e carnefici” ecc.), delle parole chiave (autodeterminazione per esempio), degli stessi scritti di quegli anni. Alcune hanno cancellato persino il differenziale di potere uomo-donna, pur di giustificare alcune posizioni. Un esempio è dato dal fatto che per esempio ci siamo forse dimenticate che la politica dell’uguaglianza fosse incompatibile con le strutture della famiglia tradizionale (che poi è quella patriarcale). L’obiettivo della piena cittadinanza per le donne era subordinato a una trasformazione radicale della società, a partire per esempio dal tema della cura o dell’accudimento. Tradizione e femminismo potevano e possono davvero conciliarsi?
“Se il padre lavora e la madre lavora, nessuno rimane a guardare i figli. O il governo riconosce la situazione e provvede all’assistenza all’infanzia (come avviene in molti paesi europei) o la cura dei bambini diventa un lusso alla portata dei ricchi e un problema per tutti gli altri.”
Possiamo ben dire che la nostra memoria distorta ha causato non pochi problemi.
Inoltre, sostenendo che “una donna vale l’altra”, purché fossimo rappresentate, ci ha azzoppate, perché ha prevalso il compromesso e le posizioni radicali e innovative sono state accantonate. Per cui ci troviamo di fronte anche a un problema enorme di rappresentanza, quale e come si debba definire e realizzare. Dobbiamo riflettere su cosa è stato e dovrà essere il nostro rapporto con il potere e come declinarlo.
Come sempre, se scrivo c’è un qualcosa che mi fa scattare la scintilla e smuove un po’ i miei pensieri. Cito Donatella Proietti Cerquoni che riassume e analizza bene il contesto nel quale ci muoviamo:
“Oggi alcune e alcuni si definiscono femministe e femministi mentre sono spietate espressioni dell’ideologia neoliberista che mette a profitto i talenti femminili (Anna Simone, I Talenti delle donne) e considera la vittima “autodeterminata” al punto di configurare complicità con il suo carnefice. C’è in atto nel web una campagna impressionante tesa a dimostrare questa presunta autodeterminazione che si gioca in modo violentissimo particolarmente nel web nei dibattiti sulla prostituzione ma che riguarda ogni ambito dell’esistenza femminile. La donna deve mettere il suo capitale biologico, in primo luogo, al servizio del mercato ricavandone gli stessi effetti, simbolici e materiali, che gli uomini hanno pensato per loro stessi: denaro e potere che chiamano libertà. La donna “vende” se stessa e il suo consenso all’uso mercificato di ogni dimensione di sé, non solo il corpo. Questa è violenza simbolica maschile che diventa materiale perché coinvolge la vita di esseri umani che si vogliono ridurre a merce anche mediante leggi dello Stato come quella che si sta per promulgare sulla “regolamentazione” della prostituzione. Si vuole che le donne diventino “cose” ancor prima di morire (Simone Weil). Questi sono assassini simbolici e materiali del sesso femminile”.
Il femminismo sta riemergendo, (con tutti i pericoli dell’essere diventato “di moda”, fashion, come era emerso in questo recente post) ma ha i connotati che descrive Donatella. Sta tornando in quanto strumento di una restaurazione silenziosa di modelli e strutture di ragionamento e di pratiche che pensavamo ingenuamente di aver superato. Il nostro stare nel mondo ha assunto le caratteristiche dello stare nel mondo degli uomini, e alcune di noi hanno ceduto ad esso, perché implica una semplice accettazione di qualcosa di già pronto all’uso, per poter avere spazio. Anche alcune femministe storiche, come dice Donatella, si sono voltate “dall’altra parte” facendo “non so quanto inconsapevolmente, il gioco delle liberal e dei loro alleati maschi”. Si è dismessa la via autonoma, di trovare modalità tutte nostre, che cambiassero veramente l’assetto delle relazioni e dell’agire nel mondo.. E si è tornate in un privato privatissimo. Questo per tutte le generazioni. Lo è ancor di più per le ultime precarissime e affannate. Chiaramente il risultato di un “sapere” e di un “sentire” femminista (purché non sia neoliberal) potrebbe fare tanto bene in molti ambiti, dalla lotta alla violenza maschile contro le donne, alle soluzioni in ambito lavorativo, dalle politiche per contrastare la disoccupazione o per favorire la conciliazione, alle battaglie per ottenere nuovi e/o migliori servizi. Ma dobbiamo anche contemplare l’idea che c’è di mezzo il denaro, i finanziamenti, i bandi che rendono “appetitose” la gestione di queste attività destinate alle donne. C’è di mezzo il potere e la sua gestione o co-gestione. Tutto diventa acquistabile, perché siamo immerse in una società dominata da un sistema di scambio economico che crea disparità. Il sistema si regge solo se ci sono persone “sacrificabili”, situazioni che contemplino l’eccezione di diritti, se non c’è eguaglianza, resta solo l’illusione di pari diritti, diritti come ologrammi. Ultima annotazione: siamo abituate a vedercela per conto nostro. L’isolamento porta a non riuscire a difendere i diritti, le conquiste, si attua una fragilità anche di chi nel femminismo investe notevoli energie e speranze. Dopo tutte queste brutte esperienze di “tradimenti” e fraintendimenti, sottrazioni, strumentalizzazioni, abbiamo sempre più paura di fidarci dell’altra, della compagna di lotte. Quanto meno dovremmo riuscire a trovare una formula per fare rete con coloro che sentiamo vicine. Per non fare il gioco di chi ci vuole frammentate, come ho più volte sostenuto. Con il rischio di diventare “cose”, oggetti, suppellettili da spostare all’occorrenza e da usare in ogni senso. Con il rischio di sentirsi anche contente di questo status.
Dobbiamo forse tornare a lavorare a uno spazio ontologico nuovo tutto nostro, di cui parlavo qui.