
Gli aforismi spesso rappresentano un mondo ideale, un’utopia, un sogno di equilibrio assoluto. Ultimamente si sente ripetere spesso la frase: “Fa’ quello che ami. Ama quello che fai”. Il tema mi ha solleticato dopo la lettura di un articolo di Miya Tokumitsu su Jacobin, intitolato In the name of love.
La frase che ho citato viene sempre più spesso applicata al lavoro, con risultati non sempre innocui. Spesso questa mitica aspirazione a seguire ciò che si ama, può portare alla svalutazione di ciò che si fa, insieme a una pericolosa disumanizzazione del lavoratore. In pratica si spinge a cercare di trarre reddito da una cosa che piace, ma in questo modo la si lega al profitto, che non è proprio un modo sano di ragionare.
A chi si rivolge allora questo slogan di vita? Incoraggiandoci a restare concentrati sulla nostra dimensione individuale, fatta di una felicità egoistica, perdiamo di vista gli altri, il loro lavoro, le loro condizioni di vita, in altre parole la collettività. Alla fine di questo processo, ci autoassolviamo da qualsiasi responsabilità nei confronti di coloro che lavorano senza amare ciò che fanno, in pratica di coloro che hanno bisogno di uno stipendio per sopravvivere.
Questa è una visione privilegiata del lavoro, che maschera la sua natura elitaria attraverso l’esortazione a migliorare se stessi e a seguire le proprie inclinazioni. Il lavoro diventa un qualcosa che si fa per se stessi, e se il profitto manca è solo per mancanza di una sufficiente passione. Questo vale per molti lavori intellettuali, creativi: in pratica, se sei un precario e stenti ad arrivare a fine mese, la colpa è solo tua.
Questo tipo di messaggio, che anche Steve Jobs amava trasmettere (vedi il discorso del 2005 ai laureati della Stanford University), è altamente pericoloso e distorsivo per la società, per le scelte di studio, per le giovani generazioni. Come se al mondo non esistessero lavori poco attraenti, ma che mandano avanti la società. Se si applica questo modello, il mondo del lavoro si divide in due categorie, in perfetta scissione classista: quello piacevole (creativo,intellettuale, socialmente rilevante) e quello che non lo è (ripetitivo, non intellettuale, a bassa specializzazione). Colui che fa un lavoro piacevole è di fatto un privilegiato in termini di ricchezza, status, istruzione, peso politico, nonostante sia una minoranza dell’intera forza lavoro.
Il resto del mondo del lavoro assume un valore minore agli occhi dei fautori di questo inno al fa’ ciò che ami e fallo con amore. Vengono cancellati tutti gli apporti indispensabili per consentire ai privilegiati di svolgere il loro lavoro d’oro: chi coltiva i campi, chi assembla per un salario da fame i supporti tecnologici di Jobs, chi trasporta le merci, chi pulisce gli uffici, chi si occupa dei magazzini e delle spedizioni ecc.
Questo è un mondo di sfigati che non sono stati in grado di applicare il mantra di Jobs e dei suoi simili? Questo mascherare il lavoro da amore, impedisce di rivendicare anche i propri diritti per un contratto serio e a una giusta retribuzione, tanto si gode del privilegio di fare un lavoro che si ama e che ti gratifica. Ci sono interi settori nei quali è normale venir ripagati solo in “moneta sociale”, in prestigio. Da questi meccanismi restano naturalmente esclusi tutti coloro che devono lavorare per sopravivere, in pratica la stragrande maggioranza.
Questo meccanismo porta a una società immobile, economicamente e professionalmente, che si autoriproduce sempre uguale a se stessa, perché esclude sempre le medesime voci offerte da coloro che restano esclusi dai circoli dei privilegiati. In questo processo le donne sono fortemente coinvolte, essendo di fatto le peggio remunerate ed essendo numerose in attività quali moda, media e arte e nelle professioni di cura e di insegnamento. In pratica, le donne dovrebbero fare questi lavori, non spinte dalla paga, ma perché naturalmente portate ad essi, come accade da secoli. Inoltre, una signora non dovrebbe mai parlare di soldi. Il mito del fa’ quel che ami è democratico solo in superficie.
Questa filosofia rientra anche nel sogno americano, protestante, dove chiunque si ingegni adeguatamente può raggiungere il successo. Perché sostituire il concetto di lavoro e di fatica con quello dell’amore? Lo storico Mario Liverani ci ricorda che “l’ideologia ha la funzione di presentare allo sfruttato, lo sfruttamento in una luce favorevole, come qualcosa di vantaggioso per gli svantaggiati”. Uno strumento perfetto per il sistema capitalista: distogliendo l’attenzione dal lavoro degli altri e mascherando il nostro con qualcos’altro, non potremo accorgerci della truffa ai nostri danni e per questo non rivendicheremo nulla, non lotteremo per i nostri diritti, non chiederemo di fissare dei limiti allo sfruttamento, non chiederemo che ci venga riconosciuto un giusto corrispettivo, non chiederemo orari compatibili con la nostra vita e la nostra famiglia. Naturalmente, ci saranno anche gravi ripercussioni sulla nostra propensione alla partecipazione politica attiva. Ci vogliono possibilmente inconsapevoli e tutti immersi in questa ideologia per tenerci occupati e separati, segregati nella nostra dimensione individuale.