Siamo tutti talmente concentrati sull’identikit dell’uomo violento, da dimenticarci tutto il contorno. Lo spiega bene Lea Melandri in questo articolo, apparso il 28 aprile sul Corriere, in cui riprende alcuni passaggi del libro di Claudio Vedovati “Il lato oscuro degli uomini”.
“La costruzione della categoria degli uomini violenti porta con sé la separazione di questi uomini dalla cultura maschile condivisa da cui nasce la violenza stessa. (…) consente alla cultura maschile di rimuovere, ancora una volta, qualcosa di sé”.
In poche parole, si allontana e si isola quel “prototipo” difettoso, senza parlare di un contesto culturale patriarcale che ha dato supporto e vita alla maschilità. Soprattutto questo manichino del violento diventa un modo per esorcizzare qualcosa che invece può coabitare con noi stessi. Questo categorizzare non aiuta ciascun uomo a guardare dentro di sé, ad analizzare e a risolvere quello che Michael Kaufman chiama “paradosso del potere maschile”, un potere che gode di privilegi ma che è anche «fonte di enorme paura, isolamento e dolore per gli uomini stessi», che esercita il controllo ma che è costretto a una vigilanza continua.
A mio avviso si tratta di un processo che dovrebbe coinvolgere anche l’universo femminile, perché si tratta di modelli che vengono tramandati non soltanto da modelli paterni, ma anche da modelli materni che non riescono a sciogliere dei nodi culturali pesanti all’interno della famiglia. Secondo me, non sono comportamenti che nascono dal nulla o per una natura impazzita. Anche inculcare il mito del successo a tutti i costi può provocare danni permanenti nel rapporto dei propri figli con gli altri. Rincorrere la perfezione, sia in chiave maschile che femminile, può essere devastante. Una mancanza, un fallimento possono scatenare un fattore arcaico sopito di violenza, che non essendo mai stato messo a fuoco e analizzato, spunta al primo colpo, al primo cedimento dell’impianto perfetto. Molti ricercano dei surrogati, ma a mio avviso sono solo dei palliativi, perché ormai il processo è innescato.
(…) L’affermazione di sé attraverso modelli di appartenenza identitari come il gruppo, la nazione, il lavoro, la guerra, usati per superare la percezione di precarietà della propria virilità. La passione per il potere come strumento che definisce pubblicamente la propria identità, che dà virilità, che nasconde la paura dell’impotenza (…)
Abbiamo costruito un modello sociale che porta in sé gli elementi distorsivi del passato patriarcale e quelli contemporanei del “tutto il meglio subito”, del successo e della perfezione. Siamo macchine di produzione perfette e infallibili, inquadrati in schemi e mentalità atte alla produzione, abituati a rapporti umani che assomigliano sempre più a un prodotto in serie e a una suppellettile nuova da aggiungere al nostro guardaroba di vita. Tutto questo cumulo di tensioni e di aspettative porta inevitabilmente ad avere delle bombe innescate pronte ad esplodere, come un vaso pieno d’acqua, pronto a traboccare. Ci sono persone incapaci di gestire queste bombe interiori, andrebbero aiutati a guardarsi dentro e a non rifiutare a priori l’esistenza di queste problematiche.
Siamo di fronte a un problema culturale, che esigerà un processo lungo di cambiamento e di cura, che deve coinvolgere l’intero tessuto della società. Finchè l’informazione avrà questi connotati e questi pregiudizi, sarà difficile scardinare certi retaggi e paraocchi che ci annegano in questo vortice di violenza senza fine. Vi consiglio questo articolo de Il ricciocorno schiattoso.