Non riesco a capire perché ci deve essere un unico modo di agire, di parlare, di raccontare un tema. Se ogni cosa dev’essere considerata strumentalizzazione. Non può esistere un unico verbo o persone che possono parlare, attivarsi, commentare e altre no. Parlo della questione posta qui sulla #breastunit. Così, come questa reprimenda (fuori luogo e che personalmente non condivido, nemmeno se sulla scorta di un libro) delle donne che subiscono violenza che ho letto qui, alle quali si chiede di stare possibilmente in silenzio, di non fare le vittime, senza però dare risposte concrete su come superare o come rielaborare questa esperienza dolorosa. Spesso raccontare e condividere può aiutare, può essere terapeutico. Come se tutt* fossimo uguali e dovessimo reagire allo stesso modo. Assolutismo dei sentimenti, del dolore, della sofferenza, delle reazioni. Come se qualcuno ci dovesse impartire come è giusto comportarsi in ogni occasione. Come quando ti chiedono di definire il tuo dolore su una scala da 1 a 10: il dolore è soggettivo e nessuno può permettersi di affermare che il mio livello di sopportazione del dolore non è adeguato e non va bene.
Se non ne parliamo, se non cerchiamo di sensibilizzare sul tumore al seno, usando anche, perché no, il richiamo del colore rosa di una maglietta o di una parrucca, se le donne con un’esperienza di violenza non possono raccontare a proprio modo e nessuno può cercare di organizzare iniziative e dibattiti per sensibilizzare la cittadinanza, cosa ci resta?
Un conto è il capitalismo che cerca di venderci un braccialetto antiviolenza, un conto è organizzare manifestazioni, convegni per informare, discutere, aprire un dibattito. Per quanto possano essere utilizzate strumentalmente da qualcuno, non possiamo buttare via il bambino con l’acqua sporca. In tanti portano avanti tali battaglie in buona fede e credendoci appieno. Grazie a queste persone la vita di tutt* può migliorare. Non dobbiamo confondere le cose e fare di tutta l’erba un fascio.
Se non teniamo accesa l’attenzione su certi temi, si resta fermi e non si compiono progressi. Invece, occorre diffondere informazioni, consapevolezza, dal cancro alla violenza, fino ai diritti di ciascuna donna. Non dobbiamo aspettare che il problema ci riguardi e ci coinvolga direttamente per agire. Dobbiamo metterci a disposizione sempre e dare il nostro piccolo contributo.
Non dobbiamo più obbligare i pazienti a compiere chilometri di viaggio per poter usufruire di terapie e di strumentazioni adeguate e innovative. In famiglia ho vissuto questi drammi e non è ammissibile che non si ponga rimedio. In certe condizioni di salute, farsi Bari-Milano non è il massimo.
Ci sono tanti problemi da affrontare, ma non è restando in silenzio e pretendendo che lo facciano tutti, che si risolvono i problemi. Occorre battersi ognuna con i propri mezzi e metodi, nel proprio piccolo, affinché qualcosa cambi, migliori realmente. Perciò penso che quello delle breast unit sia un buon progetto, con obiettivi chiari e essenziali, importanti. Non dobbiamo aspettare fermi, in attesa che accada quel cambiamento politico e culturale necessario, ma batterci affinché certi dibattiti non siano mai trascurati, perché l’informazione non cessi mai di girare, perché siamo noi in prima persona ad essere chiamati a compiere piccoli, ma significativi passi in avanti, su più fronti e a più livelli. I tagli alla Sanità, al welfare non si contrastano restando immobili. Mai!
Se ne volete sapere di più sulle breast unit, vi consiglio questo post di Luigia Tauro: qui. Ci vediamo a Milano il 17 giugno.