Ritorno sul tema ancora una volta, spinta da questo articolo di Tiziana Canal. Che la work life balance non sia una questione di genere potrebbe avere un senso se in Italia fossimo culturalmente diversi e se i ruoli genitoriali fossero realmente interscambiabili. Ma sappiamo benissimo che non ci siamo proprio.
In un mondo perfetto, anche soluzioni come i nidi sarebbero sufficienti a garantire una buona via per questo bilanciamento. Evidentemente siamo nel mondo reale e quindi dobbiamo fare i conti con le mille variabili esistenti. In un contesto occupazionale difficoltoso, in cui le regole sono sempre più arbitrarie, tendenti alla massimizzazione del margine di profitto, il benessere, i diritti e la conciliazione vanno a farsi benedire. La precarizzazione confermata anche dall’incerto testo del Jobs Act ha un’unica matrice: non si tratta di garanzie, ma di un alleggerimento delle regole, e non basta l’idea di estendere l’indennità di maternità a tutte le categorie di lavoratrici per indorare la pillola.
Si prevede di incentivare gli accordi collettivi per favorire la flessibilità dell’orario lavorativo e dell’impiego di premi di produttività. Questo teoricamente potrebbe essere un aspetto positivo, ma occorre conoscere il nostro sistema produttivo, per capire che la tendenza generale va verso una contrattazione sempre più particolareggiata, one to one, dove la donna (e non solo) è da sola, schiacciata in un gioco con un’unica regola “prendere o lasciare”. Se da un alto con la crisi cresce il part-time, per troppe donne questo resta una chimera. La regola principale è la flessibilità, o meglio la totale disponibilità a lavorare quando, come, dove il tuo padrone desidera. In un contesto simile le probabilità di riuscire a conciliare sono prossime allo zero.
L’abolizione della detrazione per il coniuge a carico e l’introduzione della tax credit quale incentivo al lavoro femminile va a penalizzare chi si fa carico del lavoro di cura familiare, che nella maggior parte dei casi grava sulla donna. In pratica, il lavoro di cura resta a nostro carico e in più veniamo bacchettate.
Se l’obiettivo è lavorare a tutti i costi, ecco che ogni regola e ogni condizione sono lecite. Il tema della conciliazione resta molto femminile, ma questo non è a mio avviso un problema, soprattutto se dietro c’è la libertà di scelta. Mi spiego meglio. Se alle donne fosse data una reale possibilità di scegliere quale equilibrio creare tra vita privata e lavoro, se non ci fosse una discriminazione di genere in molte professioni, se non ci fosse un marchio di pericolosità per tutte le donne in età fertile, se il lavoro di cura fosse considerato come un valore aggiunto per la società anziché come un peso e un flagello per la nostra industria/economia, se accettassimo che ci sono delle peculiarità che fanno delle donne una risorsa di cui tener conto e da sostenere, forse avremmo compiuto qualche passo in avanti. Non dobbiamo negare il ruolo delle donne, che non va assolutamente confuso con quello degli uomini. Il punto debole sinora è stato che alla donna non si è data una reale possibilità di scelta. Finora, chi può (per varie motivazioni di carattere economico o di contesto familiare o lavorativo) è riuscito a conciliare; chi non ha potuto, si è sacrificato e ha accettato la mortificazione, con annessi sensi di colpa inflitti nel caso non riuscisse a mantenere i piatti della bilancia in equilibrio.
Conciliare è quando non sei costretto a soffocare uno dei due aspetti, conciliare è quando non ti senti un impaccio per l’azienda e/o la società se devi dedicarti alla cura familiare, conciliare è non diventare un fantasma per nessuno. Non ricordatevi di noi donne solo per il PIL o per le quote rosa. Noi siamo parte dello scheletro portante di questa società, quanto i maschietti. E se qualcosa non va da questa parte, anche l’altra ne risente. Negare questo è una forma di cecità egoistica.