No, non è il patrimonio artistico, non è il cibo o il turismo. L’Italia può vantare il primato del “costo più basso dei licenziamenti a livello mondiale”.
L’inchiesta de L’Espresso, che parla di mobbing post-maternità, scopre di fatto l’acqua calda. Scorrono i dati, i numeri del fenomeno nei principali centri, settori e mansioni, le segnalazioni di mobbing (nel capoluogo lombardo, ad esempio, al Centro Donna della Cgil solo negli ultimi tre anni si sono rivolte 1.771 lavoratrici). E qualche storia a condire il tutto, tanto chi non ci è passato non può capire, ci prendono pure per donne deboli, incapaci di farci valere o di sacrificarci per benino, come ci chiede il modello imprenditoriale post-capitalista, ultra-liberista, per la serie “meno diritti meglio è”.
“I dati parlano chiaro: negli ultimi cinque anni in Italia i casi di mobbing da maternità sono aumentati del 30 per cento. Secondo le ultime stime dell’Osservatorio Nazionale Mobbing solo negli ultimi due anni sono state licenziate o costrette a dimettersi 800mila donne. Almeno 350mila sono quelle discriminate per via della maternità o per aver avanzato richieste per conciliare il lavoro con la vita familiare”.
Le stime, sulla base di coloro che denunciano o quanto meno ci provano. Le altre, quelle che rinunciano a priori, sono sommerse, al massimo si riesce (se si ha un po’ di buona volontà) a contarle guardando i questionari statistici che sei costretta a compilare se hai un figlio under 3 e ti dimetti “volontariamente”. Ne avevo già parlato qui e qui.
Sinceramente sono un po’ stufa di essere passata nel tritacarne e di sentirmi dire “denunciate, non mollate”, nonostante l’onere della prova di aver subito mobbing sia a nostro carico. Non può essere dimostrato qualcosa che avverti nell’atmosfera sul posto di lavoro, non puoi dimostrare che più volte ti sono state richieste trasferte incompatibili con un figlio di un anno, che devi tornare disponibile h24 come se non avessi nessuno che ti aspetta a casa. Qualche datore di lavoro temporeggia, attende che superi i mesi di allattamento. Poi generalmente devi tornare al ritmo consueto, ante-maternità, con orari che superano grandemente, in alcuni casi, quelli previsti dal contratto, peccato che non ti spettino straordinari e il tuo mensile sia da fame (sei sempre donna ricordatelo!). Non puoi continuare a “ostacolare i progetti aziendali” perché hai avuto un figlio. Automaticamente ti trovi ad essere l’ultima ruota del carro, senza più alcuna prospettiva di carriera, manovalanza, pure ingombrante e inefficiente. Una volta che avanzi richieste che ti permettano di conciliare, resta al datore di lavoro la totale libertà di concederti o meno dei benefici. Quindi che cosa puoi pretendere? Nulla, puoi solo fare le valigie e andartene. Sei un peso morto, ti fanno sentire tale. Resti in silenzio, perché di fatto diritti non hai. Sarebbe diverso se lo stato prevedesse delle forme di conciliazioni (magari dando in cambio sgravi fiscali agli imprenditori) sancite a livello di contrattazione nazionale, o addirittura di livello legislativo.
Quindi signori non scaricate su di noi la palla, occorrono provvedimenti immediati, volti a garantire che il mobbing sia impraticabile e poco appetibile a monte, a priori. Altrimenti parliamo della solita aria fritta.
P.S. L’istantanea tracciata da L’Espresso è ante JobsAct.. chissà cosa accadrà ora!!!