Avete presente la sensazione di quando da piccoli scrivevate la letterina a Babbo Natale? Non so voi, ma già da piccola, non so se per caratteristica innata o per induzione da parte dei miei genitori, possedevo un naturale istinto di autoregolamentazione, che mi impediva di aspirare a più di quanto potessi legittimamente aspettarmi. In pratica, sapevo a priori i miei limiti e non mi veniva nemmeno in mente di poter desiderare qualcosa di straordinario. Per cui le mie richieste erano sempre molto “small”. Ricordo ancora, con le lacrime agli occhi, quando mi arrivò la mitica villa di Barbie! Non era un regalo previsto, eppure arrivò. Penso che per mia madre sia stato un vero salasso. È tra gli eventi rari che hanno segnato la mia vita. Anche a scuola, sono stata assuefatta al 6, nella media, senza eccellere e senza mai essere sul punto di venir bocciata. Quando avevo dei voti più alti ero sconcertata, abituata com’ero a non aspettarmi niente. All’università qualcosa è migliorata, ho avuto qualche momento in cui mi sembrava di essere uscita dal tunnel del calzino rammendato. Diciamo che alla fine, col voto di laurea, son tornata a non aspettarmi mai niente di eccezionale. Non è vero che in media stat virtus. No. Perché poi, col tempo, questo stato ti si appiccica e inizia ad intaccare ogni aspetto della tua vita. Sin da quando ero una co.co.pro. da 800 euro a Milano, avevo l’assillo del risparmio. Assurdo a 24 anni privarsi di tutti gli extra. Oggi, ripensandoci, ero pazza. Avrei dovuto sperperare fino all’ultimo centesimo e invece niente! In pratica, l’unico lusso concesso era qualche aperitivo e ogni tanto un capo di abbigliamento nuovo, vissuto sempre con grandi sensi di colpa. Naturalmente queste eccezioni coincidevano con le feste comandate, proprio come avveniva per i regali quando ero bambina. Insomma, ero orgogliosa anche solo per un libro nuovo o una rivista. Roba da pazzi. Frustrazione a go go e sogni mai realizzati. Poi ti adatti anche al lavoro e quindi la sindrome diventa malattia conclamata. Poniamo il caso iPhone. Non mi serve (mio padre docet: “ma ti serve davvero?” – “No” – “e allora non ne hai bisogno”), e poi non me lo posso permettere. Nel mio ufficio, ha una diffusione pari al 90%. Oggi, da curiosa, guardo i prezzi. Anche perché mio marito, in un momento d’incoscienza (non immagina minimamente quanto costa), ha esordito con un “te lo potrei regalare per Natale”. A questo punto, vista la cifra, posso affermare: Allucinante! Come riuscire a spendere una cifra simile senza sentirsi male. No, ancora una volta subentra la mia malattia che ha assunto contorni preoccupanti da quando son diventata mamma. Perché ora penso che ogni euro risparmiato è un piccolo contributo per l’avvenire della mia pargola. Ed anche un rossetto nuovo assume un connotato di grande evento, che destabilizza la mia vita da formichina. Mi sento in colpa persino se porto qualcosa in lavanderia o se vado dal parrucchiere una volta ogni sei mesi (o anche più). Perciò, credo che ripiegherò su un abbonamento annuale all’Internazionale, più accessibile e più in linea con il mio tenore di vita. Magari alla fine rinuncerò anche a questo. A volte vorrei guarire e sentirmi serena con la mia bilancia dei pagamenti. Perché ora, anche mia madre ammette che “la vita è una sola”. Poi penso alla mia piccina e rinuncio. Perché penso che lei è “l’eccezionale della mia vita” e che il suo sorriso quando torno a casa è molto più di quanto avrei potuto desiderare dalla vita. Chissà se tutto questo “far economia”e lavorare, alla lunga, farà bene alla mia gastrite? Chissà come si vive da cicale? Riflettendoci bene, ho paura che il mio disagio dipenda dall’ambiente in cui lavoro. Dovrei frequentare persone con una vita più simile alla mia.