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Classe e patriarcato, due variabili per il controllo

su 29 marzo 2015

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Parto da lontano, per poi giungere a parlare di fatti concreti e di vita quotidiana, di storie che purtroppo sono più o meno identiche per tante donne.

Ho recuperato il testo di Vivien Burr, Psicologia delle differenze di genere, Il Mulino 2000.

Il capitalismo, secondo l’analisi marxista, con il suo modello di produzione industriale ha richiesto un modello di società fondata sul matrimonio e che assicurasse un lavoro domestico a basso costo (anzi gratuito e automatico), assicurando un lavoro riproduttivo necessario per il mantenimento del sistema capitalistico e per il suo successo. E anche quando le donne lavorano sono l’anello flessibile ed economico della forza lavoro. Questo tipo di analisi non riesce ad evidenziare le disparità tra i sessi preesistenti alla rivoluzione industriale. Secondo Barret M. (Women’s Oppression Today: The Marxist/Feminist Encounter, 1988):

“L’oppressione delle donne non costituisce un prerequisito dello sviluppo del capitalismo anche se ha acquisito una base materiale nei rapporti di produzione e di riproduzione del capitalismo moderno”.

La retribuzione più bassa e più vantaggiosa delle donne non è sufficiente a preferire le donne, perché c’è la necessità di perpetuare il “servizio” femminile in ambito domestico, vitale perché gli uomini si possano dedicare completamente all’attività lavorativa.
Se consideriamo la variabile di classe, come controllo dell’impresa sui lavoratori, e la variabile patriarcale, intesa come controllo maschile sulle donne, possiamo cercare di comprendere meglio la posizione femminile nel mercato del lavoro. Alcuni teorici “dualisti” come Walby S. ritengono che “capitalismo e patriarcato siano due sistemi rivali intenti a sottrarsi vicendevolmente il controllo del lavoro femminile”. Lotta di classe e tra i sessi concorrono a determinare la posizione delle donne nel mondo del lavoro retribuito. Heidi Hartmann analizza la segregazione del lavoro per sesso che è fondamentale per generare quella trappola che inchioda le donne nel matrimonio e in occupazioni scarsamente remunerate.
Qui un pezzo di Walby che ricostruisce questo meccanismo:

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Hartmann parte dal presupposto che vi sia un doppio controllo sulle donne: al momento dell’accesso al mondo del lavoro e nella sfera privata.
Ma il consenso delle donne a questo assetto di oppressione maschile, ha solo ragioni di pura necessità materiale?
Juliett Mitchel, riprendendo Freud, è convinta che “le relazioni patriarcali siano profondamente radicate nell’inconscio e non possono quindi essere modificate con le sole leggi sulle pari opportunità o con nuove prassi di socializzazione”. Solo una rivoluzione integrale della società umana patriarcale potrà apportare un cambiamento reale.

Nancy Chodorow e Shulamith Firestone pongono invece l’accento sul fatto che l’uomo ha occupato la sfera pubblica, lasciando alla donna quella privata.
La prima suggerisce che l’acquisizione di ruoli più paritetici nella famiglia possa migliorare il rapporto tra i sessi, mentre la seconda individua la soluzione nella demolizione dell’istituto familiare e del legame biologico che lega le donne agli uomini (in termini riproduttivi) e ai figli. In quest’ultimo caso entriamo in un assetto più platonico di società, che presuppone una riproduzione della specie meccanicistica e slegata da rapporti, relazioni, legami affettivi ecc. Personalmente credo che questa direzione sia di difficile realizzazione e non mi piace molto.
Christine Delphy sostiene che le disparità nella divisione del lavoro domestico (punto cruciale per le femmiste radicali) sono difficilmente modificabili vista l’importanza che ha per l’uomo questa differenza di pesi. “Le teorie dell’equità e dello scambio che considerano la divisione del lavoro domestico una soluzione razionale concordata dai due sessi di fronte a un problema comune” non sono applicate in tutte le coppie, anche se c’è qualche donna che arriva a sostenere che “ormai le nuove generazioni di donne fanno molto meno degli uomini in casa”.

La socializzazione, il processo precocissimo e lungo che porta ragazzi e ragazze ad acquisire con la crescita attributi, abilità e attese differenti che li spingono a fare scelte di vita (privata e pubblica) diverse, spesso porta a considerare come naturali queste “evoluzioni” dei ruoli di uomini e donne.
Non possiamo nemmeno ridurre queste “segregazioni di ruoli” a fattori ambientali, come giochi o differenziazioni di differenti “saper fare” tra maschi e femmine. Indubbiamente ci sono dei fattori culturali forti e radicati che concorrono a creare squilibri tra i generi, ma sono fattori culturali multiformi. La questione è sicuramente più complessa e difficilmente riconducibile a una sola chiave di lettura, tutte queste analisi differenti concorrono a fornire un quadro della situazione, tuttora irrisolta e che per alcuni aspetti è anche peggiorata. Insomma siamo molto lontani dall’aver risolto i problemi di equità tra uomini e donne.
La penalizzazione per le donne oggi arriva più in là, non la si avverte negli studi, si inizia a intravedere all’ingresso del mondo del lavoro, in termini retributivi, ma spesso non la si percepisce perché i datori di lavoro ci tengono che certi “favori” di genere non vengano divulgati troppo. Il buco nero arriva con la maternità o con l’approssimarsi della scadenza dell’orologio biologico, che guarda caso è un gingillo di cui solo le donne sono dotate.
Effettivamente, sembra di stare all’anno zero, come se fossimo agli albori dell’ingresso delle donne nel mondo del lavoro. Una donna a cui si richiede di essere paracadute della società e dell’uomo nella vita privata e in quella pubblica, e quel “problema comune della gestione della quotidianità domestica” diviene improvvisamente un problema della donna, ancora e quasi esclusivamente femminile. C’è chi si organizza, ma quasi sempre è un’organizzazione che prevede di scaricare il peso su qualcuno esterno alla coppia, familiare o fornitore di servizi di cura e di faccende domestiche. Pesa la differenza retributiva sulla scelta del congedo parentale o nel caso più estremo di dimissioni per far fronte alla gestione familiare. Pesa l’indifferenza e l’isolamento in cui tutte queste scelte avvengono. Pesa il giudizio severo di coloro che non si capacitano del fatto che a un certo punto la donna rinunci a tenere quell’equilibrio sospeso da funambola della famiglia e rinunci a lavorare. Non hanno la stessa reazione però quando ti vedono strisciare quotidianamente, cercando di trainare un peso più grande di te. Perché il sapersi organizzare è una delle tante favole che ci raccontiamo e che ci raccontano per continuare a farci fare le bestie da soma.
Qualche giorno fa ripensavo alle dimissioni in bianco. E pensavo come spesso sia la punta di un iceberg più grande. Perché vogliamo in fondo lasciare sommerso il pezzo più grande. Ci sono tanti aspetti di cui quasi nessuno si preoccupa. Andate a guardare per esempio la normativa (qui) per le dimissioni di una lavoratrice con figlio minore di 3 anni, capirete di cosa sto parlando.

Perché quando a una donna non viene garantita un’alternativa, le dimissioni “volontarie” sono l’unica strada. Quando nonostante problemi seri, nessuna flessibilità ti viene concessa. Quando compili un modulo per sottoscrivere la tua approvazione di un sistema che non condividi affatto, quando come cause delle dimissioni adduci l’assenza di alternative, la mancanza di una prospettiva di flessibilità, la mancanza di sostegni reali alla maternità. E poi scopri che non vogliono ascoltare la tua storia, che entrerai nelle statistiche impersonali, quelle annuali che vengono messe in un cassetto per non essere mai affrontate, al massimo per essere sciorinate all’occorrenza. Uno Stato che ti chiede di mettere per iscritto i motivi delle tue dimissioni a soli fini statistici e non è in grado di valutarli nella loro compatibilità con la tua scelta, che non è più tanto libera, ha fallito. E ancora una volta l’onere è sulle spalle delle donne, che si vedono la doppia beffa, da parte del datore di lavoro e dello Stato.
Che senso ha convalidare le tue dimissioni e poi dichiarare in un modulo a parte, valido solo statisticamente, che se ti fosse stata concessa flessibilità (part-time) e qualche forma di smart-work non avresti scelto di dimetterti, che quella scelta non è stata libera, ma che ti sei trovata in un vicolo cieco, in cui nessuno sarebbe venuto a salvarti e a garantire i tuoi diritti?!
La disparità continua ad annidarsi dappertutto, ci arrabattiamo per superarla, per non vederla, per farci l’abitudine, ma come negare che alla fine colpisce quasi tutte noi, in un modo o nell’altro? Forse un primo passo utile per uscire da questi problemi è quello di abbandonare l’abitudine a risolvere i problemi ognuna per proprio conto, in ottica individualistica, tornando a un approccio più collettivo delle sfide quotidiane.

 


11 responses to “Classe e patriarcato, due variabili per il controllo

  1. Paolo ha detto:

    l’assetto platonico mi pare un incubo e non voglio neanche pensare che sui diritti delle donne l’occidente sia all’anno zero.
    Sulle scelte di studio maschili e femminili, voglio credere che oggi sia sempre più possibile seguire le proprie inclinazioni

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    • Paolo ha detto:

      e le dimissioni in bianco sono e restano una vergogna

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    • simonasforza ha detto:

      Paolo, la disgiunzione del legame biologico a cui accennavo, può sembrare fantascientifica, ma di ectogenesi (utero artificiale) già si parla. Non penso che la strada per superare la disparità tra i sessi sia quella di spezzare i legami, piuttosto dovremmo rifondare quei legami dandogli delle fondamenta che si basino sulla parità e il rispetto reciproco.

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      • Paolo ha detto:

        l’utero artificiale mi pare ancora lontano, anch’io non credo nello spezzare i legami (filiali o sentimentali-amorosi che siano) di questi legami abbiamo bisogno e abbiamo bisogno anche di rispetto reciproco

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  2. M. ha detto:

    Quanto è vera la frase sul vicolo cieco… Che brutta giornata e che sconfitta quando anni fai firmai quel modulo per L’Ispettorato del Lavoro. Ho scelto una via certo più comoda, tra l’uscire alle 7.40 di mattina e tornare alle 19.00, ho preferito rimanere a casa. Ma si può definire una scelta? E per alcune di noi, meno qualificate, riprendere a lavorare è molto difficile.

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    • simonasforza ha detto:

      Uno dei motivi per cui scrivo è quello di raccontare e di condividere le storie, le mie e non solo. Questo ci rende meno isolate e ci rende partecipi di una storia più ampia. Siamo la trama del tessuto dell’umanità. Sappiamo entrambe cosa si prova e di cosa si tratta. Sappiamo quanto segnino le “non scelte”. Ma la sconfitta non è la nostra, questo mai, è quello che vogliono farci pensare. La sconfitta è dell’intera società, delle istituzioni che non si curano delle migliaia di storie come le nostre. Il peso che ora grava sulle donne, va redistribuito. Non possiamo rimandare ancora. Un abbraccio forte!

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      • M. ha detto:

        L’ho vissuta come una sconfitta personale perché ho fatto l’errore di pensare che la massima dedizione al lavoro dimostrata negli anni precedenti (ho pure fatto tutti gli esami per la gravidanza il sabato), gli straordinari e la puntualità mi avrebbero protetto al ritorno… Io che ho chiesto di riprendere part-time al quinto mese di nascita di mio figlio mi è stato consigliato con taaaanta dolcezza di stare a casa ancora un po’… Per poi tornare e trovarmi demansionata e mi fermo qui poiché ripeterei un copione già visto. Un abbraccio a te, ti leggo da molto ma non commento quasi mai. 🙂

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  3. […] a compilare se hai un figlio under 3 e ti dimetti “volontariamente”. Ne avevo già parlato qui e […]

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