Elisabetta Ambrosi ha raccolto le storie di una generazione di donne e madri. Sono le nostre storie, quelle che ci raccontiamo continuamente tra di noi, quelle che restano sconosciute e inascoltate da chi dovrebbe fornire risposte adeguate. Quel “non ho mai rinunciato alla convinzione di poter fare un lavoro impegnativo con precisione” e quel “Mollare? Mai” mi sono però sembrate un richiamo eccessivo alle donne, a mo’ di sferzata, un chiedere di stringere comunque i denti altrimenti la si da vinta a.. a chi? Loro chi? Invece, per essere sufficientemente schiette, almeno tra di noi, forse occorrerebbe mettere nero su bianco anche le sconfitte, le rinunce, i compromessi al ribasso, i vicoli ciechi, le infelicità. Ci sono, esistono, non si possono negare. Devono emergere tutte le contraddizioni reali finite nei buchi neri del conformismo e delle soluzioni fai-da-te. Se non raccontiamo i fatti, come possiamo scardinare gli stereotipi e i modelli che da sempre giustificano il nostro arrancare come “angeli” sacrificabili? Se nascondiamo i particolari “scomodi”, il mondo non saprà mai la Verità. La verità è molteplice, bella o brutta, faticosa e leggera, tra bassissimi e altissimi. Ecco che la nostra storia va raccontata per quello che è, senza tagli o pudori, senza l’istinto di voler dare l’idea che alla fine ce la si fa, perché ce l’ha prescritto qualcuno che dobbiamo superare egregiamente ogni ostacolo. Dobbiamo raccontare tutto se desideriamo che la realtà emerga. Quello che non ci raccontiamo purtroppo è la verità, per paura di un giudizio altrui e per paura di non essere state abbastanza brave. Non siamo guerriere perché non siamo in guerra con niente e nessuno. Siamo qui solo a ricordare che il mondo gira anche grazie all’altra metà (più o meno) della popolazione. Quando questo verrà riconosciuto, non solo a parole, saremo a buon punto. E “farcela”, ognuna a proprio modo e secondo le proprie scelte (vere e non indotte) non sarà più l’eccezione, ma una possibilità a portata di tutte.
Ripeto ancora una volta, che “mollare” non è necessariamente un male, una debolezza, un difetto, ma può essere sintomo di una scelta consapevole, in un contesto che semplice non è.
Non vogliamo tutt* le medesime vite, preconfezionate.
Per favore, la verità, nient’altro che la verità.
Per tratteggiare un quadro sociologico onesto, sarebbe utile puntare i riflettori non solo sulle storie delle donne, ritratte singolarmente, ma sul contesto: partner, famiglia, amici, tipologia di lavoro, aspetti economici e geografici. A mio avviso, si comprenderebbero molte più cose.
Mi ripropongo di leggere il libro Guerriere, disponibile anche in ebook su piattaforma MLOL (Media Library On Line)
p.s. e basta con queste storie di manager che lavorano da casa! Perché non raccontiamo le storie di coloro che non hanno nessuna possibilità di farlo, donne comuni, con mansioni non dirigenziali, con figli che hanno problemi di salute e si sentono sbattere la porta in faccia!!! Quello che posso dire è che di storie così a livello apicale ce ne sono tante, perché potrà sembrare strano, ma spesso la flessibilità viene concessa più facilmente a coloro che hanno mansioni più alte. Almeno nella mia esperienza è stato così. Con questo non voglio creare una sorta di guerra tra donne, però forse dovremmo porci qualche domanda sulle cause di questa differenziazione. Un’altra annotazione. Mi capita sempre più spesso di notare che in questo tipo di articoli viene sempre citata l’azienda. A mio parere si potrebbe trattare di una specie di escamotage pubblicitario, un esempio di trovata da marketing (con feedback positivi sull’immagine dell’azienda) camuffata da giornalismo. Va di moda, tra le multinazionali specialmente, far propaganda sul clima aziendale idilliaco.. Però, forse sono troppo prevenuta. Magari mi sbaglio.
Questo progetto mi piace.
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