Le lingue sono il crogiuolo delle culture e dei popoli che le hanno generate e adoperate nel corso dei secoli. Ci sono delle abitudini, delle soluzioni, delle scelte linguistiche che sono gli abiti e l’essenza di un popolo. Quindi, cosa c’è di più complicato del mestiere del traduttore? Tradurre è passare attraverso mondi, universi diversi dai nostri, assaporarne i contesti, i suoni, i profumi e renderli in un’altra lingua. È un processo creativo delicatissimo, perché ci sono lingue più “asciutte” e altre che hanno una complessità che implica l’uso di più parole per comunicare lo stesso concetto. Vi segnalo questa intervista a Antony Shugaar, traduttore statunitense di opere italiane, che sostiene che: “tradurre è come “camminare su un’autostrada, laddove leggere significa guidare a cento all’ora”, e a volte devi fermarti e fare un giro nel panorama intorno”. Il traduttore respira l’aria di tutto il libro e ne deve rendere l’atmosfera a chi poi leggerà. “Spesso si parla di parole intraducibili (“untranslatable words”), ma in un certo senso non esistono parole intraducibili. Possono servire tre parole, o una frase intera, o un paragrafo aggiuntivo, ma qualsiasi parola può essere tradotta. A meno di non trasformare un libro in un’enciclopedia, però, non c’è modo di risolvere il problema più grosso: i mondi intraducibili (“untranslatable worlds”)”.
Vi lascio con questa riflessione di Lucy Greaves: “I think it’s important to recognise that translation is about making creative decisions, particularly when so-called untranslatable words are concerned. Good translation shimmies its way round untranslatable words in a host of different ways, and we have to be aware that every word that we read in a translation has been chosen for a reason, in order to create a certain effect and to work as part of a whole. Just like the words in any piece of good writing, really”. Qui l’intero articolo.